Iconografia del Sé autoimmune

L’attuale pandemia di Covid-19 irrompe come una nota stonata nel panorama della transizione epidemiologica, che ha visto l’umanità lasciarsi progressivamente alle spalle le malattie infettive per piombare nel mondo di quelle cronico-degenerative. Tratto distintivo della malattia infettiva è la presenza di un agente patogeno esterno, che entrando in contatto con l’organismo ospite, lo ammala. Il virus ha così riacceso in noi il terrore della contaminazione, della penetrazione dell’Altro, generando ciò che Arthur e Mari-Louise Kroker – nel loro Body invaders (1988) – chiamerebbero ‘corpi in panico’, ossessionati dal rischio del contagio. Gli ‘invasori’, protagonisti della teoria dei germi di Louis Pasteur, sono denotati da sempre attraverso metafore, e segnatamente metafore belliche, che dipingono l’orizzonte batteriologico ed immunologico in termini di difesa di Ego dagli attacchi di Alter. Invasore è anche, al di fuori dell’infettivologia, il cancro, contro il quale si combattono battaglie, si auspicano vittorie, si ricercano nuove e più efficaci armi, si condanna socialmente la resa[1]. Il linguaggio medico è costellato di dispositivi metaforici di stampo militare, e il sistema immunitario, avamposto del nostro corpo minacciato da ciò che lo circonda, viene antropomorfizzato e investito di quella stessa agentività propria dei microrganismi che lo assediano: per l’appunto, gli agenti patogeni. Gli anticorpi, come soldati al fronte, al confine fra noi e il mondo, disegnano i contorni del nostro ‘io immunitario’, capace anzitutto di distinguere ciò che ci è proprio, il self, da ciò che ci è estraneo, il non-self. L’immunologia mobilita in questo modo il concetto di identità e – nelle parole del biologo Frank MacFarlane Burnet (1969) prese a prestito dalle teorie psicoanalitiche – si fa vera e propria «scienza del sé e del non-sé», carica di connotazioni filosofiche.

Dramatis personae 2. T-Cell, realizzata dall’illustratore Spooky Pooka ©, raffigurante uno dei protagonisti del morbo di Crohn – un linfocita T –, patologia autoimmune da cui è affetto.

Il dibattito interno all’immunologia contemporanea, magistralmente ricostruito dall’antropologa Roberta Raffaetà in Identità compromesse. Cultura e malattia: il caso dell’allergia (2011), ha progressivamente abbandonato la dicotomia self/non-self, inadatta a spiegare reazioni immunitarie più complesse come, appunto, quella allergica. La distinzione tra le due entità non è infatti possibile in termini assoluti, poiché il self si definisce solo all’interno della sua relazione con l’alterità: non è un oggetto statico ma piuttosto un processo complesso in costante ridefinizione e adattamento al contesto. Ciononostante, la metafora del sistema immunitario come fortezza attorno alla nostra persona biologica permane nel senso comune e nel linguaggio che consente al sapere specialistico di dialogare con quello profano, ad esempio nel momento della comunicazione di una diagnosi. La capacità delle metafore di veicolare immaginari familiari, e con ciò di facilitare la comprensione immediata di fenomeni oscuri o sconosciuti, si rivela particolarmente utile quando le patologie diagnosticate sono caratterizzate da meccanismi complessi e controintuitivi.

Il concetto di immunità – e in particolar modo di quella acquisita attraverso l’esposizione al patogeno stesso, fondamento dell’efficacia dei vaccini – è da questo punto di vista paradigmatico in quanto strutturalmente aporetico. Il male, per poter essere fronteggiato e vinto, deve essere incorporato, e rappresenta la condizione necessaria per la predisposizione della sua stessa rovina: «non potendo raggiungere direttamente il proprio obiettivo, [la procedura immunitaria] è costretta a perseguirlo rovesciato. Ma così facendo, lo trattiene nell’orizzonte di senso del proprio opposto: può prolungare la vita solo facendole di continuo assaggiare la morte»[2].

