La sede romana della Gavin Brown’s Enterprise, situata all’interno della chiesa sconsacrata di Sant’Andrea dei Vascellari, ospita la prima personale italiana di Frida Orupabo 12 Self-Portraits, recentemente prorogata fino all’undici luglio.
La giovane artista norvegese, dopo la partecipazione alla 58esima edizione della Biennale di Venezia, presenta un autoritratto collettivo, in cui la denuncia di questioni ancora estremamente rilevanti quali la violenza di genere e le discriminazioni razziali passa per una generale ridiscussione del retaggio colonialista e patriarcale insito nella società occidentale.
Le dodici opere realizzate da Frida Orupabo suddividono il percorso espositivo in tre momenti distinti. Tre volti femminili serigrafati su fogli di alluminio sovrapposti occupano il centro della sala, definendone lo spazio. Le opere cercano e sfidano lo sguardo dello spettatore, testimone passivo della violenza latente da cui sono mosse le immagini prese dal web e dall’archivio personale dell’artista.

Sulla parete alla destra dell’ingresso della galleria, otto collage, realizzati con l’applicazione di numerosi strati di carta fotografica, fissati su altrettanti fogli di alluminio, animano la tenda grigia che ricopre le mura della chiesa risalente al IX secolo. Un volto femminile disposto in orizzontale sembra guardare verso il basso, dove una figura in uniforme su un cavalluccio a dondolo affianca un volto nero sovrastante un corpo bianco che impugna un’arma.

Più in alto una donna si trattiene a un masso per evitare di cadere vertiginosamente a ridosso di una bambina curiosamente posizionata a fianco di una sega, mentre dal lato opposto due grottesche figure alate volano sopra un’altra donna, dallo stesso volto, in un atteggiamento apparentemente più disinvolto.

La staticità e l’illusorio movimento di questi lavori, privi di una loro autonomia, si concretizza ulteriormente nel peso della scultura che conclude il percorso espositivo. Il bilanciere realizzato dall’artista a Roma, in collaborazione con un fabbro di Trastevere, presenta il calco del volto della stessa Orupabo da entrambi i lati. L’espressione assente e la posizione della testa potrebbero facilmente rimandare sia alla morte sia al sonno dell’artista, rievocando e soprattutto anticipando, con una certa amarezza, il recente omicidio di George Floyd a Minneapolis.

Le opere di Frida Orupabo narrano una storia fatta di silenzio e di oppressione. Da un punto di vista stilistico i lavori dell’artista, autodidatta, fanno eco alle silhouette di Kara Walker quanto alle performance di Carlos Martiel, pur ritrovando la propria radice nei collage dadaisti del primo Novecento. Tuttavia la formazione da sociologa della Orupabo e le sue origini nigeriane evidenziano ancor di più il preciso intento delle opere esposte. I corpi neri diventano immediatamente un chiaro messaggio politico. La ricontestualizzazione, spesso ambivalente, delle immagini rifugge da una rappresentazione sessualizzata e oggettificata dei corpi femminili, il cui sguardo forza costantemente lo spettatore a un confronto con l’opera.
La stratificazione delle immagini così come l’assenza di titoli rimette in discussione lo stesso concetto di identità. In tal senso l’utilizzo di Instagram, sotto lo pseudonimo di Nemiepeba, per la condivisione dei propri lavori, concretizzati ed esposti solamente a partire dal 2017, ne accentua l’ambiguità. L’artista ha infatti raccontato come fin da piccola la sua nazionalità e la sua stessa identità siano state messe costantemente in dubbio, facendo delle proprie opere un mezzo per archiviare e confrontarsi con il passato.
La reiterazione dei volti, specie in un contesto pubblico come quello di un social network o di un’esposizione, sottolinea la dualistica efficacia comunicativa delle immagini. I volti delle opere di Frida Orupabo sono stanchi e voluttuosi, vulnerabili e vigorosi, mostrando quanto ogni singolo individuo possa influenzare ed essere al contempo influenzato dalla contraddittorietà della realtà circostante. Se da una parte la fotografia è stata considerata una forma d’arte solamente in seguito alla rappresentazione dell’individuo qualunque, dall’altra è proprio l’anonimato in cui si muovono le immagini selezionate dalla Orupabo a manifestare la natura partecipativa di questi autoritratti, in cui la narrazione dell’artista confluisce nella memoria collettiva.
In copertina: Frida Orupabo, Untitled, 2020