I.
Ha senso interessarsi, sia pure senza la pretesa di un disegno intero, al bestiario poetico leopardiano? Sì, direi, anche se la mia attenzione sarà, soprattutto, a un brevissimo segmento di scrittura collocabile nel 1833. Il contesto sarà peraltro meno ristretto. Occuperà all’incirca i quattro-cinque anni tra 1832-33 e 1836: devo però dire che attraverserò di corsa il segmento 1834-36, tra Palinodia a Gino Capponi, 1835 e La ginestra, 1836: per raccogliere qualche informazione che mi permetta, invece, di indugiare su quel 1833 che è l’anno dell’abbozzo dell’inno ad Arimane. Di un Leopardi che ormai per sempre ha lasciato, aprile 1830, Recanati. E che vive, in quel 1833, tra Firenze, con una breve sosta a Roma, e l’approdo a Napoli. Vi morirà nel 1837. Non guarderò analiticamente, peraltro, neanche all’inno ad Arimane, forse abbozzato a Firenze, appunto nel 1833. Punterò diritto, infatti, sulla evocazione che vi compare, imprevista ‒ alludevo più sopra a un breve segmento di scrittura ‒ di un serpente. Due parole: Serpente Boa.
II.
Utile però incominciare, rapidamente, si vedrà subito perché, da un Leopardi più giovane. Siamo nel 1826. «Io non sogno di te, perché sai che fuori di Recanati, io non sogno mai…», così Giacomo scrive a sua sorella, a Paolina, il 1 marzo 1826, da Bologna. Non per caso è una volta tornato, infatti, a Recanati, che, nelle Ricordanze, dell’agosto-settembre 1829 ̶ da neanche un anno, nel novembre 1828, ha lasciato Firenze ̶ , ritorna a nominare i suoi sogni: evoca i «pensieri immensi», i «dolci sogni» che, da ragazzo, gli «spirò la vista / di quel lontano mar, quei monti azzurri, […] che varcare un giorno / io mi pensava, arcani mondi, arcana / felicità fingendo al viver mio!».
A questo punto, approdati da quel così confidente, così suggestivo passo epistolare alla lirica leopardiana, cerchiamo, accettando qualche rischio, di restarci. Si sa, i dolci sogni non occupano certo per intero la scena mentale-onirica del Giacomo recanatese. Non si tratta, la cosa è ovvia ma è meglio dirlo subito, di un rovesciamento, di una radicale opposizione tra il prima ‘in canto’ e il dopo 1830 ‘in canto’: tra un prima ‘tutto-dolce’ e un dopo ‘tutto-amaro’ (il 1830, aprile 1830, è, dicevo, l’anno dell’abbandono definitivo, senza ritorno, di Recanati). Come lasciare da parte, e sto qui solamente al bestiario di Leopardi, la cupa evocazione del cruento mito di Filomela, l’usignolo, nell’ode Alla primavera, 1822, 69-80 ̶ gli «antichi danni» e lo «scellerato scorno» di lei ̶ ? O anche la versione leopardiana, del 1823-24, del misogino “giambo sulle donne” di Semonide di Amorgo? Con quella sfilza animalesco-folclorica, dalla scrofa sozza alla volpe maligna eccetera, mentre solo l’ape, la donna-ape si salva. Oppure, per uscire, ma eccezionalmente, dal tema-bestiario: una pagina tremenda, sto a questa sola, come quella del «Tutto è male…» è pure del prima-1830, è del 1826, dell’aprile di quell’anno: anche se, potrei aggiungere sottovoce, è una pagina bolognese; non è una pagina recanatese.
È, comunque, torno al bestiario leopardiano, indubitabile questo, ove si stia a una sua sola, ma esclamativa assenza: il Leopardi ‘recanatese’, qui un Leopardi 1820-1824, non si può dire davvero frontalmente attento ̶ sia nello Zibaldone, anno 1820, sia nella Storia del genere umano, 1824, nelle Operette morali, e pur coinvolti, lo Zibaldone come l’operetta, nella rilettura ‘critica’ dei primi capitoli della Genesi e della vera natura del peccato di Adamo nell’Eden ̶ al Serpente. Non lo è, per esempio, al suo così importante, perfino proverbiale ruolo nella Bibbia: nell’Eden, tra Adamo ed Eva. Sarà dopo quasi dieci anni da quel 1824 che un Serpente, ma ormai nella precisa specie del Serpente Boa, spunterà, invece, inquietante, solo un nome ma prepotente, nel dopo-Recanati: nell’abbozzo del 1833 cui guarderò più avanti. E sarà lui, il Constrictor, il punto d’arrivo di queste pagine.
Mettiamola, allora, molto approssimativamente, così: fino al fatidico aprile 1830, la consapevolezza ben ‘diurna’ di quanto c’è di storto nel mondo e nell’umano (in quel legno inguaribilmente storto, direbbe Kant, che è l’uomo), e nel destino, pur già facendosi strada, e robustamente, e anzi con l’ambizione crescente al sistema, non meno che tra le drammatiche certezze leopardiane, ‘accetta’ il sogno, e anzi convive, in qualche misura, sia pure con crescente difficoltà, coi dolci sogni. Ma dopo l’addio a Recanati? La situazione tende a precipitare al peggio. Non tanto Leopardi non sogna più ̶ chi però la sa lunga sul sognare umano assicura che questo è impossibile ̶ : c’è piuttosto da chiedersi se, mentre lo spazio dei dolci sogni è, fuori di Recanati, sempre più negato, non si estenda, allora, per contrapposizione, nel tempo che si apre dopo, negli anni 1830-37, una sorta di ampio, e vicino a essere ‘univoco’, deserto onirico.
