È appena uscito presso Silvana Editoriale (pp. 136, € 30) Early Works 1980-1984 di Olivo Barbieri, a cura di Corrado Benigni, catalogo della mostra omonima in corso al Monastero di Astino a Bergamo (visitabile sino al 31 ottobre). Dal volume proponiamo, per la cortesia degli autori e dell’editore, il testo critico del curatore e una scelta delle immagini in mostra e riprodotte nel catalogo.
Il paesaggio è da sempre un concetto inafferrabile. Quanto più risulta esplicito e di per sé risolto, tanto più sfugge via, depista e sfuma. Come ha scritto Andrea Zanzotto: «Non c’è mai un paesaggio che non contenga in sé una quantità di altri paesaggi. Perché l’insieme di ciò che noi abbiamo percepito come tale è soltanto un riflesso di qualcosa che è in noi. Siamo noi che creiamo il paesaggio»[1].
Per Olivo Barbieri rappresentare uno spazio è costruirne uno, così come descrivere è narrare. Premesse già implicite nelle intenzioni degli esordi, come testimoniano le fotografie realizzate nei primi anni Ottanta, qui riunite per la prima volta in un volume organico. Scene di provincia riscoperte nei suoi rimossi contrappunti di mistero e quotidianità, davanti alle quali viene da chiedersi: in che modo si forma nella nostra mente l’immagine che abbiamo del mondo? E soprattutto, vediamo davvero la realtà?
Per rispondere a queste domande occorre partire dall’idea che il mondo non è un monolite immobile, ma qualcosa il cui senso può essere penetrato con lo sguardo. Oggi le neuroscienze ci dicono che per creare la nostra visione del mondo non usiamo solo gli occhi, ma al novanta per cento il cervello: come dire che non siamo solo osservatori, ma anche creatori di significato[2].
Olivo Barbieri ha declinato il tema della percezione e della vista rivolgendo l’attenzione non alle cose, bensì alle loro condizioni di visibilità. In questo modo l’autore si interroga sulla fotografia come linguaggio, come modalità di rappresentazione, prima che racconto visivo. Osservando le sue fotografie ci rendiamo conto di non vedere accuratamente la realtà perché la filtriamo attraverso occhi capaci di una lettura limitata delle cose: se qualche segno giunge a essere identificato, gli altri restano indietro, appena abbozzati, fossili ottici, impronte, lineamenti, pronti ad affiorare benché ancora indiscernibili. Il fotografo si muove, invece, in uno stato di perenne pre-comprensione e allerta per cogliere ciò che non è strettamente visibile.

Il tratto che maggiormente sembra caratterizzare le immagini di Barbieri è dunque l’indefinito. Da questo concetto prende le mosse tutta la sua riflessione intorno alla natura del fatto fotografico.
Ma cosa intendiamo davvero con il termine “indefinito”? E in che modo questo concetto entra nelle sue fotografie? Leopardi nello Zibaldone ha parlato di indefinito come soglia dove lo sguardo può cercare una parvenza di quel che è negato. Se, infatti, è impossibile – nel pensiero e nell’immaginazione stessa – attingere all’infinito, soccorre quel nesso tra visibile e invisibile, tra prossimità e lontananza, tra confine e suo oltre, che è appunto l’indefinito. L’indefinito altro non è allora che la risposta all’infigurabilità di quegli “interminati spazi” evocati dallo stesso Leopardi nell’Infinito, ancora oggi la più importante poesia italiana sul vedere. È stato proprio il poeta di Recanati ad alludere all’“altra vista” come capacità dell’uomo di guardare non solo con gli occhi, ma anche con l’immaginazione[3]. Esattamente ciò che avviene in Barbieri che, velando e insieme rivelando le cose, mette in luce la stretta relazione con l’apparenza, con il fluttuare delle forme, dei loro confini. Le sue fotografie mostrano come l’impedimento (proprio come la siepe nella poesia di Leopardi) sia fonte d’immaginazione, l’“altra vista”, appunto, che dietro un’immagine scopre un’altra immagine, passaggi di un cammino che non separa la conoscenza dall’immaginazione.