A tale intrinseca antinomia si somma quella dei fenomeni che maggiormente hanno contribuito a mettere in crisi il modello dell’immunologia classica basata sulla dicotomia self/non-self: l’allergia – che implica una reazione spropositata a un elemento estraneo ma generalmente innocuo – e l’autoimmunità – processo che vede rivolgersi l’azione degli anticorpi contro i tessuti sani dello stesso organismo, in altre parole contro il self. Quest’ultimo meccanismo è stato a lungo negato all’interno della comunità scientifica proprio in ragione della sua natura ossimorica, non rispondente al principio di horror autotoxicus secondo cui la natura ha orrore dell’auto-tossicità. L’esistenza di auto-anticorpi, afferma Paul Ehrlich nel 1902, sarebbe massimamente disteleologica. Storicamente, le teorie dell’auto-intossicazione sviluppate a fine Ottocento scompaiono totalmente dal dibattito scientifico degli anni compresi tra le due Guerre Mondiali, perché associate – secondo la filosofa e immunologa Anne-Marie Moulin – a quelle ‘tendenze di morte e di distruzione’ che i biologi dell’epoca tentavano più o meno consciamente d’ignorare. Solo negli anni ’50 l’autoimmunità acquisirà un nome e una legittimità, sulla scorta di una lunga lista di patologie – come l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, la sclerosi multipla – la cui eziologia pur contraddittoria non poté più essere negata.

L’immagine aberrante di un corpo che si autodistrugge colonizza inevitabilmente le narrazioni che le persone affette da patologie autoimmuni producono. È l’antropologia medica, attraverso le voci di Arthur Kleinman e Byron J. Good e gli strumenti della fenomenologia, a condurci nel più affascinante dei viaggi attraverso l’esperienza di malattia: il dolore, incomunicabile e resistente a ogni conferma sociale, irrompe nella vita del soggetto minacciando di sovvertirne il mondo della vita quotidiana e isolarlo dalla realtà di senso comune che lo lega al resto dell’umanità. Alla necessità di contrastare tale dissolvenza il sofferente risponde tentando di oggettivare il dolore, di localizzarlo, di dargli un nome, e di collocarlo all’interno della propria traiettoria biografica riconoscendogli un significato. La sua simbolizzazione non solo rappresenta ma contribuisce a evocare e dare forma a un certo modo di esperienza, a una certa realtà. Ecco che, nel caso delle malattie autoimmuni metaforicamente descritte come un assalto che il corpo rivolge a sé stesso, il male acquisisce il nome del sofferente stesso.

Eloquenti sono in tale senso le parole di una giovane donna affetta da lupus, che chiamerà Eloisa, la quale mi racconta: «Io mi auto-combatto, lo so, l’ho sempre fatto. [Il lupus] rispecchia molto il mio modo di essere, il mio auto-combattermi. Io sono una persona che si autocontrolla, molto, e che si impone delle cose. Abituata per cultura, per famiglia, nel modo in cui son cresciuta, sono comunque una persona che si infligge di non fare quello che la rende felice ma di fare sempre quello che possa rendere felici gli altri. Invece di seguire quello che veramente, che realmente mi potrebbe fare stare bene ho sempre fatto quello che poteva rendere felice mia madre, come succede tante volte. E quindi la malattia autoimmune ci sta, cade a pennello. Io ho una forte autoconsapevolezza di quello che ho, dell’espressione della malattia che rispecchia perfettamente la mia scissione interna. Non mi sarebbe potuta venire un altro tipo di malattia»[3]. L’impulso autodissolutivo o pulsione di morte dell’autoimmunità, per Derrida «suicidio reale e simbolico», viene incorporato nella narrazione di Eloisa come emblema della propria tendenza all’autodistruzione, alla soppressione dei conflitti interiori ferocemente riemersi sotto forma trasfigurata di auto-anticorpi. In un complesso scambio simbolico tra fenomeno biologico, rappresentazione metaforica e biografia, la malattia è al tempo stesso esito e icona di un’identità intimamente controversa.

La didascalia che accompagna l’illustrazione esplicita l’origine interna del male e il senso di tradimento da parte del proprio stesso corpo, designando la malattia come ‘una cospirazione cieca dei linfociti T’, ‘una dissonanza interna’, ‘il doloroso abbaiare di interiora fameliche’.