III.
Un deserto spinoso, ostile, pur, come fa il Cavaliere di Dürer, eroicamente attraversato. In fin dei conti, anche il cespuglio fiorito della gentile ginestra ha, necessarie, le sue spine. Da certi segnali, senza voler generalizzare, si direbbe che in quegli ultimi anni leopardiani, specie negli estremi di quegli anni, si apra, piuttosto, non mai così ampio, non mai così vicino a essere vicino al mono-colore, lo spazio buio, notturno e minaccioso ̶ ancora valga, anche se Leopardi molto probabilmente non lo conosceva, il rinvio a ‘quel’ Dürer, o, per guardare ai contemporanei o quasi di Leopardi, allo svizzero Füssli: e penso alla nera testa equina dagli occhi bianchi che spunta dalla tenebra in un suo celebre quadro, L’incubo,1781, a Detroit ̶ dei sogni cattivi.
IV.
Se non, in ogni caso, il sonno, quei sogni ostili li ospita la poesia. Nel modo mediato, trasposto, e insieme eloquente e vivo, che le è proprio; e che del sogno può ospitare le figure-simbolo, capaci di alludere alla condizione profonda, anzi sprofondata, del soggetto. Le ospita, quelle figure-simbolo, mentre appaiono e per un attimo vivono di vita propria, in uno spazio che sta tra il reale e il fantastico: figure, vedremo, in particolare il pipistrello e la serpe, che appaiono sì in un lampo alla nostra vista, ma, come l’ostile natura che le alleva e che «sta […] ognor verde», 292, durano. Si perpetuano.
Quali figure-simbolo? Cerco nella Ginestra, e le figure-simbolo arrivano da una sorta di selezionato bestiario anti-idillico, selvaggio, aggressivo, estraneo alla dolcezza del sogno domestico-recanatese: un bestiario che ospita animali che vivono nascosti, o isolati, nello spazio del deserto, della ruina, in una terra bruciata dal fuoco lavico del monte sterminatore, il Vesuvio. Del quale appare subito la schiena («Qui su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo…», 1-3): la parte per il tutto, e il tutto è negato alla vista, e tanto più allora si tratta di una bestiaccia tremenda, che fa terra bruciata: sterminatore è l’Achille montiano, a tradurre peraltro il déïon ándra di Il. XXII, 84, per come lo vede, terrorizzata, Ecuba nell’Iliade, dall’alto delle mura di Troia. Lo vede appunto come déïon, l’uomo “che incendia, che distrugge col fuoco”.
Alleghiamola, allora, pure lei, la bestiaccia spaventosa, incendiaria e sterminatrice, al bestiario che dicevo. E notiamo come le premesse del deserto e del fiore, e sia pure le sole premesse, già spuntino nella preghiera inascoltata di Ecuba: all’acheo incendiario, al nemico che fa il deserto, Ecuba accosta, mentre grida a Ettore di non affrontare il mostro, suo figlio come filon thalos, «mio germoglio, mon pousse, mio fiore». Il deserto è solo abbellito e anzi profumato, siamo in primavera, dall’«odorata ginestra, / contenta dei deserti». Cancellata, invece, la presenza umana, e con ciò la plurisecolare umanizzazione da parte dell’uomo nei confronti della natura: solo il villanello del mirabile ‘quadro’ dei vv. 240-68 abita, necessitato, quei luoghi. Ma ne sarà presto scacciato, lui e la sua famigliola, dalla furia del vulcano.
V.
Il bestiario del deserto e della ruina ha un anticipo. Lo precede un rapido cartone: un luogo del Bruto minore. Il deserto e gli animali del deserto: questo ‘insieme’ è già un dato di fattonella canzone del 1821, dove Bruto è una sorta di veggente che evoca, vicino a uccidersi, a Filippi, la ruina, la lotta tra le fazioni, Roma caduta, i barbari, la strage della terra latina, il deserto.Quel bestiario è per ora contratto in due voci generalissime: la fera, l’augello. Non così, poi, nel 1836. Brevi apparizioni spettano, nella Ginestra, al coniglio, alla serpe, alla capra, ai pipistrelli (si aggiungano le formiche): ma già nel Bruto la fera, l’augello significano, là espressamente ‒ da emblemi della natura, abbracciandol’una la specie degli animali che si muovono a terra, l’altro quelli che volano ‒, quanto nella Ginestra non c’è più bisogno di ‘verbalizzare’: cioè il loro totale stato d’oblio, o il loro non-sapere. La loro sovrana ignoranza nei confronti di ogni ruina. Sommuova essa il tempo e la storia (nella Sera del dì di festa, 34-35: «Or dov’è il suono […] /, or dov’è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma […]?»), o travolga cose e creature viventi nello spazio.
Quel bestiario è, dunque, sostanzialmente, in ‘lettura’ negativa: il tratto fondamentale è quello di creature che
A) non importa se viste nella luce, o nella notte, ma mostrano la traccia demonica o demoniaca sul loro muso, come la capra: immagine che, polivalente, è antico simbolo anche del demonio, e che «si pasce» là dove era un’umanità presa dal suo lavoro, «assidua gente», e dove erano dei centri abitati, poi distrutti – vedi la similitudine tutta ‘naturale’: come un pomo cadendo, maturo, dal ramo, distrugge in un attimo i «dolci alberghi» delle formiche ‒: popolazioni e centri spazzati via dall’immensa piena infuocata eruttata dall’«utero tonante» del vulcano.