Nelle fotografie raccolte in questo volume, autentici luoghi dell’indefinito, il suo sguardo è acuto, minuzioso, tenace, capace di perlustrare oltre le superfici dell’insignificanza, oltre la patina di un banale solo apparente, che riguarda tutti noi. Si fa così esploratore di un finito che racchiude il senza fine, cercando un modo attraverso il quale far vedere mentalmente ciò che sfugge alla rappresentazione.

L’indefinito di Barbieri nulla ha a che vedere con il concetto di vaghezza evocato per le fotografie di Luigi Ghirri, con il quale ha condiviso una lunga amicizia e molti progetti. La vaghezza delle immagini dell’autore di Kodachrome (che riprende la tradizione di certa pittura italiana rinascimentale) riguarda, infatti, principalmente il tono e il colore con cui il fotografo rappresenta la realtà in una dimensione onirica, in un’atmosfera rarefatta, presentando «tutte le apparenze del mondo come fenomeni sospesi», come ha evidenziato Gianni Celati[4]. L’opposto di Barbieri, dove il tono è spesso alto, anche nelle immagini sfocate, volutamente mosse e illeggibili in certe parti, e dove la dimensione dell’indefinito ha più a che fare con il soggetto, con i luoghi fotografati, che, nella composizione perfetta della scena, divengono metafora di uno stato di attesa e di spaesamento, di una fuoriuscita dalla “sfera relazionale del reale e della storia”, per dirla con Jean Baudrillard[5].
Il concetto di indefinito per Barbieri è dunque strettamente legato alla nozione di tempo, o meglio, a uno stato di atemporalità entro cui le fotografie prendono forma. Le sue immagini sono il risultato di una riflessione lunga e approfondita della realtà, che a sua volta ci fa riflettere sull’eventualità di rendere possibile, nonostante tutto, una temporalità diversa. La stessa inquadratura prospettica riguarda più il tempo che lo spazio: suggerisce e guida un movimento verso qualcosa da vedere oltre l’istante in cui accade. Le sue fotografie chiamano in causa l’apparizione, il salto di scala, rilanciando la dinamica dell’osservazione, mediante la quale cogliere le configurazioni impreviste del paesaggio, partendo dall’idea che nessun paesaggio in fotografia è “naturale” e tutti i paesaggi sono costruiti, cioè modellati dalla visione che la macchina a essi sovrappone.
Prendiamo i due dittici: Napoli 1982 (tav. 23 e 24) e Follonica Grosseto 1983 (tav. 36 e 37). Entrambe queste immagini distendono lo spazio nel tempo, a differenza di quanto avviene di solito in fotografia, dove il tempo è concentrato in una frazione di secondo fino a farlo sparire come se lo spazio potesse esistere da solo. L’intervallo tra ciascuna delle due immagini ci dice che la fotografia non ha nulla di istantaneo e che ogni frammento di tempo ha una durata. Nel campo visivo del fotografo, e di riflesso dell’osservatore, quindi, entrano non soltanto le cose ma anche le immagini mentali delle cose, le loro raffigurazioni. In questo modo Barbieri rappresenta un luogo o una situazione sovrapponendo sia l’immagine reale (cercando di farlo nel modo più preciso) sia quella ricavata da una percezione non immediatamente sensibile. “Nel mio lavoro c’è solo rappresentazione. È tutto vero”, ha detto con un efficace paradosso lo stesso Barbieri.
Dodici fotografie contenute in questo volume furono pubblicate, con un testo di Franco Vaccari nel catalogo Olivo Barbieri, in occasione della mostra personale del 1983 a Rimini. Sette sono in Viaggio in Italia, il progetto voluto nel 1984 da Luigi Ghirri, che ha riunito venti fotografi, quasi tutti italiani, appartenenti alla nuova generazione di allora (tra cui, oltre allo stesso Olivo Barbieri, Guido Guidi, Mario Cresci, Giovanni Chiaramonte, Vincenzo Castella, Mimmo Jodice e Gabriele Basilico)[6]. Questa esperienza, come una sorta di racconto corale, ha tentato di fare il punto sull’immagine dell’Italia prodotta dalle mutazioni degli anni Sessanta e Settanta, mediante l’utilizzo del colore, una scelta formale rivoluzionaria per i tempi, tenuto conto che fino a quel momento la fotografia a colori era vista con sospetto, legata soprattutto al linguaggio commerciale e della pubblicità.
