Irpinia, Armenia

05/06/2020

Quest’anno ricorrono i quarant’anni del terremoto in Irpinia, avevo vent’anni. I terremoti che ho vissuto nel 1980 sono stati due; poi descrivo il terzo, personale.

Il primo culturale: nel mese di aprile, nella galleria di Lucio Amelio a Napoli, si inaugurava la mostra di ritratti di Joseph Beuys fatti da Andy Warhol, alcuni fatti con polvere di diamante.

Il secondo per data, 24 novembre, è una ferita indelebile nel fianco dell’umanità e di un paesaggio fino ad allora rimasto contadino, naturale. Ho diviso sempre la storia dell’Italia in prima e dopo terremoto dell’Irpinia. Ho assistito all’imbarbarimento della classe politica e affaristica dell’intero paese; da quel momento è cominciato tutto, il terremoto si è trasformato in un lasciapassare dando vita a comportamenti da fuorilegge. Ciò che è nato da quel dramma umano non è stato ancora studiato come si dovrebbe.

Un artista, Joseph Beuys, che arrivato in America nel 1974 non tocca terra e si fa trasferire direttamente in una galleria di New York, dove per tre giorni, incappucciato con un feltro, provoca un coyote con un bastone da sciamano. Pochi anni dopo, 1980, si fa ritrarre da Andy Warhol, l’artista americano più dedito al commercio dell’arte in quegli anni.

Cosa accadde? Quale fu il movente di quello scambio? I ritratti di Beuys fatti da Wharol non so quale valore storico possono avere, ma so di certo che hanno nuociuto al valore comportamentale di Joseph Beuys. Anche questo è un avvenimento non ancora studiato come si dovrebbe.

Il terzo “terremoto”, del tutto personale: a vent’anni lasciai l’Italia, lasciai casa. I piedi da allora sono diventati i miei strumenti di lavoro. Mi misi sulle tracce di Novalis e Heinrich von Kleist, senza saperlo stavo migrando in altri territori, allontanandomi da quello visivo.

Gyumri, seconda città dell’Armenia; 17 dicembre 1988, un terremoto devastante, venticinquemila morti, con epicentro non lontano da Gyumri. 2017, Adelina von Furstemberg mi invita alla prima Triennale internazionale d’Armenia.

Nelle città che hanno subito un terremoto sento le urla che ha provocato, le vedo nei vuoti dello spazio, nei colpi d’ascia provocati dalle scosse nei muri delle case, nei mucchi dei crolli abbandonati.

Oltre ai piedi come strumento di lavoro, i libri sono l’altro strumento, la loro architettura fatta di pagine. Chi lascia casa, chi ha dovuto attraversare la violenza della natura, ha mani vuote, offre all’altro ciò che vede.

La terra in Armenia è un libro di pietra inciso; camminando si sfogliano le sue pagine, seguendo i solchi si possono leggere i paesaggi coltivati con le mani. Abbiamo messo la tovaglia bianca di neve dell’Ararat sul nostro tavolo da lavoro, e con ferri appuntiti abbiamo raggiunto le cime dei muri della stanzetta del Museo Merkurov di Gyumri. Abbiamo cavato dalle pareti ciò che si nascondeva da tempo, la quarta poesia del ciclo Armenia di Osip Mandel’štam. Riversare nello sguardo attraverso l’alfabeto armeno ciò che è stato scritto circa un secolo prima da Mandel’štam visitando l’Armenia. Ci siamo vestiti con il suono di quella lingua, per farci calcare addosso la forza dei gesti che attraverso le parole ri-scrivono l’architettura: un gesto di ri-composizione dopo un terremoto. La pagina del libro penetrando lo sforzo fisico si incide nel paesaggio armeno. Lasciando lo spazio allo spazio, dandogli respiro.

Basilico armeno, prezzemolo, pomodori, formaggio filato, lavas. Frugalità sulla tavola trancaucasica, frugalità nell’economia dei mezzi per lavorare. La nudità scorticata dei muri, la semplicità dell’essenziale.

Siamo andati a scuola dai bambini armeni, perché ogni bambino in quella terra è un Noè. Così ci hanno insegnato il suono delle lettere del loro alfabeto, rinfrescandoci il guscio degli occhi. Osip Mandel’štam è da sempre il mio Marcel Duchamp, rinnovandomi tutto intorno. L’Ararat è il mio tavolo da lavoro.

Questa, tradotta da Serena Vitale, la IV poesia dal ciclo Armenia di Osip Mandel’štam:

La bocca avvolta come madida rosa,
tenendo in mano celle ottagonali,
tutta l’alba dei giorni al confine
del mondo inghiottivi le lacrime.

Con dolore e vergogna voltavi le spalle
Alle barbute città dell’Oriente:
e ora stai su un giaciglio di colori,
e prendono il calco della tua morta effige.

Non bisogna essere maghi per accorgersi che in arte non si procede da un meglio in meglio, bensì da un bene all’altro. Queste note vogliono essere una piccola icona bizantina che si avvale della prospettiva piatta, così ben descritta dal monaco scienziato Pavel Florenskij, assassinato e sciolto nei ghiacci delle isole Solovki nel 1937, appena un anno prima della morte di Osip Mandel’stam, gettato in una fossa comune con centinaia di altri cadaveri a Vladivostok. In arte ogni gesto è sempre un qui, presente. Un presente di ciò che sarà e di ciò che è stato. Quindi la responsabilità dell’autore è costruita da estremo rigore.

Una delle lezioni di Osip Mandel’štam è dare linguaggio al presente facendolo sillabare sulle labbra dell’avvenire, quando non ci saremo, e la nostra storia ci cucirà l’abito con la stoffa del futuro e le mani del nostro comportamento in vita.

Il lavoro Armenia IV è nella collezione del Merkurov House Museum di Gyumri, in Armenia.

(L’alfabeto armeno scelto per comporre la poesia di Osip Mandel’štam è quello classico, non quello sovietizzato da Stalin. Non potevamo portare alla luce la poesia con la lingua armena modernizzata dal carnefice.)

In copertina: Giuseppe Caccavale, Mani-conchiglia visioni da Armenia IV

Giuseppe Caccavale

(Afragola, 1960) vive tra Parigi e Bari. Insegna Arti Murali, Poetica degli spazi e Disegno all’École Nationale Superieure des Arts Decoratifs di Parigi. È stato uno degli artisti che hanno rappresentato l’Italia alla 56a Biennale d’Arte di Venezia, curata da Vincenzo Trione; ha partecipato alla prima Triennale Internazionale d’Armenia, a cura di Adelina von Furstemberg; le sue ricerche sono state presentate alla Vereniging Voor Het Museum van Hedendaagse Kunst te Gent; alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, a cura di Chiara Bertola, ha presentato il progetto “Resi Conto”; con il compositore Stefano Gervasoni, ha realizzato il “Viale dei Canti” dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Da sempre la cura editoriale delle pubblicazioni delle sue ricerche è parte integrante del lavoro: fra i suoi titoli “Fresques / Affreschi”, su testo di Erri De Luca (Parenthèses, Marseille); “Voce Parla Luce”, su testo di Pier Luigi Tazzi (Musée de Marseille); “Serenella d’Agri”, su testo di Vassilis Vassilikos (L’art et la manière, Castellet); “Armenia”, su testo di Osip Mandel’štam (Parenthèses, Marseille).

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