Oppure, di creature che
B) si nascondono, invece, nel buio, come loro dimora, nelle viscere della terra: si tratti del timido coniglio selvatico, che nidifica sulle pendici del Vesuvio, e lo si direbbe appena spuntato alla luce dal «noto / cavernoso covil», dalla sua tana scavata nel buio, quel buio cui torna presto[1]; o si tratti del repellente pipistrello, che nidifica nelle rovine di Pompei, questo «sepolto /scheletro». Un mammifero volante, il pipistrello, che ama nascondersi e che da secoli evoca lui pure il diavolo, o forze da brivido. L’ha rilanciato come veicolo arimanico il Covid 19 malefico e maledettissimo. Tra le rovine di Pompei, mentre l’«ignea bocca», la «cresta fumante» del Vesuvio-drago «alla sparsa ruina ancor minaccia», 280-282,
nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri, per li templi deformi e per le rotte
case,
il pipistrello nasconde i suoi parti: dove l’accento è, rapidamente, sul perpetuarsi dei figli della notte, nascondendosi; sul cieco ostinarsi di un esistere e resistere ‘naturale’, là dove è la rovina che il mondo naturale ignora, e l’assenza dell’umano[2].
VI.
Quale differenza, notiamolo, rispetto ai voli e alla fisionomia e all’annuncio all’umano affidato a ben altre creature dell’‘età recanatese’. Penso alla «candida colomba» che vola ̶ torna all’Arca di Noè, dopo un primo insuccesso, recando nel becco un ramo d’ulivo, annunciatrice di una nuova speme per gli uomini dopo il diluvio universale ̶ dalla Genesi all’Inno ai patriarchi, 62; o penso alla «favolosa letizia» (Fubini; e Galimberti ha parlato di «angelogia secolarizzata») degli uccelli che volano e cantano nell’Elogio degli uccelli, 1824. Al loro riso (che a me ricorda un momento altissimo della lirica à venir dei Canti: il riso innamorato e misterioso della primavera nel Canto notturno, «tu sai, tu certo ̶ quel doppio tu è rivolto, lo sappiamo, alla luna ̶ a qual suo dolce amore / rida la primavera», 73-74). O penso al lampo imprevisto del luglio 1823, Zib. 2986, sui cavalli non addestrati, selvaggi, indomiti. Evocati nell’entusiasmo – mentre si abbandonano, usciti finalmente dalla prigionia della stalla, alla corsa ̶ per paragonarli a Omero e alla sua Iliade: quell’Omero è «come quei cavalli indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e gagliardi de’ cavalli esercitati e addestrati, dopo aver fatto un doppio spazio». Nel piacere del vitale movimento, nell’impeto. E torno un attimo all’Elogio degli uccelli, ora alla sua chiusa: «io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita».
Questo «vorrei […] essere convertito in uccello» riecheggerà poi, per una sottintesa jonction, negli ultimi famosi versi ancora del Canto notturno, 1829-30, cioè nell’ultima lirica composta in Recanati, alla vigilia del congedo («Forse s’avess’io l’ale […] più felice sarei…»), anche se la clausola finale mette in dubbio, con un altro forse, quell’avvio della lassa ultima («o forse […], dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale»). E qui faccio presente, anche se troppo rapidamente, come, a proposito di dolci sogni, il volo e il sogno amino accompagnarsi da sempre nei sonni degli umani. Il sogno del volo è un sogno tra i più ricorrenti, ricordava Freud, nella nostra esperienza onirica: un sogno legato all’espansione del sé, secondo Jung, mentre l’appena nominato Freud vi legge la gioiosa traccia dell’esperienza infantile (la traccia incancellabile, nell’adulto, la memoria sepolta ed estatica del bambino che vola tra le braccia della madre o del padre); e vi riconosce il segno principe dell’eros.
E prima di lasciare il Canto notturno: è bene nel séguito del, parola di Leopardi, paradiso dei pastori e delle pecorelle ammirati nella sua stanza di ragazzino, cui accenna nel 1818, è insomma nell’atmosfera di certa rapita dolcezza ‘recanatese’, che Leopardi può poi con tanta affettività rivolgersi, in unissono sentimentale col suo pastore kirghiso, alla sua greggia ̶ «Oh greggia mia che posi, oh te beata», 105 ̶ , anche se l’immagine non meno che del paradiso si riaffaccerà nel Pensiero dominante, che ormai è circa del 1832. E proprio il vocativo così colloquiale, proprio quella intimità dolcissima col non-umano potranno tornare ormai nel 1836, e il vocativo sarà per l’«odorata ginestra, / contenta dei deserti», 5-6.
VII.
