DeLillo e la criogenesi
Jeffrey Lockhart è il protagonista di Zero K di Don DeLillo (dove la ‘K’ sta a indicare lo Zero Assoluto, denominato Zero Kelvin). Il padre Ross Lockhart – un milionario sposato con Artis Martineau, una giovane archeologa che sta per morire a causa di una malattia terminale – è il principale finanziatore di una clinica segreta, chiamata Convergence. Qui la morte viene controllata attraverso la criogenesi e i corpi vengono conservati nell’attesa che la scienza scopra il modo di farli tornare in vita in un futuro prossimo-non tanto prossimo. All’inizio del romanzo Jeffrey raggiunge Ross e Artis nella clinica, che si trova in un luogo sperduto vicino al Kazakistan, per salutare la matrigna prima della sua “operazione”.
Zero K è, a sua volta, qualcosa di diverso da Convergence. Questa, infatti, ospita i pazienti che desiderano farsi congelare prima di morire naturalmente. Non necessariamente malati gravi. Come nel caso di Ross, che sceglie questa forma di “suicidio assistito” in modo tale da congiungersi alla sua amata. Jeffrey manifesta invece uno scetticismo radicato, pessimista e cupo nei confronti di queste operazioni e, per tutto il romanzo, veicola l’idea che la scienza sia essenzialmente fonte di illusioni. Tanto quanto le religioni.
La seconda parte del romanzo è ambientata dopo la morte di Artis, a New York, dove Jeffrey vive. Fatti storici contemporanei, come l’esplosione di un meteora il 15 febbraio 2013 sopra la città russa di Chelyabinsk e la guerra in Ucraina, fanno da sfondo e sono una parte rilevante della storia, intrecciandosi intensamente alla vita di Jeffrey, Emma (la sua compagna di allora) e di suo figlio adottivo, Stak.
“Lei è prima e terza persona insieme”, scrive De Lillo per restituire ciò che prova Artis una volta congelataQui le vere protagoniste sono le domande ricorrenti di una coscienza/persona che cerca di comprendere la sua nuova dimensione e la sua nuova “composizione” corporea-cognitiva, spaesata in un primo momento all’interno di questi luoghi inesplorati, mai visti e tantomeno raccontanti. Ora, se si chiudono gli occhi, nella retina non compare nulla.
“Diventerò un esemplare clinico. Nel corso degli anni ci saranno dei progressi. Parti del corpo verranno sostituite o ricostruite. […] Un riassemblaggio, atomo per atomo. Sono straconvinta che mi risveglierò con una nuova percezione del mondo. […] In un tempo non necessariamente così lontano. […] Rinascerò in una realtà più profonda e più vera. Linee di luce brillante, la pienezza di tutte le cose materiali, un oggetto sacro.”

Artis ci aiuta invece a capire l’importanza del progetto in sé, di Convergence e della sua portata filosofica, basata sul concetto di un possibile e plausibile superamento dei propri limiti biologici e fisiologici, tali da boicottare l’idea di perfezione a cui tende l’uomo. Post-human. Uno degli elementi più interessanti del romanzo è proprio il non ricorso alla fantascienza. Tutto ciò è quindi sì utopico ma non delirante.
Incuriosito, mi informo sull’eventualità reale di potermi congelare per vivere in eterno e farmi risvegliare quando la morte sarà finalmente vinta. O, perlomeno, quando il Covid-19 sarà sconfitto; mi parrebbe un giusto compromesso. Scopro che la ‘crionica’ esiste realmente, ed è una tecnologia che ha come obiettivo primario l’estensione delle aspettative di vita.
Tecnicamente, si attua abbassando la temperatura corporea degli esseri umani che sono morti da poco (entro massimo mezz’ora dalla loro morte legale), arrestando così la decomposizione. Il “paziente” passa allora allo status sociale di ‘criopreservato’, saltando quello che lo definirebbe ‘morto’. Uno dei pochi elementi di fantascienza presente nel romanzo è allora il fatto che non ci si possa fare ibernare da vivi. Cosa che, invece, Ross farà per poter raggiungere Artis. Ecco che sfuma il sogno di superare l’emergenza e la quarantena congelandomi. Continuo la mia ricerca sul tema.
La Crioconservazione è un procedimento che inizia direttamente nell’ospedale dove si trova il malato terminale. Dopo la dichiarazione di morte legale, entrano in gioco i tecnici che ripristinano meccanicamente la ventilazione ai polmoni e l’afflusso di sangue nel cervello. Una volta che il corpo raggiunge il centro di criogenesi, gli viene iniettata per via endovenosa la soluzione “crioprotettiva” per non far congelare i tessuti. Ancora, il corpo viene poi immerso nell’azoto liquido, portandolo a una temperatura di -125 gradi centigradi. Dopo tre ore, il corpo viene stabilizzato a -196 gradi.
