È stato da poco pubblicato Automaton, volume collettivo a cura di Federico Leoni e Riccardo Panattoni per la Orthotes Editrice (Napoli-Salerno 2019, 190 pp., 20 euro), nella collana “Le parole della psicoanalisi”, che esplora le convergenze tra filosofia e psicoanalisi. Prendendo spunto da I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) e dal seminario su La lettre volée (1966) di Jacques Lacan, il volume indaga la nozione di autòmaton in quanto compulsione, automa, automatismo e così via attraverso i contributi di Matteo Bonazzi, Alessandro Foladori, Elio Grazioli, Stefan Kristensen, Federico Leoni, Franco Lolli, Riccardo Panattoni, Igor Pelgreffi, Gianluca Solla, Marco Tabacchini, Nicola Turrini.
Per gentile concessione della casa editrice e dell’autore, pubblichiamo il saggio di Elio Grazioli che riviene su una fase della carriera di Picasso in cui, incredibile dictu, l’artista smette di dipingere a seguito di una profonda crisi – che sia artistica, esistenziale o entrambe –, impugna una penna e si mette a scrivere. O forse a trascrivere il suo flusso di pensiero sotto forma di colata d’inchiostro. Scrive insomma come in trance. Una scrittura automatica in quanto atto compiuto meccanicamente senza intervento della coscienza? Una scrittura inconscia? Eppure, malgrado le sue ascendenze surrealiste, all’inconscio Picasso non credeva poi tanto…
Riccardo Venturi
Cosa incredibile per Pablo Picasso, che ha dipinto o disegnato ogni giorno instancabilmente fino alla morte, nell’aprile del 1935 ha una crisi così profonda che gli impedisce completamente di dipingere: «il periodo peggiore della mia vita», dirà[1]. Incapace di reagire, decide di mettersi a scrivere. Non aveva mai scritto prima, se non una breve poesia di circostanza trent’anni addietro.[2] Certo, era stato colui che aveva introdotto la parola nella pittura, ma qui si tratta di tutt’altra faccenda, quasi il contrario. D’altro canto frequenta da sempre poeti e illustra i loro libri, ma ora è lui a scrivere e ha propriamente rinunciato all’immagine visiva.
Ha cinquantadue anni, è alle corde con la moglie Olga, mentre l’amante Marie-Thérèse gli annuncia di aspettare un figlio, che sarà Maya e nascerà il 5 settembre. La crisi è appunto legata agli eventi esistenziali dell’artista e la sua reazione è tanto febbrile e radicale che lo porta a una «option brusque», come la definisce André Breton[3]. Il legame con un divorzio in atto da una parte e con una nascita dall’altra sembrano evidenti: Picasso lascia la pittura come lascia Olga e passa ad altro come con il cambiamento che comporta la nascita di Maya. D’altro canto, per passare alla scrittura Picasso ha per così dire bisogno di una crisi, di un punto di arresto dalla pittura.
Che cosa scrive? «si yo fuera afuera…» – in italiano: «se uscissi fuori le belve verrebbero a mangiare nella mia mano e la mia camera non apparirebbe se non fuori di me altri soldi girerebbero intorno al mondo…», eccetera – tutto di seguito, senza punteggiatura, senza ripensamenti, senza correzioni per 34 pagine, insomma una “scrittura automatica”. Eppure di scrittura automatica si parlava da più di dieci anni e Picasso non è di quelli che amano arrivare dopo, neppure secondo. Era però tornato sull’argomento Breton solo pochi mesi prima, in seguito a uno scatenamento di critiche, con il testo significativamente intitolato “Le message automatique”[4], il messaggio piuttosto che la scrittura, si noterà. Da parte sua Picasso aveva cresciuto una piccola ossessione per la questione, una di quelle fissazioni che coltivava lungamente e che lo portò perfino a voler acquistare il manoscritto dell’Immaculée Conception che Breton e Paul Éluard avevano scritto a quattro mani nel 1930, per verificare e dimostrare che i due poeti vi avevano fatto delle correzioni. «Il est difficile, sinon impossible, d’être authentique. Il y a toujours un moment où l’on arrange un peu», disse[5]. La sua prima idea era dunque quella di portare al limite la questione dell’automatismo, ma d’altro canto l’automatismo ha intrinsecamente a che vedere con l’impossibilità, e sull’autenticità poi bisogna sempre intendersi.
