Christo Javacheff non è più tra noi, ma l’impacchettamento dell’Arco di Trionfo a Parigi, suo ultimo progetto, si farà lo stesso, e il monumento resterà così avvolto nei grandi teli dal 18 settembre al 3 ottobre 2021. Parigi ha sempre amato l’artista bulgaro, nato nel 1935, che proprio in quella città nel 1958 aveva conosciuto Jeanne-Claude, nata il suo stesso giorno, con la quale darà avvio a un sodalizio artistico e amoroso durato fino alla morte di lei, nel 2009. La coppia si stabilisce a New York nel 1964, ma Christo intanto a Parigi è vicino al gruppo dei «Nouveaux Réalistes» e, oltre a bloccare la rue Visconti con un’accumulazione di barili di petrolio (1962) quale rivolta contro il muro di Berlino eretto l’anno prima, realizza i suoi primi impacchettamenti con oggetti di piccolo formato, che espone a Milano nel 1963, alla Galleria Apollinaire, con un testo a firma di Pierre Restany.
Maturando il processo creativo che lo avrebbe reso celebre e unico, insieme alla compagna – ma che comunque è debitore dell’Énigme d’Isidore Ducasse di Man Ray, la macchina da cucire impacchettata, e del Pianoforte avvolto nel feltro di Joseph Beuys – l’artista bulgaro passa dall’impacchettamento di oggetti da scrivania o bottiglie, a quello, già nella sua mente, in grandi dimensioni, rivolgendosi a edifici e a monumenti (dal Museo d’arte contemporanea di Chicago, 1969, al Reichstag di Berlino, 1995), e alla natura: gli alberi (alla Fondazione Beyeler di Basilea, 1998), le isole (le Surrounded Islands , 1983 in Florida – le sue “ninfee di Monet, come le definisce – o The Floating Piers sul lago di Iseo, 2016, progetto a cura di Germano Celant), ma anche larghi spazi, il Running fence sui declivi della campagna californiana (1976) o Central Park a New York (The gates, 2005). Costruzioni e luoghi che mutano sembianza, divengono irriconoscibili, ma proprio per questo trattengono il nostro sguardo. E, in fondo, chi avrebbe mai prestato vera attenzione al monumento di Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo o a quello di Leonardo da Vinci in piazza della Scala, entrambi a Milano, fin quando – dopo essere intervenuti sulla Torre e sulla Fontana di Spoleto in occasione del «Festival dei Due Mondi» (1968) – non arrivano Christo e Jeanne-Claude a impacchettarli, nei primi anni Settanta, suscitando tuttavia reazioni assai violente nei detrattori che ritennero quelle azioni lesive della memoria dei personaggi celebrati? E chi avrebbe pensato che il Muro Torto a Porta Pinciana a Roma (1974) potesse diventare così aereo pur rimanendo maestoso? Muri occultati li ritroveremo nell’ultimo decennio anche nelle installazioni del ghanese Ibrahim Mahama che ricopre (ma non impacchetta!) coi suoi sacchi di iuta edifici quali le Corderie dell’Arsenale a Venezia (Biennale 2015), check point di Kassel (Documenta 14, 2018) e i caselli daziari di Porta Venezia, nella primavera del 2019. Tuttavia nel suo lavoro sono soprattutto i materiali a creare una “seconda pelle” e le sedi, quasi sempre luoghi di varco, di soglia, a recare un messaggio politico – globalizzazione, circolazione di merci ma anche di esseri umani sfruttati -, che non la struttura stessa.

L’impacchettamento di Christo (prima con teli bianchi poi colorati e in altri materiali, con sperimentazione di effetti pittorici sull’ambiente) dà nuova vita al monumento, all’architettura, ma interloquisce anche con la natura, sebbene in modo meno invasivo, perché effimero, rispetto alla coeva Land art. Un processo che spinge, proprio perché cela alla nostra vista delle forme con sontuosi emballages in stoffe speciali sempre più lucide e scintillanti, a fissare l’attenzione su quei fantasmi e a interrogarsi su cosa ci fosse stato sotto.. “prima”, e su cosa riapparirà “poi”. Come se quei teli potessero mutare l’aspetto di ciò che è stato celato, allo stesso modo in cui un mago sul palcoscenico, coprendo con un panno qualcosa, fa riapparire tutt’altro. In realtà ciò non avviene, nel senso che tutto quel che è stato impacchettato da Christo torna poi alla luce com’era prima, ma l’incanto prodotto dall’emballage – pur rimandando a un aspetto diffuso nella società in cui viviamo tra cose tutte impacchettate che neppure sappiamo più come riciclare – lascia impressa nella nostra mente un’immagine che muterà il nostro modo di vedere l’oggetto che è stato sottoposto a quell’occultamento.