Ma, allora, per tornare proprio alla Ginestra: tocca alla serpe, animale ctonio per eccellenza, apparirvi, ai vv. 21-22, per prima: e si tratta di un animale per eccellenza inquietante e altro rispetto all’umano. Lascio stare la Bibbia nel suo insieme, un ‘insieme’ nel quale il Serpente si muove dentro un’accoglienza e un’ambiguità ricchissime, cui, come dicevo più sopra, Leopardi non è particolarmente interessato[3]. Se non, però, il Codice biblico, l’altro grande Codice, quello greco-latino ̶ Omero, Virgilio ̶ offriva anticipi straordinari. E qui Giacomo tesorizzava. Vedi in particolare il ricordo virgiliano: quel serpente che nella Ginestra è osservato, con un trattenuto ribrezzo, nella piena luce solare, nel moto inquietante del contorcersi, è preceduto dalla serpe che, Aen. II 474, «lubrica convolvit sublato pectore terga»; e vedi come Leopardi già traduce quel Virgilio e il suo serpente nel 1816-17, bene attento alle liquide come alle rotate dell’originale: «esce a la luce, e s’erge / al sole e va suoi sdrucciolosi terghi / divincolando, alzato il petto». Ma anche la serpe, nel flash che le spetta poi nella Ginestra, giunge al sole dal buio, dal suo covo. E inquietante, il serpente, proprio perché, insieme, erto, minaccioso e vitale, ma di una vitalità altra. Si rinnova ‒ come si rinnova, sempiterna, la famiglia dei pipistrelli ‒, di nuovo splendente e giovane, «nitidus iuventa», a ogni uscita dall’inverno: anche in questo estraneo all’umano ‒ estraneo alla caducità senza rimedio, lineare, di questo; e il gran tema dell’opposizione destino umano / condizione naturale si rimodulerà al chiudersi del Tramonto della luna ‒. Estraneo anche, rettile dal sangue freddo, al vitale calore umano, questo serpente che nei campi infecondi e infidi ‒ dove intanto, solitaria, fiorisce la ginestra, la «rosa del deserto», come la cantava, noto forse a Leopardi, lo spagnolo Cienfuegos, tradotto nel 1821 in Italia[4]‒,
s’annida e si contorce al sole….
VIII.
Per stretto contatto eccomi ora a un altro rettile, la vipera: ad altra serpe, entrata nella poesia leopardiana alcuni anni prima. Al vipereo morso del Pensiero dominante, forse del 1832. E nel contesto, vv. 95-99, c’è già qui il deserto. Pur di cogliere, dolce pensiero amoroso, scrive Leopardi, le tue gioie, sfido il mortal deserto dell’esistenza, magari per incontrarvi pericolosamente la disillusione, il «vipereo morso» che può uccidere. Ma è tanto grande il bene dell’amore ‒ essere nella signoria di quel padrone, di quel pensiero dominante ‒, che sopporterei ogni pena… Ovvio, eppure non segnalato dai commenti ai Canti, qui in genere evasivi, il collegamento ‘misogino’ al femminile come insidia e rischio di morte. «Vipera, vipera…»: così si avvia una canzone dei tardi anni Venti del ’900… «Ella portava un braccialetto strano, una vipera al polso attorcigliata […]. Vipera, vipera, sul braccio di colei / che oggi distrugge tutti i sogni miei …/ qualcosa mi si annoda in fondo al cuore…. Vipera, vipera…». L’autore è il napoletano E. A. Mario. Non credo affatto che avesse in mente Il pensiero dominante: il morso della vipera si collega senza difficoltà, già per tradizione popolare, al morso della passione amorosa, alla femme fatale; al femminile come insidia, nella sua specie distruttiva che può avvelenare, devastare il maschile.
IX.
Anche se, dunque, la serpe è ‘fissata’, nella Ginestra, mentre si contorce al sole, nella luce piena, questa creatura del deserto inquieta pure per quanto è una creatura della tenebra. Arriva alla luce, simile in questo, anche se solo in questo, al coniglio, da un altrove nascosto. Che richiama la condizione della notte. Il deserto e la notte sono entrambi in un senza. Ebbene, le creature che si muovono o si bloccano in quel senza, mentre appaiono, per un attimo, tra il reale e il fantastico ‒ in un paesaggio perennemente minacciato, pieno solo di memorie negative: vedi la rapida evocazione, nella Ginestra, di centri abitati e di vite trascorse, soffocate, che vissero dove ora è il silenzio e la rovina, un paesaggio solo profumato dal fiore gentile ‒ sono i sogni cattivi di Giacomo: e sono del Leopardi estremo.
È chiaro: di fronte alla serpe e ai pipistrelli, altri, dicevo, rispetto all’umano, di fronte all’«arida schiena» del vulcano ‘bestializzato’, sta il fiore contento dei deserti: umanizzato, invece, di continuo, e specialmente memorabile quel vocativo all’«odorata ginestra […] d’afflitte fortune / ognor compagna», 6, 16, rimodulando in profondità Virgilio e Petrarca. Vicina all’umano, la ginestra: ma un umano a sua volta vicino agli angeli, gli angeli dell’infanzia leopardiana, che sogna il paradiso, per quanto se ne distanzia più o meno il mondo animale nei versi del 1836. Alla prossima eruzione vesuviana piegherà alla furia del fuoco, accogliendo il suo destino, il suo capo innocente.
A proposito di innocente, vedremo tornare questo aggettivo, là per l’io leopardiano, in Amore e morte, che precede di un tre-quattro anni ‒ è del 1832 o del 1833 ‒ La ginestra. E si tratterà, per Giacomo, di opporre, con fierezza auto-protettiva, la propria innocenza alla ferocia del Carnefice primordiale. Al quale sarà facile dare un nome: il nome di Ahriman, Arimane.
