Scritti scelti 1961-2019

Pubblicato subito dopo l’uscita dal lockdown, il libro di Lara-Vinca Masini Scritti 1961-2019. Arte Architettura Design Arti Applicate (Gli Ori, 2020), a cura di Alessandra Acocella e Angelika Stepken, raccoglie per la prima volta un’ampia selezione di testi scritti dalla storica dell’arte e critica fiorentina lungo l’arco di sei decenni. Ripresentiamo qui l’estratto di uno dei settantadue testi inclusi all’interno della raccolta: Proposta per un nuovo linguaggio critico, tra i primi contributi dedicati da Lara-Vinca Masini al linguaggio della critica artistica e alla sua analisi a livello interdisciplinare. Il testo è stato redatto nel 1965 per il XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte (Rimini, Verucchio, San Marino), e pubblicato, in quello stesso anno, nel catalogo della Prima triennale itinerante d’architettura italiana contemporanea, manifestazione da lei curata insieme a Marco Dezzi Bardeschi.

“Nel tentativo di giungere ad una formazione concettuale dell’insieme enorme e confuso dei dati di osservazione, lo scienziato fa uso di un grande numero di concetti assorbiti praticamente col latte materno e raramente o mai è consapevole del loro carattere eternamente problematico. Egli usa questo materiale concettuale, o, più precisamente questi strumenti concettuali del pensiero, come qualcosa di ovvio, di immutabilmente dato: qualcosa che ha un valore oggettivo di verità che non si deve quasi mai e in ogni caso non seriamente, mettere in dubbio… Eppure nell’interesse della scienza è necessario impegnarsi ripetutamente nella critica di questi concetti fondamentali in modo da non esserne dominati inconsciamente”.

Questa affermazione di Albert Einstein, dalla premessa alla Storia del concetto di spazio di Max Jammer, mi sembra facilmente applicabile anche al settore della critica artistica e particolarmente al linguaggio della critica che si vede costretto, ancora oggi, a fare uso dei termini concettuali acquisiti aprioristicamente da altre discipline, particolarmente dalla critica linguistica e letteraria che, deformandosi nell’atto di essere inseriti in un diverso contesto, non arrivano peraltro a costituire un vocabolario tecnico specifico, tale da divenire un mezzo di comunicazione.

Con la continua, sempre più serrata modificazione delle problematiche artistiche si fa ancora più evidente l’inadeguatezza della terminologia tradizionale e la necessità della formulazione di un linguaggio che sia in accordo con i nuovi strumenti, e si fondi su un nuovo vocabolario.

Creazione di vocabolario e linguaggio che, elaborati su una base reperita e studiata a livello interdisciplinare, dovrà coincidere con l’instaurazione di una nuova metodologia che tenga conto dei mutamenti delle terminologie particolari; che non costituisca un fenomeno di rottura ma rielabori e riassuma in termini rinnovati i concetti fondamentali alla luce di nuovi metodi operativi, senza isolarsi in uno specialismo incomunicabile, ma anzi, sulla base di nuovi fondamenti generali, torni a nuove possibilità di scambio e di relazione. Non si tratterà, comunque, di una sorta di recupero irresponsabilizzato, sulla base del rechage ma di una acquisizione responsabile sul piano della combinazione dei fenomeni “solidali”, “tali che ciascuno dipende dagli altri e può essere quello che è solo nella e per la sua relazione con essi” (Lalande). Dalla consuetudine alla critica linguistica e letteraria, con l’arricchimento immaginifico ed improprio di alcuni termini caratteristici delle scienze e delle discipline particolari, siamo invece arrivati alla formulazione di un linguaggio critico troppo spesso più generico che generale, che si usa indifferentemente per le arti figurative, per la critica letteraria e musicale, e che, per una sorta di fenomeno di rimbalzo, torna poi ad essere assunto impropriamente, e deformato, nei testi di divulgazione delle discipline particolari, dalla sociologia alla pedagogia, quando non travisa la informazione scientifica.

Il colloquio che ha avuto luogo, qualche mese fa, a Parigi, sull’uso e significato del termine “struttura”, con le diverse e spesso discordanti implicazioni, dimostra chiaramente quanto sia necessario rifarsi ad una “ipotesi linguistica generalizzabile attraverso un processo di trascrizione” (per usare un’espressione che Portoghesi, ad esempio, riferisce all’esperienza storico-culturale come sollecitante della attività progettistica per l’architetto contemporaneo).

In questo senso la tradizione e la storia acquistano nuovo significato, stimolando una riassunzione di termini rinnovati alla luce di alcuni metodi, sull’ipotesi di nuovi contenuti, non certo su assonanze superficiali e su una banale acquisizione dei mezzi offerti dalla natura più evidente e scontata della nostra civiltà, da quel mondo tecnologico che è soltanto il risultato, auspicato e deprecato, di una sostanziale e più profonda trasformazione che investe le strutture più segrete della società e che, veramente, è ricca di possibilità e sulla quale si deve basare la ricerca di nuovi “universali”, che ci permetteranno, su nuove basi, acquisizioni più precisate di linguaggi specifici, particolari, specializzati.

In questa luce si potrà anche parlare di “ambiguità”, nel senso di compresenza di significati, ma in vista di una apertura consapevole, di chiarificazione sull’estensione semantica dei temi linguistici e formali, non come equivocabile concessione al non chiarito. Parlando di specialismo occorrerà però non ricadere nel rischio del compartimento stagno: che anzi dovrebbe essere compito di tale nuovo linguaggio critico sollecitare un più diretto scambio tra le diverse sezioni delle arti figurative e delle ricerche tecnico-scientifiche, che, particolarmente oggi, rischiano di compromettere il loro svolgimento naturale nella ricerca, ciascuna per sé, di definizioni a problemi che le discipline parallele hanno già, magari, risolto per loro conto. Si pensi, per esempio, al rischio, troppe volte verificatosi, dell’urbanista che è soltanto urbanista, e che, per eccesso opposto, imposta il suo linguaggio di town-design, secondo una configurazione rispecchiante esclusivamente la situazione economica e sociologica, senza riuscire, attraverso una metodologia propria, ad assorbire i risultati delle indagini particolari delle diverse discipline, in un discorso più propriamente urbanistico.

