A Flavio Favelli (sulle madri, sui padri, sui tetti)

Caro Flavio,

oggi è stato tutto un incatenamento di cose. La mattinata è iniziata con un sopralluogo nel nostro minuscolo orto di guerra, per verificare se le lumache avessero aggredito di nuovo, nottetempo, le piantine di cetriolo. Poco dopo, salito nello studiolo, con l’Annina che saltabeccava qui e là, mi sono messo a cercare un libro di paleoantropologia di cui non ricordo né l’autore né il titolo e forse, a questo punto, nemmeno se l’ho mai letto. Intanto Chiara ci aveva raggiunto, si è arrampicata all’ultimo scaffale ridiscendendo col bottino: Stanze e Altissima povertà, del Filosofo di cui in questi giorni tutti discutiamo le “provocazioni” sullo stato di eccezione e le sue inquietanti conseguenze politiche. (In queste settimane, parlando con qualche amico artista, specialmente i pittori, mi sono sentito spesso rispondere: boh, non è cambiato molto, me ne sto da solo in studio, come sempre…  In generale, mi viene in mente, quello di vivere in uno stato d’eccezione è l’unico vero compito sociale di un artista).

In ogni caso, a quel punto ho deciso di invertire i libri tra due scaffali, non so perché ma mi è sembrata cosa giusta e doverosa. Così ho scoperto di avere cinque volumi diversi su orti e giardini, mai letti. Hortus – orto, giardino. Il nostro, quassù nel paesino dove viviamo è letteralmente conclusus: oltre i sui confini: bosco, valle, mare, mondo. Già che c’ero, ho gettato un’occhiata allo scaffale della poesia. Sono giorni che mi dico, Ma come? è mai possibile che dopo un mese e mezzo di clausura, angosce mediatiche e pontificazioni online io non abbia ancora cercato conforto in un libro di poesia?   In generale, mi faccio una piccola abbuffata di poesia che dura un paio di giorni e poi più niente, per mesi o anni. Non sono un gran lettore di poesia, la poesia dopo un certo limite mi intossica. Ma in questi casi emergenziali? Lo so, prima ho detto “conforto”. Mi ricordo bene quel filmato in cui Pasolini spiega all’intervistatore che la letteratura non deve dare conforto, l’arte non deve consolare. Ok, d’accordo, vorrà dire che ogni tanto può capitare che qualcuno, per debolezza, usi la poesia o l’arte. In ogni caso ho allungato la mano sullo scaffale e ho preso, senza pensarci, Autobiologia di Giovanni Giudici. Sarà lui, Flavio, te lo anticipo, che alla fine mi riporterà a te.

Un attimo di pazienza. Dunque, mi siedo al tavolo con l’intenzione di dare un’occhiata a questi libri, ma il computer si riaccende da solo (era in standby, succede spesso). Leggo una mail di un’amica, che si si conclude con “ti voglio mandare il link a un blog interessante, anche se ormai ci sono così tante cose interessanti che uno diventa senza interessi e vuole solo farsi un bell’orticello”. Il link che mi suggerisce, neanche a farlo apposta, è quello di Antinomie. In effetti, penso, è già qualche settimana che non visito il sito. Clicco e l’occhio mi cade – eccomi qua! – sul tuo nome. Iniziamo dal Favelli, penso, quasi mai si esce scontenti da una lettura di un testo di Flavio, c’è sempre qualcosa di aspro, di inusitato, di commovente. E inizio a leggere L’eterno ritorno.

Dopo un po’ comincio a chiedermi chi sia questa Anna Maria Franchini. Prima ipotizzo una curatrice che non conosco, poi un’amica di Flavio dell’epoca dell’università. Ma perché è così lungo il ritaglio autobiografico di questa Franchini? Sarà anche bello, ma esce completamente dal format di un testo dedicato all’opera di un artista. Perché questa signora parla così a lungo di sé? Perché glielo permettono? Come osa? Le vere anomalie non sono le esagerazioni, le volgarità, i surrealismi: sono gli imbizzarrimenti del testo, i bugs nella logica del nostro orizzonte d’attesa. Il brano si chiude in una tonalità da sposalizio mistico. Dopo il punto, a capo,  senza altre spiegazioni: “Anna Maria Franchini (Bologna, 1931-2016) si è laureata nel 1956 in Lettere Classiche…”. Ah, mi sono detto, ma senza troppa enfasi. Altro punto. “È stata mia madre per quasi 50 anni, è morta a fine marzo del 2016.”