Illustrazione di Spooky Pooka ©

La distruzione del mondo – che ‘trema’ e vede ‘annullato ogni ricordo’ – è più che mai vivida davanti ai nostri occhi, incarnata in quella ‘esegesi di viscere’ che rende la sofferenza tangibile eppure incontrastabile. Nel caso del morbo di Crohn, l’infiammazione cronica dell’intestino è acutizzata dal tipo di alimentazione che si adotta, da cui il titolo della tavola ‘ciò che mi nutre mi distrugge’, ma anche ciò che mi protegge mi distrugge.  Il rapporto tra alimentazione e semiosi è stato oggetto d’analisi in ambito antropologico (è il caso dei ‘gustemi’ teorizzati da Claude Lévi-Strauss all’interno dell’analogia tra linguaggio e cucina), sociologico (le preferenze alimentari e quindi culturali che costituiscono l’habitus per Pierre Bourdieu), e semiologico (è Roland Barthes a parlare del cibo come di un sistema di comunicazione e corpo di immagini governato da contestuali ‘grammatiche alimentari’). L’individuazione di un alimento o classe di alimenti dannosi e quindi da non consumare si configura come un principio classificatorio individuale, in una società che ha visto progressivamente allentarsi le norme culturali sancenti la commestibilità delle diverse sostanze e regolanti le loro modalità di assunzione. In questo contesto di gastro-anomia[4], prescrizioni e proscrizioni alimentari indicate dal sapere biomedico per una patologia o un’allergia divengono bussole ordinanti un mondo altrimenti minaccioso, potenzialmente letale.

Il cibo non è l’unico elemento ‘altro’ che, penetrando la frontiera tra il fuori e il dentro del nostro organismo, diviene parte del ‘sé’ secondo un principio di incorporazione[5]. Lo stesso avviene per il sangue trasfuso, proveniente da un altro individuo, e per quello sottoposto a plasmaferesi, che addirittura esce dal nostro corpo per poi rientrare in forma ‘purificata’, attraversando due volte il confine con il mondo esterno. Lo racconta bene Sarah Manguso, affetta da polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica, nel suo Two Kinds of Decay (2008): «Tutte le malattie autoimmuni evocano la metafora del suicidio. Il corpo si distrugge dall’interno. Secernevo veleno nel mio sangue. Il veleno veniva rimosso e sostituito con il sangue di altre persone e altre sostanze. Con il mio sangue in me, non ero in grado di sentire, né di muovermi, ma con il sangue altrui, e le altre sostanze, potevo farlo. Il sangue nuovo diventava mio nel momento stesso in cui entrava in me. O forse impiegava un momento per mescolarsi a quello che già c’era. Ci metteva forse un’ora, oppure un giorno. Il mio sangue usciva sporco e rientrava pulito. Usciva caldo e rientrava freddo. Usciva vecchio e rientrava nuovo. E il sangue nuovo, freddo e pulito era meglio del sangue che producevo da me». Le dicotomie su cui poggia la narrazione di Manguso – che rimandano immediatamente all’opposizione fra crudo e cotto individuata in ambito alimentare da Lévi-Strauss e alla metamorfosi che conduce dall’uno all’altro – evocano la trasformazione simbolica che quel passaggio tra l’interno e l’esterno induce nel sangue corrotto dalla malattia, e poi purificato attraverso la mediazione di una tecnologia biomedica che sfuma i contorni tra l’altro e il sé.

Se l’immunologia ha tratto spunto dalle teorie filosofiche e psicoanalitiche per mettere in forma i propri oggetti, è altrettanto vero che il vocabolario e il framework concettuale immunologici sono divenuti metafore entro riflessioni più ampie su fenomeni sociali e politici odierni. Jacques Derrida, ad esempio, ha parlato di una «logica generale autoimmunizzante» che investe la contemporaneità in ogni suo aspetto, in particolar modo quello politico. La democrazia, sostiene lo studioso in Stati canaglia, è intrinsecamente autoimmunitaria dal momento che comprende dentro di sé il principio per la sua distruzione: la possibilità che dal voto espresso grazie al suffragio universale il potere sia conferito a forze politiche antidemocratiche. Al tempo stesso, nel tentativo di difendersi dai nemici della libertà, essa potrà vedersi costretta a restringere l’esercizio di alcuni diritti, finendo per opporsi a sé stessa nell’atto di salvarsi. Questa logica autoimmunitaria non è però interpretata da Derrida in chiave negativa tout court: vulnerabilità e apertura all’alterità sono infatti l’essenza della vita e la condizione di possibilità del suo progredire. Al contrario un io vivente impermeabile, invulnerabile, si preclude la possibilità della morte ma anche la possibilità della vita, secondo una legge di conservazione autodistruttrice per la quale conservarsi è sempre alterarsi.