In senso concettuale, Viaggio in Italia – ancora oggi considerato un manifesto per le nuove generazioni – ha lavorato alla possibile ridefinizione dell’idea di paesaggio e contemporaneamente a un ripensamento del fatto fotografico, dando avvio a una stagione straordinaria e unica per la fotografia italiana, di cui Barbieri è stato uno dei protagonisti più incisivi. Racconta l’autore: “La mia è stata la prima generazione a livello internazionale (Robert Adams, Stephen Shore, Lewis Baltz, Michael Schmidt, Paul Graham, Thomas Struth) che consapevolmente si fece carico di scoprire cosa c’era intorno ai centri storici. Le periferie e le infrastrutture, allora sbrigativamente ritenute inguardabili, non degne di essere rappresentate perché tristi e disarmoniche, divennero soggetti ricorrenti. La nostra attenzione per i margini, per le periferie, fu anche una reazione esasperata da quell’attenzione istituzionale eccessiva sul centro storico come cliché, come cartolina… Si voleva uscire dal museo, dalla scenografia classica, scavalcare la quinta teatrale”[7].
In questa direzione, Viaggio in Italia ha in qualche modo anticipato le teorie del “terzo paesaggio” sviluppate da Gilles Clément nel suo Manifesto del 2004 e divenute una chiave di lettura della contemporaneità; un modo nuovo di guardare lo spazio partendo da quei “luoghi abbandonati dall’uomo”[8]: grandi aree disabitate, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili. Esattamente quello che avevano fatto trent’anni prima quei giovani fotografi rivolgendo lo sguardo all’incompiuto, all’imperfetto, all’indefinito, al non espresso, dove trovava rifugio la diversità.
Tuttavia intorno alla loro opera, negli anni, ha preso sempre più forma un equivoco. È, infatti, fuorviante definire questi autori “fotografi di paesaggio”, come spesso si è fatto, ma in modo così approssimativo da finire per diventare una specie di etichetta collettiva. Anche per colpa delle troppe incrostazioni semantiche che hanno afflitto il concetto di “paesaggismo”, una volta degradato a strumento critico utile a definire un’idea di “stile” o ancora peggio stabilire l’esistenza di qualche conventicola artistica.
I fotografi di Viaggio in Italia, e tra questi soprattutto Olivo Barbieri, sono completamente estranei all’influsso di questa definizione classicheggiante. Per loro il paesaggio è il pretesto per indagare l’atto del vedere, il rapporto tra apparenza e illusione, vero e rappresentazione del vero. Come testimoniano anche questi Early Works, dove ritroviamo già tutti gli elementi e i temi che nei decenni successivi Barbieri ha continuato a sviluppare con i suoi progetti: l’illuminazione artificiale nella città contemporanea, le vedute dall’alto, gli interni delle abitazioni e dei bar, i segni nel paesaggio. Una ricerca complessa, che si è sviluppata in un continuo transito di linguaggi, attraversamenti temporali di e con discipline diverse, al fine di stimolare interpretazioni e riflessioni per una lettura aperta del mondo e dell’opera stessa dell’autore.
Come il concetto di paesaggio, il lavoro di Barbieri non si lascia interamente ricondurre a direzioni interpretative troppo definite, mantenendo un proprio grado di autonomia, di resistenza. Attraverso la sottile ambiguità delle sue immagini, il maestro emiliano ci insegna come sia necessario guardare moltiplicando i punti di vista dentro e fuori di noi, per vedere in modo più consapevole ciò che è indefinitamente vero.
In copertina: Tuscany 1982 © Olivo Barbieri (particolare)
[1] Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Bompiani, Milano 2013.
[2] Beau Lotto, Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
[3] Sul punto, cfr. anche Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole, testi di Gianni Celati, Feltrinelli, Milano 1996.
[5] Jean Baudrillard, L’illusione della fine, Anabasi, Milano 1993.
[6] Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria 1984.
[7] Walker Evans in Italia, a cura di Laura Gasperini, intervista a Olivo Barbieri, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2016.
[8] Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.