Durante gli anni Venti Robert Walser è molto prolifico: riempie 526 fogli con una scrittura minuscola e indecifrabile che la sorella trasmette all’amico editore Carl Seeling nel 1936. Nessuno sospetta che vi sia riposto un senso compiuto. Solo nel 1957 il germanista e futuro curatore delle opere complete di Walser, Jochen Greven, si accorge che quei segni illeggibili formano una scrittura in miniatura che contiene poesie, testi in prosa ed elzeviri che uscivano nei quotidiani tedeschi, svizzeri e cecoslovacchi con cui Walser collaborava, nonché due romanzi datati 1925: Il Brigante e Felix. Denominati microgrammi (termine non di Walser), sono raccolti in sei volumi pubblicati in tedesco nel 2000, per la metà inediti (e non ancora disponibili in italiano). Se fanno parte delle carte private dello scrittore, da alcuni anni vengono esposti in Svizzera e altrove in Europa e negli Stati Uniti, da ultimo all’Accademia delle belle arti di Parigi (Hans-Rudolf Reust, Anselm Stalder in Robert Walser: Grosse kleine Welt Grand petit monde, a cura di Marie José Burki, Mandana Covindassamy, Beaux-Arts de Paris éditions – Ministère de la culture 2019).

Oltre al contenuto, ad affascinarmi è la tecnica di scrittura, a partire dai supporti di seconda mano utilizzati da Walser quali telegrammi, pagine del calendario, lettere, carte da visita, buste, pubblicità, estratti conto, moduli fiscali. La scrittura si addensa ai margini, occupando ogni spazio disponibile, con una calligrafia alta due millimetri e, in seguito, solo uno, grazie a matite dure (9H) e finissime. Un romanzo come Il Brigante, con cui si apriva la mostra parigina, sta in 24 foglietti. La concentrazione dei blocchi di testo è altissima e il ductus raramente si interrompe, come un lungo respiro; in sé compiuti, malgrado il supporto di fortuna non hanno affatto una natura frammentaria.
Altissima è anche la pazienza di Walser, al punto da diventare, come scrive in una lettera al redattore della “Neue Schweizer Rundschau” Max Rychner datata 20 giugno 1927, “un artista nell’arte di pazientare”: “ricopiando quello che mi dettava la matita ho riappreso, come un bambino, a scrivere”. Walser confessa infatti che, di ritorno nella sua Bienne nel 1913 dopo il periodo d’oro berlinese – forse l’unico periodo veramente felice della sua esistenza –, ha maturato un disgusto per la penna e per l’inchiostro. È una specie di crampo che gli insacca la mano e gl’impedisce di lavorare di primo getto come una volta. A Berlino infatti, oltre a frequentare gli artisti della Sezession, redige a penna e quasi senza cancellature tre romanzi: I fratelli Tanner (1907), L’assistente (1908) direttamente in bella copia e Jakob von Gunten (1909).

Eppure Walser ha ancora molto da scrivere. È la matita a restituirgli questo piacere, una sorta di terapia grafica cui si sottopone con grande dedizione. Solo in un secondo momento mette il testo in bella copia – e nel ricopiare documenti consisteva in fondo la sua attività di ex-impiegato d’ufficio. In questo modo Walser distingue nettamente la matita per l’elaborazione personale e la penna per la pubblicazione, l’indipendenza creatrice e le oberanti deadline di lavoro, sfera privata e sfera pubblica. Perlomeno fino al 1933 quando, come noto, poggia per sempre penna e matita ed entra nella clinica psichiatrica di Herisau, dove resterà fino alla sua scomparsa, il 25 dicembre 1956. “Il mio mondo è stato distrutto dai nazisti. I giornali per cui scrivevo hanno cessato le pubblicazioni, e i loro redattori sono stati cacciati o sono morti. Così mi sono ridotto quasi a un fossile”, confessa a Carl Seelig che gli rende regolarmente visita e annota le loro conversazioni.
Lontano dalla scrittura ma in grado di dare salaci giudizi sulla letteratura, riportati da Seelig: Rilke “sta bene sui tavolini da notte delle vecchie zitelle”; la trilogia di Giuseppe di Thomas Mann è una “montagna di lardo”, “opere aride e sudate” in cui si avverte “un tanfo di chiuso”; Peter Altenberg? “un simpatico würstel viennese” (in Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, Adelphi 1981, 2008). Più lusinghieri altri giudizi, nei riguardi ad esempio degli amati Franz Wedekind e Gottfried Keller (“In lui non c’è neppure una riga di troppo”), del Canto della campana di Schiller o del discorso di Victor Hugo per il centenario di Voltaire.