X.
Ma dunque, in particolare, la serpe: estranea all’uomo, è al polo opposto rispetto anche alla ginestra, al fiore gentile, che sempre si accompagna, invece, ai segni delle umane «afflitte fortune». Si tratta pur sempre del mondo della natura. Ma quel mondo è come spartito, diviso tra vario mondo animale, inquietante ̶ mondo dell’abbandono (deserto è da de-sero) ̶ e quel solitario esemplare del mondo vegetale, che, pure, ‘resiste’ proprio come la serpe o i pipistrelli: la ginestra dal dolcissimo profumo, «di tristi / lochi e dal mondo abbandonati amante», 14-15. È con la grazia del commiserante fiore della ginestra, che l’umano può incontrarsi. Chissà con quali auto-proiezioni d’amante, lui, sempre sfortunato. Imparando anzi (vedi il finale del canto) da lei. Che piega, dicevo, innocente, il capo, alla furia distruttrice della lava, ma non supplica e, aggiunge Leopardi, non se ne sta eretto «con forsennato orgoglio inver le stelle», 309-10: non si crede, come tanta umanità, immortale (e per quel «non eretto» ecc. già Straccali rinviava a Ovidio: ma Leopardi poteva anche avere nella memoria il serpente «sublato pectore» di Aen. II: vedi più sopra come «s’erge […], alzato il petto», nella sua traduzione del 1816-17; e vedine il ritorno, là però positivo, euforico, già in Amore e morte)[5].
XI.
Aggiungo ora, e sto arrivando al luogo-clou del mio percorso, che la serpe della Ginestra ha un altro parente stretto, oltre alla vipera allusa nel Pensiero dominante, e che a sua volta spaventa, terrifico, tra Palinodia al Capponi e, tre anni prima, l’abbozzo dell’inno ad Arimane, della primavera del 1833. Quel parente è un altro rettile pericoloso: è nientemeno che il serpente Boa.Cerchiamolo nell’abbozzo dell’inno ad Arimane, primavera del 1833:
Re delle cose, autor del mondo, arcana
Malvagità, sommo potere e somma
Intelligenza, eterno Dator de’ mali e reggitor del moto, io non se questo ti faccia felice, ma mira e godi ec., contemplando eternam. ec. produzione e distruzione ec. per uccider partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimen. Natura è come un bambino che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore. I selvaggi e le tribù primitive, sotto diverse forme, non riconoscono che te. Ma i popoli civili ec. te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio. Ma tu sei Arimane, tu quello che ec. E il mondo civile t’invoca. Taccio le tempeste, le pesti ec. tuoi doni, che altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci. E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l’opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell’uomo sempre regneranno L’ardimento e l’inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec. Vivi, Arimane e trionfi, e sempre trionferai. Invidia degli antichi attribuita agli dèi verso gli uomini. Animali destinati in cibo. Serpente Boa. Nume pietoso ec. Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l’amore?… per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato ec.? Io non so se tu ami le lodi o le bestemmie ec. Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec. Mai io non mi rassegnerò ec. Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. concedimi ch’io non passi il 70 lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predicatore ec. l’apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte. (non ti chiedo ricchezze ec. non amore, sola causa degna di vivere ec.). Non posso, non posso più della vita.
Eccolo dunque, il Serpente Boa, incistato di brutto, fra due punti fermi, nell’abbozzo dell’inno (neretto e corsivo miei). Mi chiederò più avanti come ci è arrivato, all’abbozzo. Ma intanto: il 1832-1833 leopardiano, come si configura, tra biografia e scrittura? Il biennio 1832-33 ospita, oltre alle lettere appassionate, lettere-lampo d’amore, di solitudine e di disperazione, ad Antonio Ranieri, e oltre all’inno ad Arimane, anche A se stesso e Amore e morte. Trascrivo A se stesso:
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.
Passo subito ad alcuni versi di Amore e morte, sottolineando la zona che direi dell’‘io-Cristo alla colonna’, 96-116:
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s’al tuo divino stato
L’onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t’inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell’età reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente…
XII.
Lo spettro di Arimane si affaccia potentemente ‒ tra sgomento e fascinazione ‒ in tutte e tre queste prove del 1832-33. È il Carnefice primordiale. E l’abbozzo, in particolare, è una soglia: l’apertura, non mai, però, conclusa, e il fatto ha la sua importanza, mentre urge talmente la scrittura da concedere solo inizialmente all’abbozzo di assestarsi secondo la ‘forma’ della canzone ‒ vedi i primi e rimasti poi unici quattro versi iniziali ‒, su una satanodicea da opporre a ogni teodicea positiva: respinta specie dall’ultimo Leopardi (vedi le tre cose che l’uomo non vorrà mai sapere, Zib. 1832: le tre verità che gli uomini non accetteranno mai:«l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte»).
Il Carnefice-Arimane si impossessa di una stazione famosa della ‘Via Crucis’, della Passione di Cristo (e l’io stesso diventa qui Gesù flagellato, l’Innocente alla colonna del martirio). Ma quell’onirico Carnefice oscilla tra il Sanguinario, la cui mano si colora del sangue innocente della vittima, e il Soffocatore: perché il dio Carnefice è, anche, il Constrictor: un originario ente potentissimo che sopprime soffocando la vittima, le vittime. È pure da subito detto «reggitor del moto»: il rovescio spaventoso del Dio di Cartesio; malvagio e ascoso: uccide con le sue spire ‒ quarantacinquemila, ci fa sapere Voltaire ‒ che tradiscono soffocando.
