Nel 2011 la mia famiglia ha dovuto lasciare la casa che era stata nostro punto di riferimento sin dall’anno della mia nascita, il 1976. L’ultimo giorno prima del trasloco ho preso misure e appunti visivi di alcuni dettagli per me significativi. Erano quasi tutti molto generici: l’interruttore della luce, un termosifone, una porta, le mattonelle del pavimento, uno specchio, una serranda, il garage, il lavello, la vasca da bagno.
La casa era una casa nel bosco. Perciò ho disegnato anche alberi e fiori.
Dopo un po’ che disegnavo, sperimentando con dei vecchi proiettori di diapositive, ho trovato questa particolare tecnica che consisteva nell’incidere la pellicola fotografica con una punta metallica. Ne è venuta fuori un’installazione con diapositive e Kodak Carousel. Mi è sembrato un buon metodo per lavorare sulla memoria, per il modo in cui il lavoro si manifesta, che è così simile a come si manifestano i ricordi, dove si vedono immagini ma non le si può toccare né fermare.
à propos de bacchelli 5 è nato a Parigi, e lì l’ho fatto vedere per la prima volta. Era molto grezzo, davanti ci avevo messo la struttura un po’ sbilenca di una casa. Le diapo le ho proiettate a parete. C’era un solo rullo e un solo proiettore. Mi emozionava. Le proiezioni al buio per me sono sempre emozionanti. Mi sembra sempre di entrare in una scatola magica.

Poi il lavoro l’ho portato a Roma, ed erano tre rulli, tre proiettori. La gente guardava le diapo con i disegni di casa mia e diceva, Anche noi avevamo quegli interruttori. Dopodiché mi raccontavano com’era fatta la loro casa d’infanzia. Una madeleine di gruppo sembrava, questo mio lavoro.
Il fatto che degli sconosciuti vedendo i disegni di casa mia ricordassero la loro mi fa pensare:
1. che tutti i dettagli apparentemente non significativi di una casa (interruttori, termosifoni, lavandini) vanno a costituire una specie di vocabolario di tutte le case di una certa regione del mondo e che siano quindi molto vicini a un’idea di lingua, dove tutti usano le stesse parole per costruire frasi e sensi diversissimi e personali.
2. che il contenuto significativo delle case, quei particolari unici che identificano chi vi abita, siano un sottinteso dell’immaginario privato di ciascuno di noi che si innesca sulla base di stimoli generici. Io ti faccio vedere un interruttore della luce e tu vedi il lampadario comprato da tuo padre a Murano nel ’73. La memoria riempie gli spazi vuoti con quello che vuole. È un gioco di proiezioni riuscito.

Dopo e durante piazzale Bacchelli ho vissuto in altre case. Poi ho vissuto in una residenza per artisti, e in un’altra ancora. Poi ho vissuto nelle case di altri, come ospite. E per tutto il tempo mi sono chiesta che cosa significasse casa per me.
È il luogo in cui dormo? È il luogo per il quale faccio la spesa? Dove lavo il pavimento? Dove mi faccio la doccia, mi lavo i denti? Ma tutte queste cose le posso fare vivendo a casa d’altri. Alla fine l’unica risposta possibile mi è sembrata: casa è dove posso posare i miei oggetti senza pensare a quando dovrò portarli via. La casa è un tempo quindi.
Strano, avevo sempre pensato alla casa come a uno spazio.
“Abitare”, dal latino “habitare”, forma iterativa di “habere”. Quindi alla lettera “avere ripetutamente, continuativamente, nel tempo”.
“Avere” è il verbo che instaura un rapporto di proprietà fra me e le cose. La casa quindi, in quanto luogo dell’abitare, è il luogo e il tempo in cui io, soggetto dell’abitare, ho delle cose, instauro un rapporto di proprietà con gli oggetti in un tempo continuativo e reiterato. Ciò che è nella casa – e la casa stessa – sono miei. Ovvero sono con me in un rapporto identificante.
Dentro la casa io e gli oggetti siamo in un rapporto di identità nel tempo.
La forma iterativa del verbo parla di un tempo che non procede in maniera lineare, storica, ma ripetitiva, circolare. Un tempo che ha la qualità dell’“eterno”. Si potrebbe dire che sia il tempo dei miti greci, in cui le cose diventano significative per frequentazione, per ripetizione.
La casa è uno spazio caratterizzato da un tempo che esclude la dinamica lineare della storia ed è ripetitivo, conchiuso.
Forse è anche per questo che dalla casa si sente il bisogno di uscire, di andare fuori, per lasciare che accadano cose, per contaminarsi con il mondo dei fatti, degli avvenimenti.
In casa non succede mai niente, casomai si radica qualcosa.

Poi c’era il bosco. Il bosco era lo spazio che dovevo attraversare per arrivare al mondo. Un filtro in entrata e in uscita. Il primo “fuori” di quando mi chiudevo la porta alle spalle. C’era una strada tutta curve e sotto gli alberi i ciclamini. Tronchi, erba, aperture e chiusure dello spazio alla luce. Il bosco è monotono, è un muro ritmico di presenze fisse, animate.
La natura è il primo interlocutore di ogni interrogazione del mondo.
I fiori sono l’eccitazione della natura.
(Pasolini ha scritto che le lucciole sono scomparse a un certo punto negli anni sessanta. Ma non è vero. Io per tutta l’infanzia e l’adolescenza le ho avute davanti casa a piazzale Bacchelli, da fine maggio ai primi di luglio, ed erano gli anni Settanta, Ottanta, Novanta. Poi sì, sono scomparse. Forse le lucciole scompaiono e riappaiono quando pare a loro. Ne ho vista una l’estate scorsa.)