Non solo, è anche possibile effettuare una scelta, ovvero decidere se conservare il corpo o “solamente” il cervello, utilizzando la stessa tecnica di conservazione utilizzata per mantenere il corpo ‘in vita’. Quest’ultima opzione è chiamata ‘neuro conservazione’, nella speranza/convinzione che in futuro sarà possibile non solo riportare in vita i corpi crioconservati, ma addirittura far crescere nuovi corpi in cui riporre i cervelli ibernati. E qui, non può non tornarmi alla mente Futurama di Matt Groening.
Tornando sulla terra ferma, scopro che la scienza rimane però alquanto scettica a riguardo, non garantendo nessun risveglio ai corpi congelati e crioconservati. Nonostante ciò, nel 2019, 337 persone nel mondo hanno deciso di abbracciare la criogenesi, alcuni congelando l’intero corpo, altri soltanto la testa. Il costo per “congelarsi” ammonta tra i 160 e i 200 mila dollari. 80 mila, invece, se si decide di conservare soltanto la testa. In ogni caso, la quarantena mi sarebbe toccata lo stesso, capisco osservando i costi.
Ricapitolando, il tema dell’immortalità, del superamento della morte e della messa a punto dei nostri limiti biologici, sono nodi fondamentali e fondanti dell’intero romanzo di DeLillo. Da una parte abbiamo gli esponenti del progetto Convergence e Zero K, insieme ad Artis, a Ross e a tutti quegli uomini e quelle donne che vedono nell’immortalità qualcosa di plausibile, sensato e motivato. Dall’altra, a far da contraltare c’è Jeffrey, il più scettico e dubbioso tra tutti, sempre teso all’analisi volta a districare i nodi che dovrebbero slacciare e rendere lampante il senso di una vita eterna la quale diventerebbe, secondo lui, una non-vita.
“Sto vivendo un’esperienza completamente irreale. Ti guardo e cerco di convincermi che sei mio padre. […] No, no. Non sono pronto per una cosa del genere. Ti sei spinto troppo oltre per me. […] Io penso che ti hanno fatto il lavaggio del cervello. Sei vittima di questo ambiente. Fai parte di una setta. […] Semplice fanatismo vecchio stampo. […] È un omicidio in piena regola? È una forma di suicidio assistito orribilmente prematuro? O è un crimine metafisico che solo i filosofi possono analizzare? […] Morire un po’ per vivere, poi, in eterno.
[…] Ero lì da tre giorni, quattro, cinque, non lo sapevo nemmeno io: un tempo compresso, un tempo stretto, un tempo che si accavalla, senza giorni, senza notti, porte ovunque e nessuna finestra. Capivo, naturalmente, che quel posto si trovava ai margini estremi del plausibile.”
De Dominicis e l’immortalità
Qui mi viene in mente Gino De Dominicis: come nei due romanzi di DeLillo, tempo, spazio, vita e morte sono saldamente connessi tra loro. È uno dei pochissimi grandi artisti in grado di teorizzare lucidamente il tema dell’immortalità in tutto il suo lavoro – irrealizzabile (forse) sì, ma non per questo delirante. De Dominicis, infatti, si dimostra un artista conscio del proprio obiettivo, realizzando o esponendo i propri pensieri in maniera del tutto razionale e convincente.
Nel 1973, a dimostrazione di un approccio pseudo-scientifico, alla galleria Schema di Firenze, De Dominicis, affiancato dal fisico Franco Rustichelli, presenta Verso una formulazione matematica dell’immortalità dinamica, curata da Achille Bonito Oliva, un incontro aperto al pubblico (in una galleria d’arte!) che può ammirare alcuni grafici matematici che mostrano come raggiungere la condizione dell’immortalità, assiemee a una performance. Lo stesso fisico aveva già collaborato con l’artista durante la mostra Fine dell’alchimia, curata da Maurizio Calvesi.
De Dominicis ha sempre sostenuto che il genere umano ha indirizzato i suoi sforzi e progressi tecnologici-scientifici verso obiettivi sbagliati e non verso l’unica cosa che conta: la morte e il suo definitivo superamento. Lo dimostra Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1969). Di fronte a noi giace uno scheletro umano, sdraiato a terra, che indossa dei pattini ai piedi, tenendo al guinzaglio un cane, anch’esso ridotto a scheletro. Già il titolo evidenzia L’errore commesso dall’uomo; egli si è infatti mosso negli anni in una strategia (ovviamente fallimentare) tesa a velocizzare e moltiplicare gli spostamenti nello spazio (rappresentati dai pattini a rotelle). Così facendo, è intervenuto indirettamente sì sul tempo – alimentando l’illusione di vivere più a lungo e di allontanare la morte – ma ciò non è bastato e, soprattutto, non è stato in grado di risolvere il vero problema. Un palliativo visto da De Dominicis come Lo sbaglio che, con la sua solita ironia, accomuna l’uomo a un essere inferiore come il cane, conducendolo inesorabilmente alla morte – ed ecco i due scheletri.