XIII.
Leopardi potrebbe avere letto, già da giovane, le pagine ‘da spavento’ di Bernard de Lacépède sul serpente devil, nome volgare del Boa, nell’antologia di Noel-Delaplace, le Leçons de Littérature et de Morale, che lui ben conosceva. Ma pure la Bibbia gli parlava del serpente attorcigliato: penso a Job, e, nel caso, più a Isaia, 27,1, dove si legge del «Leviathan, l’agile serpente, il Leviathan, il serpente tortuoso», anche se la Bibbia non poteva nominare precisamente il serpente Boa. Fatto sta che il poeta dei Canti ospita anche altrove il serpente tortuoso che soffoca, il Boa constrictor. Dopo un paio d’anni dal 1833, solo una sua punta – scrive Leopardi, l’estremo: «l’estremo del Boa» ‒ appare nella Palinodia a Gino Capponi, canto napoletano del 1835, v. 32. Si tratta ora di un lussuoso capo di vestiario: lo indossano le signore bene e ultra-bene.
Boulanger de Boisfrémont, Ritratto della Contessa Sommariva de Seillière, 1833
(scelto anche per la data)Dama con boa e copricapo in velluto, 1820-40 circa
Si tratta delle gentili dame che Leopardi osserva, lui a sua volta goloso di dolci, mentre fanno onore ai crepitanti pasticcini, vedile sempre nella Palinodia, nelle pasticcerie di Napoli. Appena un anno prima ha detto anche in poesia cosa pensa, ammettendo rare eccezioni, delle donne, «in chi dell’uomo al tutto / da [= per] natura è minor» (Aspasia, 57-58).
Ma che luogo beato della virtù e della cultura, caro Gino, irride Leopardi, nella Palinodia, il nostro secolo! E, come no, luogo della felicità. Tutti la inseguono, la divina felicità, e tutti i nostri contemporanei li ho visti che l’afferrano, come si afferrava in antico, glosserei io, il Kairós, e poi la Fortuna, «per le chiome fluttuanti»; o, almeno, per un’estremità, l’estremo, la punta – è la coda? È, più probabile, la testa? – del Boa. Annotava ironicamemte lo stesso Leopardi, a proposito di quel Boa: «Pelliccia – ma la chiameremmo ora una stola, tenuta, a seconda della temperatura, più o meno stretta, constricta intorno al collo –, pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili de’ tempi nostri». Il tremendo e il gentile. Avrà pensato, guardando a come tante donne civettavano in quegli anni col tremendum, con l’orrore e con la morte, a quel Giuseppe Parini che già inorridiva davanti alla moda del nastro rosso al collo, sul finire del Settecento, scrivendo A Silvia (altitolo Francesco Reina aggiunse: o del vestire alla ghigliottina).
XIV.
Ma due anni prima, si è visto più sopra, era già questo, il serpente Boa, che veniva nominato nell’abbozzo dell’ad Arimane. Appuntava Leopardi, semplicemente, quelle due parole: «Serpente Boa».
Certo pensava al destino degli animali che nascono già destinati al nutrimento: sono nati per nutrire pure il Boa, e altri carnivori, gli umani compresi. Ma c’è dell’altro. È il Serpente Boa che avvolge il suo Signore e Padrone, il potentissimo Ahriman, facendo quasi tutt’uno col dio, in una raffigurazione che Giacomo poteva conoscere, perché stava a Roma dal 1804, acquistata in quell’anno dai Musei Vaticani. Proprio il Museo di cui lui stesso fa menzione ad altro proposito, in Zib., aprile 1824, dimostrando chiaramente di esserci stato in visita, dunque tra secondo 1822 e primo 1823, quando era a Roma ospite degli Antici. Sono grato a Lucio Felici, mi piace ricordarlo, che mi ha messo sulle sue tracce.

Già allora Leopardi conosceva bene Arimane. Anzi, fin da ragazzino si aggirava tra fonti antiche e anche meno tali che glielo presentavano come originario dio persiano del male, opposto a Ormutz, o Oromaze, dio del bene; mica lo impattò solo da adulto, leggendo Voltaire o Byron, come si usa credere[6]. E poco qui importa che il nome della raffigurazione sia disputabile. Ahriman o Mitra? Leopardi non dà mai segno, che io sappia, di conoscere Mitra; conosce invece assai bene, e ben più presto di quanto si usi credere, Ahriman. Poteva leggere, nella «Biblioteca italiana», anno 1816 (proprioil volume di quell’anno c’è ancora nella Biblioteca di Monaldo) una descrizione dell’immagine: in quella sede attribuita a Mitra. Ma se, ammesso che quella descrizione abbia lasciato una importante traccia mnestica, Giacomo si è poi trovato a dover scegliere, avrà scelto la tradizione (per la verità a sua volta non certo molto consistente, né comunque, che io sappia, davvero argomentata) che conduceva ad Ahriman, passando sopra o dimenticando la segnalazione in rivista del 1816[7].
XV.