La radicalità della reazione di Picasso nasce d’altronde dal senso non scontato di solitudine e di abbandono in cui si è trovato e di depressione in cui si è chiuso di cui testimoniano molti.[6] C’è cioè dell’autismo nell’automatismo, almeno inizialmente, un’introflessione, che assume anche l’inflessione del metapensiero, quando non del metalinguaggio: trascrivo ciò che mi viene in mente, senza mediazioni, per vedere come veramente funziona, come funzionano il pensiero e insieme la scrittura. Era la prima tesi di André Breton che nel Manifesto del surrealismo aveva definito la scrittura automatica come lo strumento «col quale ci si propone di esprimere […] il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».[7] È, questo, anche il bersaglio principale delle critiche alla scrittura automatica intesa come pretesa immediatezza, fede idealista in una possibile simultaneità-coincidenza di pensiero e linguaggio, “pensée parlée”,[8] pensiero “puro”, disincarnato.
D’altro canto, si erano chiesti i surrealisti stessi e deve aver senza dubbio pensato il pittore Picasso, può esistere e che cosa può significare una “pittura automatica”? Lo stesso tipo di legame mente-mano, di trascrizione di un pensiero visivo in immagine piuttosto che in parole? Pierre Naville ne aveva negato risolutamente la possibilità e con lui molti altri, tanto che Breton aveva dovuto prendere letteralmente in mano la situazione, cioè la rivista “La revolution surréaliste”, ed elaborare la teoria di una pittura surrealista sganciata però dalla scrittura automatica, quella della “bellezza convulsa”.
Picasso era andato avanti per la sua strada, amato sia dai surrealisti bretoniani sia da quelli dissidenti raccolti intorno a Georges Bataille, forse pensando di essere sempre stato “automatico”, nel senso di libero e slegato da presupposti, e lo dimostrava cambiando “stile” quando voleva e anzi praticandone simultaneamente diversi. Spiegazioni, del resto, non ne dava, ma è uno dei sensi possibili della sua famosa dichiarazione: «Io non cerco, trovo».
Le ultime opere che realizza prima del fatidico 18 aprile 1935 sono incisioni e disegni, l’ultimo il giorno prima, sul tema della “Minotauromachia”. Vi si confrontava con il labirinto e con il mostro che lo abita, che sono sicuramente metafore della condizione, anche estetica, in cui si sentiva. Che cosa fa dunque? Lungi dal fuggire per la verticale della scrittura, come sostengono alcuni seguendo il mito di Icaro,[9] impugna la penna per immergervisi a capofitto.[10] La sfida per Picasso sta proprio in quella che agli altri appare come una impossibilità assoluta. Per lui l’impossibilità non è infatti uno stallo, un’impotenza, né un ideale utopico a cui tendere, ma invece la sfida del limite e il perno di uno spostamento.
Allora la scrittura automatica diventa il suo labirinto, non più rappresentato, non più in figura, ma in atto, in process, per usare un’espressione che in arte acquisterà valore particolare solo alla fine degli anni ’60. L’automatismo diventa cioè un processo, una strategia che da assoluta si fa dialettica e attiva, composta di aggiustamenti, pentimenti, correzioni, aggiunte, associazioni, slittamenti, sviluppi. È qui che i commentatori giustamente ma limitatamente cominciano a dire che Picasso ha abbandonato la scrittura automatica, che anzi in fondo è sbagliato parlarne nel suo caso. Eppure poi i termini e le descrizioni che usano continuano a rimandarvi: di «spontaneità relativa» e di «écriture à tiroirs» parla Christine Piot,[11] lo stesso Breton parla di «scrittura semi-automatica», e altri di scrittura-piega, o rizoma, pluridirezionale, in divenire, applicando chiavi interpretative che si rifanno evidentemente a Gilles Deleuze.[12]