Dopo averci mostrato il grande sbaglio del genere umano, l’artista ci offre alcune soluzioni formali per risolvere la morte. L’immobilità, intesa come congelamento e annullamento del tempo scorrevole, si erge a soluzione plausibile e possibile, divenendo la condizione d’esistenza fondamentale per raggiungere la tanto desiderata immortalità. Si spiega così la scelta di ritornare a dipingere verso la fine degli anni settanta. Un ritorno a quelle tecniche originarie che sono fisiologicamente mute, fisse, immobili e, dunque, quasi per osmosi, eterne, e che meglio possono dimostrare l’immortalità.
Ancora, nella performance de Lo Zodiaco (1970) l’immobilità risuona in tutta la sua potenza ossimorica. Ci troviamo di fronte alla prima performance eseguita da attori completamente immobili, una sorta di tableau vivant, andando contro le unità aristoteliche del teatro (tempo, luogo, azione) tipiche anche – fino ad allora – delle performance.
Infine, come si può contemplare in Gilgamesh (1986) notiamo che, oltre all’ideogramma realizzato per la celebre opera/manifesto Immortalità del 1971 (X sopra la croce=cancellazione della morte), qui De Dominicis inserisce anche la svastica. Svuotata dalle sue caratteristiche antisemite e politiche, è utilizzata come simbolo della storia. Oltre alla cancellazione della croce (=morte), l’artista elimina anche la svastica (=storia/tempo). L’immortalità può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione della morte, ma sublimata inevitabilmente dall’annullamento del tempo scorrevole.
“La vita dice alla morte: ‘per esistere lei deve eliminarmi, ed è per questo che è sempre stata tanto odiata, a me invece per esistere basta solo che lei rimanga a debita distanza, questa è la differenza’. La morte colta di sorpresa risponde qualcosa, e in quel momento si accorge di poter esistere anche lei autonomamente. La vita allora…”
come si legge in Gino De Dominicis. l’Immortale a cura di Achille Bonito Oliva (Mondadori Electa, 2010).
DeLillo/De Dominicis, vedere una roccia
Riprendo in mano Point Omega e Zero K. In quest’ultimo il tempo che pare (non)scorrere nella struttura di Convergence è ben diverso dalla dimensione temporale che si struttura in ore, giorni, settimane, abitudini rispetto a quando i protagonisti si trovano a New York. Lo stesso discorso può essere ampliato e collegato a Point Omega. Il protagonista del breve romanzo si trova nel deserto per intervistare un reduce di guerra. Qui, dove tutt’intorno è sabbia e calore e blu profondo del cielo, percepisce il tempo in maniera differente.
“[…] – Ci abita la mia ragazza.
– A quanto pare tu e le tue ragazze non vivete mai nella stessa città. Perché?
– Così il tempo diventa più prezioso.
– Qui è molto diverso […].
– Lo so. Me ne sono accorto. E il tempo non esiste.
– Oppure è talmente soverchiante che ne percepiamo il passare in modo diverso.
– Ci nascondiamo dal tempo.
– Ci rimettiamo al tempo […].” (Conversazione tra Jeffrey e Ross Lockhart, in Zero K)
O, ancora, in Point Omega, nel monologo del protagonista mentre riflette sulla differenza che c’è tra il deserto e la città a livello temporale:
“Alla fine il giorno diventa notte, ma è una questione di luce e oscurità, non è il tempo che passa, il tempo mortale. Non c’è il solito terrore. Qui è differente, il tempo è enorme, ecco cosa sento qui, in modo tangibile. […] Qui non c’è, il calcolo minuto per minuto, quella cosa che sento quando sono in una città. È tutto incastrato, le ore e i minuti, parole e numeri ovunque […] le stazioni ferroviarie, […] i tassametri, le telecamere di sorveglianza. Tutto ruota intorno al tempo, tempo cretino, tempo inferiore, la gente che controlla l’orologio […]. Le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura.”
Torno così a pensare al tema che più mi affascina: il Tempo. Una dimensione che si lega alle nostre solide abitudini e convinzioni ma che, come questo periodo ci dimostra, sono in realtà fragili, scivolose e relative.

Un tempo, quello di adesso, che diventa impalpabile, immobile, il cui scorrimento e svolgimento è dettato essenzialmente da una nostra presa di posizione. Da un nostro tenerci stretti alle abitudini più radicate. E ai nostri cicli vitali essenziali.
“Avevo parlato con Emma della galleria d’arte e dell’oggetto solitario in mostra e lei a sua volta ne aveva parlato con Stak. […] Eravamo lì per vedere una roccia. L’oggetto in mostra è stato ufficialmente denominato scultura rocciosa da interno. Era una roccia grande, un pezzo unico. […] La mostra era stata allestita una ventina di anni prima ed era ancora in corso, era perenne, la stessa roccia”. Che la mostra che Jeffrey, Emma e Stak visitano a New York sia proprio un’esposizione su De Dominicis? Che l’opera, in particolare, fosse Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra (1969)? Attendendo così, che anche l’immobile, possa (ri)tornare a muoversi.
Immagine di copertina: Gino De Dominicis, Schermo, 1970