Due le letture possibili dell’immagine e del serpe che si avvolge intorno al dio. Per la prima interpretazione si tratta del serpente come figura del Tempo. Ahriman, il dio persiano del male, si muove, come il dio del bene, in una sorta di immutabilità temporale. Le sue spire alluderebbero all’eterno Ritorno del Tempo. (Anche al dio Mitra, torno un attimo a lui, spettava questo trattamento). L’altra lettura è più spiccia e realistica: Ahriman è il soffocatore delle sue vittime, e fa tutt’uno col serpente Boa. Non le uccide, le innumerevoli vittime, col colpo visibile della spada ‒ com’è della Figura eroica, solare ‒, ma con la tattica lunga, estenuante, vile, nascosta nelle tenebre, della sua spira multipla e mortifera. Su questa tattica inesorabile del serpente devil indugiava molto la descrizione leggibile nelle Leçons ‒ le ricordavo più sopra ‒ di Noel-Delaplace. Credo che Leopardi si ritrovasse facilmente nella seconda di queste letture. E anche, dicevo più sopra, Voltaire, il molto ascoltato Voltaire, collegava, ad Ahriman o Hariman, le serpent, il serpente[8].
Torniamo allora al potere ascoso di A se stesso. Ahriman infetta anche A se stesso, che credo vicinissimo per data all’abbozzo dell’inno che sappiamo. È «il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera». E si insinua, dicevo, secondo me, anche nel Carnefice che perseguita l’Innocente, in Amore e morte. Anche se là è il boia. Vale la pena, penso, di osservare che boia assuona-consuona stretto con Boa: Ahriman è sia il Boa che soffoca, sia il boia che flagella, e che sparge il sangue innocente della sua vittima-Cristo (ma l’io alla colonna dell’ingiusto supplizio non benedirà la «man che sanguinando si colora / del suo sangue innocente»). L’immagine del Cristo alla colonna, grondante sangue, «vittima mansueta ed inerme», già s’impone a un Giacomo sedicenne ed eloquente, in cerca dell’effetto, in un suo “discorso sacro” del 1814, La flagellazione, pronunciato nella chiesa recanatese di San Vito. E peraltro è anche giusto rinviare al Foscolo dell’Ortis[9]: ma è poi solo del poeta di Amore e morte l’accento sulla propria condizione ‘cristologica’, di vittima: non però mansueta, in quel 1833, ma sì innocente. E quella della propria innocenza è una sorta di ultima frontiera di riparo e di compenso: una convinzione molto importante per lo stesso equilibrio psicologico di Giacomo, mentre poi l’Ungaretti di Girovago («Cerco un paese innocente») la saprà un luogo dell’‘introvabile’, e molto Novecento anche poetico lavorerà ad assottigliarla, l’innocenza dell’io; o a distruggerla.
XVI.
Guardando alla raffigurazione ‘romana’ di Ahriman, o a quella del “fanciullo divino” ‒ vedi Omero, vedi Eraclito, vedi un dialogo di Luciano, Le vite all’asta, notissimo a Leopardi: il pais paizon, il “fanciullo che gioca”, nella Palinodia, e giocando costruisce e distrugge il mondo: e già quel bambino appare chiaramente, si è visto leggendo ad Arimane, stretto alla natura, due anni prima della Palinodia, nell’abbozzo dell’inno ‒ torno a persuadermi, non io solo, come di nichilismo leopardiano si debba sì parlare, ma con molta prudenza, quando si chiami in causa non solo il Leopardi filosofo, ma, con lui, il pensante poeta Leopardi. Finisco col rivalutare il «relativismo universale» di cui scriveva, per connotare l’atteggiamento di fondo di Leopardi, nel 1940, Adriano Tilgher: suo, anche se sommario e per così dire ‘statico’ interprete; ma troppo oscurato, ormai, per esempio, dai fautori di una lettura al tutto nichilistica del però ‘serpentino’, anche contraddittorio messaggio leopardiano.
Si nasconde nel buio delle viscere del mondo, e nella notte, il Serpente Arimane, opposto, per i persiani, a Ormuz / Oromaze, il dio del giorno e della luce trionfante, come lo Zeus olimpico dei greci. Si nasconde come il coniglio pauroso, come, soprattutto, la serpe uscita, di nuovo giovane (ingiovanita, traduceva Leopardi da Aen. II), alla luce, ma nascostasi per lungo tempo nella tana, nelle tenebre, nella Ginestra; o come la famiglia dei pipistrelli, da sempre creature d’inferno e parenti di altri animali notturni e sepolcrali, e viene facilmente da rinviare all’upupa foscoliana o alla strix–strige del melodramma (vedi Il trovatore verdiano, libretto di Cammarano: riappaiono poi entrambe, l’upupa e le strigi, in Montale poeta). E, pare a me, la sua brutta ombra, la sua potenza cattiva si nascondeva già, nel 1829-30, ormai al congedo definitivo da Recanati e dai sogni recanatesi (ma già l’idillio Il sognonon è certo un bel sogno, un bell’ “idillio”), nel canto asiatico di Leopardi, nel male nominato in cima di verso («a me la vita è male»), e in rima con tutte le uscite in –ale, fino alle ale in chiusa, del Canto notturno di un pastore errante, 1829-30. Un coro di rime, a rafforzare, del male, l’eco e la presenza lungo l’estendersi del canto.
XVII.