L’idea resta che cosa si intenda per “automatismo” e che cosa comporti. Quello picassiano non è quello bretoniano, quello surrealista; è un altro, perché a Picasso non interessa il funzionamento del pensiero, e tanto meno l’inconscio, termine che non ha mai usato.[13] Che cosa gli interessa? Vediamolo seguendo prima di tutto uno dei suoi interpreti maggiori, Michel Leiris. Già il titolo del suo testo fornisce tutto il programma: Picasso écrivain ou poésie hors de ses gonds, ovvero: Picasso scrittore o la poesia fuori dai gangheri, ma anche, letteralmente, fuori dai cardini, scardinata.[14] Senza mai chiamarla scrittura automatica, Leiris la definisce «libera colata che non prende mai forma di discorso»;[15] non una colata qualsiasi – Leiris conosce bene Picasso e sa sia quanto gli stia a cuore la “libertà”, sia al tempo stesso la sua ambizione di puntare a questioni fondanti, – bensì un «soliloquio senza ordine logico […] con il tono di qualcuno che eroga dottamente verità prime».[16] “Fuori dai gangheri e dai cardini” significa dunque fuori dall’ordine logico, ma mirando comunque a verità. Quali “verità”? «Tempo eterno […], il presente dell’indicativo: la cosa è qui, o arriva in questo momento stesso. […] Flusso […] Défilé azzardato […] Sorta di salmodia dove è spesso l’impossibile ad essere significato», ovvero: «Fare virtualmente prodursi ciò che ragionevolmente non potrebbe ma che prende corpo grazie a un’asserzione che deve, se così si può dire, essere creduta sulla parola, questo è il potere sbalorditivo di cui questo tipo di scrittura si avvera dotata in ogni istante. “Fiat lux”, “Apriti sesamo”. Che la cosa sia detta ed ecco che esiste!»[17]
Non è dunque il legame con il pensiero ad essere in causa, ma con la cosa, con il reale, da sempre la vera preoccupazione di Picasso (e di Leiris), legame paradossale, legame “virtuale”, che rovescia i tempi e costringe il linguaggio – e il pensiero – a fare dei giri sbalorditivi, ad annodare, ma noi a credergli sulla parola. È questo lo spostamento in atto nel portare il linguaggio ai limiti dell’automatismo, ai limiti dell’impossibile. La scrittura automatica è per Picasso l’esercizio dello scrivere il reale in ogni istante, il che significa, prosegue Leiris, anche fare del linguaggio a sua volta «cosa reale».[18] Cioè, credere sulla parola significa anche credere alla parola, nel senso qui di credere ai suoi giri, al suo movimento interno. Nell’automatismo vi è cioè anche “auto-mobilità”, direbbe Rosalind Krauss.[19]
Nella sua ridefinizione, anzi “reinvenzione” (secondo il titolo del suo testo) del medium, date per fallite le definizioni in base alla specificità e autoreferenzialità, dal Laocoonte di Gotthold Lessing al Nuovo Laocoonte di Clement Greenberg e oltre, che qui è come dire la specificità della scrittura automatica, Krauss riprende la nozione di medium da un’altra prospettiva. Rifacendosi a Stanley Cavell, definisce medium l’assunzione delle regole interne di un qualsiasi oggetto o dispositivo, sia esso un linguaggio ma anche qualsiasi altra cosa, come forma del proprio operare, ovvero come fonte delle convenzioni a partire dalle quali l’artista crea, o che reinventa, o, secondo la metafora che usa nel suo libro più recente, da cui trae la spinta come fa il nuotatore sul bordo della piscina.[20]
Forte è la tentazione, scrive esplicitamente, di «usare automatismo di Cavel come sostituto di medium», se non fosse diventato lessicalmente compromesso a causa della sua associazione, dice, appunto con l’automatismo psichico surrealista.[21] Seguendo dunque Cavell, Krauss vede il medium come «una particolare miscela di un certo sfogo liberatorio di spontaneità che associamo, per esempio, all’invocazione surrealista del termine “automatismo”, e dell’insieme di convenzioni (automatismi) apprese più o meno meccanicamente, contenute nei media tradizionali, che non solo rendono concepibile improvvisare […] ma rendono anche possibile verificare la validità di una data improvvisazione».[22] La concezione dell’automatismo quindi, proprio nel suo rapporto con il medium, diventa anche qui dialettica e attiva: «Un automatismo artistico è la scoperta di una forma che genera un insieme continuo di nuove istanze, e le lega insieme in modo diverso rispetto al linguaggio; inoltre, esso riconosce la necessità di cogliere le occasioni di un medium ora liberato dalle garanzie della tradizione artistica; infine suggerisce che il modo di creazione dell’opera è “autonomo”, liberato dal suo autore»,[23] ovvero, a sua volta risultato di una singolare immersione dell’autore nel “flusso”.