Quando impacchettarono il Pont Neuf a Parigi, nel 1985, ero piuttosto giovane, e di Christo sapevo poco o nulla. Però quel ponte non era troppo distante da casa, e si vedeva da lontano, sebbene a offuscare un po’ la vista ci fosse la gente ferma sul Pont des Arts, quello proprio contiguo al Pont Neuf, che seguiva sconcertata, ammirata, disgustata, perplessa, entusiasta, lo svolgersi dei lavori. Erano anni fervidi per la Francia. Già nel 1977 si era inaugurato il Centre Georges Pompidou, sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing, il quale era stato poco favorevole a realizzare l’opera voluta dal suo predecessore, morto durante il mandato. Nel 1981, con l’elezione di François Mitterrand, la «force tranquille», il governo era passato alla gauche e, col ministero della cultura affidato a Jack Lang, erano iniziati gli anni di notevole fervore dei «Grands Travaux» con progetti che sarebbero stati realizzati o compiuti nel decennio successivo: l’Arche de la Défense, la Cité de la Musique (era d’altronde stato Lang a istituire nel giorno più lungo dell’anno la «Fête de la Musique»), il Grand Louvre, la Pyramide di Ieoh Ming Pei, l’Opéra Bastille, la Bibliothèque Nationale de France, il Musée d’Orsay, il Parc de la Villette, l’ Institut du Monde Arabe, oltre a lanciare le «Giornate Nazionali del Patrimonio» e a mostrare una notevole apertura verso i paesi mediterranei. Rientra appunto in questo clima l’approvazione del progetto di Christo di realizzare l’impacchettamento del Pont Neuf, il ponte più vecchio di Parigi (a dispetto del nome!) perché costruito alla fine del Cinquecento, che unisce, passando dall’Ile de la Cité, le due rive in un punto nevralgico della città, amministrata all’epoca dal sindaco Jacques Chirac, uomo della destra, ma che appoggiava quella politica culturale. Un progetto interamente autofinanziato da Christo e Jeanne-Claude, sebbene le malignità dei detrattori insinuassero che il costo avrebbe pesato sulle casse dello Stato.

Sul ponte a sorvegliare i lavori prima dell’apertura il 22 settembre c’erano tanti ragazzi, con maglie che recavano impresso lo schizzo del progetto e all’opera, in un clima piuttosto eccitato e chiacchierato, era una schiera di trecento professionisti guidati da dodici ingegneri, intenti a gestire, con tonnellate di cavi di acciaio, i 40.000 m2 di stoffa, perché il ponte andava avvolto, ma solo avvolto, senza nulla toccare della sua struttura, senza agganciarsi a niente. I teli, posizionati sulle molte chiatte ancorate ai piedi del ponte, erano stesi sull’acqua della Senna, maneggiati dagli uomini “grenouilles” della polizia fluviale, mentre le guide alpiniste di Chamonix facevano i nodi giusti ai cavi, come quelli alle corde da scalata; poi il tutto veniva issato sotto il controllo di esperti carpentieri, che confrontavano con le tavole dei progetti, e spettatori ‘privilegiati’ erano i clochards, che non erano stati scacciati da sotto le arcate del ponte e seguivano quindi i lavori in prima fila. Alla fine il ponte era apparso tutto come d’oro, mentre a rimanere scoperta era rimasta solo la statua equestre di Enrico IV, soprannominato, per le sue doti amatorie prolungate nel tempo, «le Vert Galant».
Ricordo così che, quando lo spacchettarono quattordici giorni dopo, ci mancava in quelle sembianze, perché eravamo ormai abituati a traversarlo avanti e indietro nella sontuosa, seppur di mero poliestere, veste. Il ponte non aveva cessato di svolgere la sua funzione di collegamento tra le due rive, attraversato anche dalle auto, eppure la volontà di Christo di trasformarlo «da un oggetto architettonico, da un oggetto d’ispirazione per gli artisti, in un oggetto artistico e basta», era giunta a buon fine. Christo aveva dichiarato infatti la volontà di mostrarlo «per la prima volta come una scultura, ma effimero come il mio sogno». Ed era come se fosse sempre stato così.