(Fra parentesi, e così accenno di nuovo al Canto notturno: l’ardore come i ghiacci, cioè il caldo torrido e il freddo glaciale, sono tra i doni avvelenati di Arimane: ma c’è una linea che va dal Dialogo della Natura e di un Islandese, 1824, dove l’Islandese è molto attento a elencare i disastri del clima, sempre avverso o indifferente all’uomo, al Canto notturno ‒ «tu sai, [luna], tu certo, […] a chi giovi l’ardore, e che procacci / il verno co’ suoi ghiacci», 73, 75-76, all’abbozzo, infine, del 1833, «…Tu [, Arimane, ] dai gli ardori e i ghiacci…» ‒. Il percorso è dalla femminile natura già detta onnipossente nella Sera del dì di festa, cioè nei primissimi anni Venti, alla natura che, nell’operetta del 1824, non si cura certo di preservarci dal gran caldo e dal gran freddo, dalla sofferenza o fin dalla morte per disidratazione o per congelamento, alla maschile, feroce, trionfante intelligenza di Arimane, che, nell’inno, finisce per ‘assorbire’ quella natura che come un bambino gioca, costruisce e distrugge ‒ e questa icona ‘prima’, originaria, a sua volta, dicevo, rispunterà nella Palinodia, circa due anni dopo l’abbozzo dell’inno‒: il tutto nel giro di poco più di un decennio).
XVIII.
Concludo. Leopardi non accoglie l’incerta idea dei persiani antichissimi, col Sole destinato, chissà quando (Teopompo, IV sec. a. C., parlava di altri 3000 anni di lotta fra i due enti o dei), a trionfare sul male. Né certo avrebbe accolto il Sole dello Spirito, che, per Hegel, scrutatore ‘fantastico’ pure lui, in quegli anni, della religione persiana, è destinato, infine, nel suo lento ma inesorabile movimento ‒ il movimento del Sole, il diffondersi della luce ‒ dall’est asiatico all’Ovest, all’Europa, alla Germania anzitutto, a riscattare, infine, il mondo.
Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia solo la luce della luna e l’‘ardere’ delle stelle, in, dirà nella Ginestra, «purissimo azzurro», si oppongono, però senza speranza di riscatto ‒ e senza risposte alle domande del pastore ‒ alla tenebra infetta, impura di Ahriman, al male: è in quella luce affabile ma muta, contornata dalla tenebra, che il poeta orientale canta la sua “aria triste”, come già riferiva a proposito dei rapsodi kirghisi il barone von Meyendorff, nella notte asiatica.
2019-giugno 2020, «in angustiis»
Si ringrazia Olinto Domenichini
Immagine di copertina: il Pipistrello dal Bestiario di Aberdeen, (folio 51), XII secolo
[1] Ma per il coniglio e quanto, in generale, al bestiario della Ginestra, importante il commento di M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, in G. Leopardi, Cantos, Madrid 20203, ad locos.
[2] Vedi ora, del cubano-italiano A. Herrero, Né topo né uccello, in «Antinomie», 21 maggio 2020, sulla familiarità fantastica dei cubani col pipistrello. Da tenere presente che Herrero si mostra, altrove, un buon lettore di Leopardi.
[3] Vedi alcune belle pagine del lavoro, che leggo via internet, di G. Vacchelli, Ri-leggere le Scritture al crocevia di più tradizioni. Per un pluralismo inter-intraculturale: tra simbolo e dialogo, a.a. 2012-2013, pp. 252-263. E anche C. Augias-M. Vannini, Inchiesta su Maria: la storia vera della fanciulla che divenne mito, Milano 2013, specialmente pp. 211-212.
[4] Vedi almeno G. Leopardi, Canti, commento di F. Gavazzeni e M.M. Lombardi, Milano 1998, il ‘cappello’ introduttivo.
[5] Citerò per altra ragione più avanti il passo di Amore e morte: ma intanto rinvio ai vv. 108-10, alla Bella Morte: «Me certo troverai […], / erta la fronte, armato…».
[6] Vedi il mio Lo sguardo a oriente. Buonafede, un filosofo indiano, Arimane; e ancora sull’«Infinito», in Il mappamondo di Giacomo. Leopardi, l’antico, un filosofo indiano, il sublime del qualunque, Venezia 2019, pp. 153-184, e passim.
[7] L’amico Luca Bragaia mi aiuta ad arrivare infine a due numeri della «Biblioteca italiana», del 2 maggio e del 3 luglio 1816, in cui si descrive proprio l’immagine che ci interessa: facendo il nome di Mitra.
[8] Vedi la sua nota alla voce Zoroastre, nel Dictionnaire philosophique. La trascrivo in parte: «Le diable, chez Zoroastre, est Hariman, ou, si vous voulez, Arimane; il avait été créé. C’était tout comme chez nous originairement; il n’était point principe; il n’obtint cette dignité de mauvais principe qu’avec le temps. Ce diable, chez Zoroastre, est un serpent qui produisit quarante-cinq mille envies. Le nombre s’en est accru depuis…», corsivo mio. Cfr. A. Panaino, Considerazioni iranologiche in margine all’abbozzo leopardiano «Ad Arimane», in Da Dante a Montale. Studi di filologia e critica letteraria in onore di Emilio Pasquini, a cura di G.M. Anselmi et al., Bologna 2005, pp. 547-48.
[9] Per La flagellazione v. G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici e E. Trevi, Roma 1997, pp.743-45; per Foscolo vedi E. Neppi, Il dialogo dei tre massimi sistemi. Le «Ultime lettere di Jacopo Ortis» fra il «Werther» e la «Nuova Eloisa», Napoli 2014, p.269.