Che Walser abbia scritto i microgrammi per indigenza? “In fatto di libri non possedeva, credo, nemmeno quelli scritti da lui. Ciò che leggeva, di solito, lo prendeva in prestito. Anche la carta su cui scriveva era di seconda mano” secondo W.G. Sebald (Le promeneur solitaire, in Soggiorno in una casa di campagna, Adelphi 2012). “Walser resta una figura unica, inesplicata”, ammette Sebald, non resistendo però alla tentazione di farne un personaggio dei suo romanzi. Considera così i microgrammi un “ingegnoso espediente per continuare a scrivere – i messaggi cifrati di un individuo confinato nell’illegalità e i documenti di una vera emigrazione interna”. E ancora: “sono per così dire l’encefalogramma di un uomo costretto […] a pensare costantemente a qualcosa che si trova – non si sa come – lontano, e tuttavia non per questo li ritengo attestazioni di uno stato psicotico”.
Una lettura influenzata dalla pagina scolpita come un minerale che gli dedica Elias Canetti: “non dichiara mai che cosa lo muove. È il più celato di tutti gli scrittori. Le cose gli vanno sempre bene, è sempre incantato da tutto. Ma le sue fantasticherie sono fredde perché omettono una parte della sua persona, e per questo sono anche inquietanti. Tutto in lui diventa natura esteriore e per un’intera vita egli continua a negarne l’essenza più vera e segreta, l’angoscia […] La sua opera è un tentativo incessante di tacere l’angoscia” (La provincia dell’uomo, Adelphi 1978).
Per chi ama leggere Walser è un’esperienza unica poter osservare da vicino, armati di una lente d’ingrandimento che non mancava nella mostra parigina, i microgrammi, con quel formicolio grafico, quella crittografia elegante che, pertanto, cela in sé tantissimi testi a noi ignoti. Una dolce tortura per presbiti, questo sono i microgrammi.

Solo nella contrainte Walser trova quella libertà che nella sua scrittura si respira a pieni polmoni, un’atmosfera aerea in cui la scrittura non è più lo spazio più breve tra la testa e la mano, ma s’invola, prende aria, fa un giro all’aperto, passeggia come passeggiava il suo autore e torna vivificata per appuntarsi finalmente sul foglio. Come in quel racconto di Julio Cortázar che vede protagonista una linea che, motu proprio, sbuca da una lettera abbandonata poggiata su una tavola e, percorsa la stanza, esce fuori e s’imbarca su una nave per finire nelle mani di un passeggero pronto a farla finita (Le linee della mano, in Storie di cronopios e di famas).
Parole al vento, quelle di Walser. Non sorprende che nel 1982 Susan Sontag, leggendo Walser in traduzione, cogliesse questo aspetto della sua scrittura: “it is all voice – musing, conversing, rambling, running on”.
Sulla piazza antistante la stazione di Biel, Thomas Hirschhorn ha installato Robert Walser-Sculpture (15 giugno-8 settembre 2019), un progetto artistico in omaggio allo scrittore elvetico. Due mesi di costruzione, ottantasei giorni di atelier partecipativi, incontri e letture, un’installazione di 1300 m2 in legno; una trentina di volontari che ogni giorno accolgono i visitatori e li introducono alla lettura e alla scoperta dello scrittore.

E pensare che Walser, che riscuote un tenace interesse nelle pratiche artistiche grafiche quanto concettuali, mancò clamorosamente l’appuntamento con le avanguardie, a partire dal dadaismo zurighese (Frédéric Paul in Grosse kleine Welt). E, se si eccettua il periodo tedesco, non mise mai piede fuori dalla Svizzera anzi, come confessa a Carl Seelig: “Ormai io sono esiliato nella Svizzera orientale e resto qui. Perché dovremmo andare a mangiar le trote a Rapperswil, quando possiamo trovare lo speck nell’Appenzell?”. Di più, “nonostante la modernità che segna la sua opera, [Walser] non voleva essere moderno” (Reto Sorg in Grosse kleine Welt).
Cosa voleva essere allora Walser? “Un magnifico zero, rotondo come una palla” come il suo Jakob von Gunten che studia all’Istituto Benjamenta per diventare maggiordomo? E che si chiede, Jakob intendo: “E se io andrò a pezzi e in malora, che cosa si romperà, che cosa si perderà? Uno zero”. Walser in fondo parla come il suo personaggio: “Io non chiedo di più. In clinica ho quel che mi occorre, la pace. Tocca ora ai giovani far chiasso. A me conviene scomparire il più discretamente possibile”, come confessa a Carl Seelig. Hirshhorn deve aver letto questo passo e saltato sulla sedia prima di esortarci, col tono battagliero che è nel suo stile: “Be an outsider. Be a hero. Be Robert Walser”.
In copertina: Robert Walser, ph. Carl Seelig, © Keystone / Robert Walser-Stiftung Bern