È difficile da descrivere il tuffo al cuore, come si usa dire, che ho percepito in quell’istante. E un po’ mi imbarazza parlarne. Un’imbarazzo che riguarda te e me, non so se capisci. Ma quest’imbarazzo è forse proprio il punctum di tutta la faccenda. Una modalità in cui tu sai navigare, o almeno sembri saperlo fare. Mi immagino la fatica, il senso di liberazione, anche, forse, spero. E questo mettere in luce certe zone d’ombra (a tempo debito, con la grazia dovuta), forse c’entra con quello stato di eccezione, con la strana mission di un artista, di un poeta. Lo fa per gli altri. A quel punto, come la Madonna in un ex voto, mi appare un’immagine. Sai la famosa foto di Bas Jan Ader in cui si vede il tetto di una casa (la sua?) su cui stanno appoggiati pantaloni, giacche, cravatte, pantofole, calzini? Panni stesi al sole, affinché il passato di cui sono intrisi svapori all’aria. Curiose antenne tarate sulle frequenze di una energia cosmica da filtrare attraverso lanuggine, sudore, ricordi, fallimenti. Quanti artisti hanno messo in piazza, come diceva mia nonna, le loro faccende private? Un po’. La maggior parte opta per una strategia di guerrilla, mimetizzandosi nel maquis. Altri, meno numerosi, si buttano nella mischia a torso nudo, all’arma bianca. Non rispondono a una strategia, seguono un’urgenza. Quante volte, Flavio, hai già messo la madre e il padre, sul tetto? Lo fai per tutti gli altri che, come me, non ci riescono. Non così.

Beh, finito di leggere il tuo testo ho preso l’Autobiologia di Giudici. Come sai, aprire un libro a caso è la variante dada-surrealista della consultazione dell‘I Ching. Pagina 15. Ed è stato lì, dopo aver sperimentato in prima persona la potenza del caso oggettivo, che ho pensato di scriverti.

L’AMORE CHE MIA MADRE (I)
1967

L’amore che mia madre amò tutta la vita
non fu mio padre – ma un uomo
col quale era sparita fingendo di morire.

Per questo ritornava al termine della sua vita
a me che non volevo vederla finire

Nel 2014 ho dipinto un quadretto, che sembra rappresentare qualcosa a metà tra una montagna e il profilo di un volto con gli occhi chiusi. S’intitola the Dead, che suona come the dad. Due anni dopo, al funerale di mio padre, sono rimasto un po’ da solo con lui nella camera ardente. In quei giorni ero stato attraversato da parecchie emozioni contrastanti. Tuttavia, l’unico tra i pensieri che ricordo di aver avuto in quel frangente è: chissà quanti disegni, quanti calchi in gesso dei propri defunti gli artisti hanno fatto nel corso dei secoli. Ne ho visti un bel po’. Chissà come ha fatto, ognuno, a trovare il tempo, la concentrazione, il distacco, per fare quella cosa così innaturale e allo stesso tempo così naturale. Chissà a cosa pensavano mentre disegnavano, pensavo. Uno sale sul tetto, ci stende sopra i pantaloni e guarda l’orizzonte. A un certo punto ho estratto il cellulare e ho scattato una foto a quel volto immobile, in penombra, quasi di profilo. 

Seravezza, 25 aprile 2020

(Milano, 1968) ha studiato informatica all’Università Statale di Milano e poi pittura all’Accademia di Brera, dove si è diplomato nel 1998. Ha partecipato a mostre in spazi pubblici e privati in Italia e all’estero. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste e blog, tra cui “Flash Art”, "Il Giornale dell’arte”, “Exibart”, “Artribune”, “Warburghiana”, “Doppiozero”, “Le parole e le cose”, "ATP Diary.” Nel 2018 pubblica “I baffi del bambino. Scritti sull’arte e sugli artisti”, Quodlibet. Dal 2015 insegna pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

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