Uso di proposito il termine disciplina sia per le pratiche scientifiche e tecniche che per le artistiche, perché oggi non si può ammettere lo svincolo delle esperienze artistiche – almeno di quelle inserite in un discorso attivo di intervento responsabile, e quindi socialmente ed eticamente operanti nelle problematiche di attualità – da un severo e preciso esercizio culturale e di elaborazione linguistica.

Il fatto che sia compito del linguaggio critico sollecitare uno scambio nel settore delle ricerche non significa che la critica debba diventare condizionante del fare artistico, ma è suo compito sollecitare e chiarire i problemi e, anche, interrelazionarli e, in questo senso, anche indirizzare la ricerca artistica verso una responsabilizzazione consapevole ed aperta.

Compito della critica dovrebbe essere dunque quello di riprendere all’inizio questa sua funzione, fino a rifarsi alla definizione dei termini esatti, la stesura, addirittura, di un nuovo vocabolario critico.

In certo senso, oggi è come se tutto ricominciasse da capo. Lo sconvolgimento ed il rovesciamento dei valori tradizionali è stato così radicale che occorre rifarsi alle origini. Ciò che comporterà anche ritrovare, su nuove basi, il significato dei valori e dei termini tradizionali, i valori autentici e tuttora attivi della storia, che in un primo tempo, di fronte alla necessità di impostare tutta la vita secondo una nuova e diversa figuratività, o “figurabilità” (e per “figurabilità” intendo con Linch “la qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata profondità di evocare una immagine rigorosa”, ma allargo il significato di “figuratività” ad una sorta di evocazione che diventi anche incisivamente guida di comportamento, – “la forma artistica” scrive Argan “è data come assoluta ed universale allorché implica ed esprime una concezione totale del mondo” – che coinvolga, cioè, l’uomo nella sua totalità di interessi e di significati esistenziali) e quindi di distruggere ogni bagaglio precedente per ritrovare una nuova libertà che ci permetta di riscoprire l’originalità dei significati autentici e fondamentali, troppo spesso, ormai, consunti da un uso approssimativo e generico.

Ma tornando alle parole di Einstein è con l’impegnarsi “nella critica dei concetti fondamentali in modo da non esserne dominati inconsciamente” che è possibile ritrovare una pregnanza semantica, in un linguaggio ripreso in esame e verificato ogni volta all’origine.

Come scrive Roger Bastide, a proposito degli usi diversi del termine “struttura”, “sulla base di questi usi diversi” occorre “cercare di stabilire una o due definizioni generali della parola”. “Se discipline diverse” egli continua “si servono di un termine comune, ciò si deve certamente al fatto che esso presenta almeno alcuni tratti caratteristici che lo distinguono dai termini affini e gli danno uno speciale valore significante”.

Perciò ogni disciplina dovrà, a mio avviso, servirsi di un “linguaggio di base” comune (come i “gesti di base” scaturiti da una disposizione razionale del subcosciente) e, partendo da questo piedistallo costruire una scala di terminologie particolari che risultino da indagini specifiche a largo raggio, attraverso le componenti delle diverse discipline, dalla psicologia, alla sociologia, dalla tecnica alle arti figurative, alle componenti etniche e storiche.

A mezzo di questa elaborazione di una tipologia linguistica, sarà possibile ovviare all’equivoco dell’ipotesi delle “due culture”.

Questo può essere un mezzo, tutto da verificare e da dimostrare. Ma potrebbe divenire uno strumento non di facile divulgazione, ma di educazione anche a livello di massa. Non si dovrebbe trattare di épater le bourgeois, ma di stabilire una base di partenza. Come un riprendere alle origini un cammino disperso.

Questi sono semplicemente appunti di base, ma credo che su questa via molto si possa fare. E soprattutto che sia nostro dovere tentare. […]

In copertina: Lara-Vinca Masini

Storica dell’arte e critica militante, è autrice di saggi, presentazioni, monografie e curatrice di mostre dedicate alle arti visive contemporanee, all’architettura, al design e alle arti applicate. Lavorando da sempre in stretto contatto con artisti, architetti e designer, ha curato pubblicazioni e progetti espositivi complessi e sperimentali. Nel 1964 fonda il Centro Proposte, laboratorio di mostre itineranti ed edizioni d’arte aperte al dialogo tra diversi linguaggi creativi. Dieci anni dopo, insieme a Vittorio Fagone, coordina la Prima Biennale del Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Livorno. Nel 1978 è invitata a curare parte del contributo italiano per la XXXVIII Biennale di Venezia, riunendo sotto il binomio di "Topologia e Morfogenesi" esperienze di arti visive e di architettura radicale. Nel 1980 realizza a Firenze la grande manifestazione "Umanesimo Disumanesimo nell’arte europea 1890/1980" chiamando artisti internazionali a realizzare interventi site-specific nello spazio urbano della città rinascimentale. Nel corso della sua lunga e intensa carriera, si è occupata di tendenze e tematiche centrali nella storia delle arti dal secondo Novecento (tra cui arte ottico-cinetica e programmata, architettura radicale e postmodern, ricerche ambientali e urbane, museo contemporaneo, graphic design, gioiello d’artista), con una particolare attenzione alla cultura artistica e architettonica toscana.

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