Ora, benché a Krauss stia più a cuore l’aspetto formalista di tale definizione di automatismo, il suo legame con il medium è in grado di illuminare la pretesa di Picasso (e di Leiris) di farne uno strumento di cattura del reale, perché ne evidenzia la strategia bifrontale che, annodando linguaggio e reale, mentre segue le peculiarità del linguaggio, al tempo stesso prende al laccio la cosa.
In fondo, a questo punto, forzando un poco le cose ma forse non troppo, la scrittura automatica di Picasso è allora la rivelatrice fase di passaggio, di traduzione, per così dire, dalla pittura in scrittura, tra quanto di automatismo c’era già nel suo cubismo e postcubismo, e quello che farà poi, una pittura “fuori dai gangheri” a cui comincerà a mettere sempre la data precisa, come un unico flusso automatico: «Le mie tele, finite o no, sono le pagine del mio diario», ha detto a Françoise Gilot[24].
In copertina: Pablo Picasso, La Minotauromachie, 1935
[1] Riportato da Antonio Jiménez Millàn, “La Escritura de Picasso en el contexto de las vanguardias”, in “Litoral” Malaga, 1981, pp. 205-206.
[2] Un resoconto dettagliato dell’attività di scrittura di Picasso di si trova in Pablo Picasso, Écrits, Réunion des Musées Nationaux/Gallimard, Paris 1989.
[3] André Breton, “Picasso poète”, in “Cahiers d’Art”, 1936.
[4] André Breton, “Le message automatique”, in “Minotaure”, n. 3/4, dicembre 1933.
[5] Testimonianza di Françoise Gilot riportata in Christine Piot, “Picasso et la pratique de l’écriture”, in Pablo Picasso, Écrits, cit., p. XXX.
[6] Vedi la ricostruzione del periodo in Pierre Cabanne, Le siècle de Picasso, vol. II, Gallimard, Paris 1992, pp. 740-743.
[7] André Breton, “Manifesto del Surrealismo” (1924), trad. it. in Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino 2003, p. 30.
[8] Vedi Ana Gonzalez Salvador, “Écriture automatique et écriture désautomatisée”, in “Textyles”, n. 8, 1991, pp. 207-220.
[9] Per esempio Encarnación De Truchis, “La fuite hors du temps dans l’écriture de Pablo Picasso”, in “Cahiers d’études romanes”, n. 22, 2010: http://etudesromanes.revues.org/566.
[10] Della scrittura automatica di Picasso come labirinto parla tra gli altri Marie-Laure Barnadac nel suo “La poésie de Picasso dictionnaire abrégé…”, in Pablo Picasso, Écrits, cit., p. XIV.
[11] Christine Piot, “Picasso et la pratique de l’écriture”, in Pablo Picasso, Écrits, cit., p. XXVII.
[12] Così in particolare Michaël Androula, “Dans le laboratoire de l’écriture de Picasso: présentation d’un dossier génétique”, in “Genesis”, n. 15, 2000, pp. 11-28.
[13] Molto spiritosa è la sua battuta, in qualche modo riferibile a questo: «È un po’ come mettersi nudi quando non è il momento…» (Pierre Daix, La Vie de peintre de Pablo Picasso, Seuil, Paris 1977, p. 265)
[14] Michel Leiris, “Picasso écrivain ou la poésie hors de ses gonds”, in Pablo Picasso, Écrits, cit.
[15] Ibidem, p. VII.
[16] Ivi.
[17] Ibidem, pp. VIII-IX.
[18] Ibidem, p. XI.
[19] Rosalind Krauss, “Oggetti ‘specifici’”, trad. it. in Reinventare il medium, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 41.
[20] Rosalind Krauss, Sotto la tazza blu, trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2012, p. 26 e passim.
[21] Ibidem, pp. 81-82.
[22] Rosalind. Krauss, “‘La roccia’: i disegni per la proiezione di William Kentridge”, trad. it. in Reinventare il medium, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 116-117.
[23] Ibidem, p. 119.
[24] Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, Calmann-Lévy, Paris 1965, p. 116.