Le metafore prese a prestito dall’immaginario biologico immunitario possono inoltre finire per naturalizzare determinati assunti culturali e meccanismi sociali. È ancora un’antropologa, Emily Martin, a osservare come la rappresentazione del corpo come una fortezza protetta dal mondo esterno, e al tempo stesso come uno stato di polizia capace di riconoscere ed eliminare eventuali intrusi, rendesse la distruzione violenta dell’estraneo un processo naturale, ordinario, essenziale alla vita. Per contro, l’evoluzione del paradigma immunitario verso il riconoscimento di uno scambio tra il sé e l’altro, e la valorizzazione della capacità di adattarsi rapidamente all’ambiente, richiama le caratteristiche di flessibilità considerate desiderabili nell’economia capitalista del mondo contemporaneo. L’immunologia appare così come una disciplina dai confini porosi, in cui il dialogo tra scienza e società è più visibile che altrove, e la contaminazione concettuale più intensa. Quando, nell’ambito dell’attuale pandemia, parliamo di virus provenienti dall’estero[6], di distanziamento dei corpi, di passaporti sanitari che traducono un presunto stato di salute in un giudizio di legittimità a partecipare o meno alla vita sociale e a muoversi liberamente, stiamo – parafrasando Martin –   osservando come le immagini sviluppatesi nelle menti degli scienziati introducano all’interno del corpo modelli provenienti dalla più generale società, o stiamo osservando gli scienziati dare vita a un modello biologico che esce dalla scienza per entrare nella società e ispirarne l’organizzazione?

L’immagine di copertina e le illustrazioni nel testo sono tratte dal sito personale dell’illustratore Spooky Pooka.


[1] Fu Susan Sontag fra i primi a sottolineare, in Malattia come metafora, gli esiti colpevolizzanti dell’impiego di metafore cariche di significato moralistico in ambito medico. La psicosomatica e i processi di psicologizzazione del cancro l’hanno dipinto come “la malattia di chi vuole morire”, mentre la guarigione viene presentata come un traguardo al cui raggiungimento concorrono forza di volontà e indole combattiva. Si tratta inoltre di retoriche che individualizzano gli ambiti della salute e del diritto ad essa, oscurandone la dimensione collettiva. Ciò può tradurre il sentirsi inermi di alcuni malati in senso di colpa e di inadeguatezza, dipingendo l’insuccesso delle cure come una sconfitta personale. Come ci ricorda il linguista George Lakoff, le metafore non sono soltanto strumenti del linguaggio, ma strutturano le nostre modalità di pensiero e, di conseguenza, di azione.

[2] La citazione è tratta dall’introduzione al saggio del filosofo Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, edito da Giulio Einaudi nel 2015.

[3] L’intervista è stata condotta nell’ambito della tesi di laurea in Sociologia dal titolo «Perché mi autodistruggo?»: Dare un senso alle malattie autoimmuni, discussa nel 2017.

[4] Il termine è proposto dello studioso Claude Fischler in Food, self and identity, pubblicato sulla rivista Social Science Information nel 1988 (numero 27, volume 2, pagg. 275-292).

[5] Ibidem.

[6] In L’altra faccia di venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’Aids (2006), la storica della medicina Eugenia Tognotti racconta che la sifilide diffusasi in età moderna fu per i francesi il «male napoletano o italiano, per gli italiani mal francese, per i portoghesi morbo castigliano, per i giapponesi morbo portoghese, per gli olandesi vaiolo ispanico, per i polacchi mal dei tedeschi, per i moscoviti mal dei polacchi, per i persiani morbo dei turchi, per gli africani mal spagnolo, per i turchi morbo dei cristiani…». L’apparizione di qualunque nuova malattia è sempre stata storicamente identificata con nemici esterni, popolazione antagoniste, cioè con untori invariabilmente ‘foresti’.

(1991) è dottoranda in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale all'Università di Torino, con un progetto di ricerca sul tema della contenzione in psichiatria. Si interessa principalmente di sociologia della salute e della malattia e di salute mentale, prediligendo un approccio etnografico. La affascinano particolarmente le intersezioni con la storia della medicina e della psichiatria, l'antropologia medica e i “Science and Technology Studies”.

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