Uno dei luoghi comuni più diffusi degli ultimi anni consiste nel ritenere che il mondo reale abbia ormai lasciato il campo a quello delle immagini. Non a caso, da almeno trent’anni, il celeberrimo testo di Guy Debord La società dello spettacolo è diventato una sorta di pietra miliare imprescindibile di ogni seria riflessione sulla struttura delle società avanzate del tardo-capitalismo globalizzato. Sembrerebbe ormai assodato che quell’enorme montaggio meccanico e mercantile di immagini che è lo “spettacolo” definisca i limiti e le frontiere dell’esistenza contemporanea. Già Martin Heidegger, però, nel 1938, definiva il nostro tempo come “l’epoca dell’immagine del mondo”, cioè un’epoca in cui non solo le immagini si moltiplicano a un ritmo esponenziale, spossessando l’uomo dell’esperienza diretta del suo vissuto, ma in cui il mondo stesso diventa un’immagine.
Come ogni luogo comune, l’idea che il mondo divenuto immagine sia il nostro unico mondo segnala sia un problema reale sia una semplificazione delle cose, tenendo quindi dentro di sé tanto verità fondamentali per comprendere l’oggi quanto vaghe e superficiali visioni del mondo, a volte trionfaliste altre volte catastrofiste. In ogni caso, se assumiamo come un dato ormai assodato che il mondo sia davvero entrato in un’altra “sfera” dell’essere, per l’appunto la sfera iconica, l’iconosfera, allora il nostro tempo si rivela essere una del tutto inedita dimensione della vita umana sulla terra, uno di quei momenti storici in cui si assiste a un cambiamento di paradigma o a una cesura epistemologica e ontologica che, come ogni evento rivoluzionario, rende ciò che avviene da quel momento in poi difficilmente comparabile con quel che c’era prima. A una tale nuova e imprevista dimensione del vivere comune negli ultimi anni si è voluto dare il nome, come già accennato, di iconosfera. Non più semplicemente una biosfera, una sfera della vita, del bios, naturale e sociale, le cui regole fondamentali sembrano immobili, ma un ambiente in cui la vita è avvolta dalle immagini, intrappolata in esse, come congelata sulla loro superficie impalpabile, al di fuori di ogni senso oltre quello della vista. Le immagini, per l’appunto, diventano la regola, o il medium, attraverso cui la vita si dà e si dà come vita associata, come sistema vivente: il sistema delle immagini viventi diviene il rapporto sociale fondamentale su cui poggia la vita. Una vita, quella nella iconosfera, che sfugge quindi alle categorie sensoriali e conoscitive di cui l’essere umano si era servito sino ad oggi: dalla vita dei corpi si passa alla vita dei corpi-immagine, delle immagini-corpo. In un certo modo, la messa in crisi del sistema sensoriale, ad opera della bidimensionalità virtuale dell’immagine, genera una altrettanto radicale crisi di senso, di quel senso del mondo del quale, in un omonimo libro, quasi vent’anni fa, in modo isolato e un po’ sbeffeggiato, Jean-Luc Nancy tornava a chiedere conto, sollevando una serie di questioni tanto radicali, quanto difficili, sulla necessità di pensare un nuovo senso del mondo alla fine di un mondo fondato su una gerarchia ordinata dei sensi che, nel loro concatenarsi, subordinarsi o annullarsi gli uni con gli altri, articolavano un senso della storia, una sua direzione e un punto di vista privilegiato da cui guardare. La questione che Nancy sollevava era quindi l’esigenza di un pensiero del mondo-immagine capace di concepire l’immagine diversamente dal suo modello classico di copia del reale, cioè il tentativo di pensare un senso del mondo che davvero facesse propria la rottura di paradigma che sarebbe stata la trasformazione del mondo da un sistema di produzione di cose a un sistema di produzione di immagini. Se davvero questo passaggio indicasse una rottura profonda nella storia dell’umanità, allora si sarebbe degli illusi se si credesse di poter pensare questa svolta rivoluzionaria con le sole categorie del passato, con un pensiero e una teoria forgiate su un differente rapporto con il mondo, con ciò che anche proprio attraverso queste categorie si poteva definire propriamente un mondo.
All’interno di questo orizzonte teorico, negli ultimi anni si è sviluppato, sotto diverse forme e con differenti sensibilità e metodologie, un variegato sistema di saperi denominato visual culture studies, i cui padri fondatori possono essere individuati in John Berger, W. J. T. Mitchell, Rosalind Krauss, Hal Foster, Gottfried Boehm, Hans Belting, David Freedberg, Georges Didi-Huberman, Svetlana Alpers, Mieke Bal, Horst Bredekamp, James Elkins, Louis Marin, Susan Sontag, Bruno Latour, Jean-Luc Nancy, Jacques Rancière, Slavoj Žižek, Bernard Stiegler o, risalendo più indietro, Aby Warburg, Sigmund Freud, Walter Benjamin, Carl Einstein, Georges Bataille, Jacques Lacan. Il gran numero di paternità putative trova le proprie ragioni nella varietà di approcci che confluiscono nelle ricerche delle visual cultures che, proprio per questa ragione, per questa loro eterogeneità, spesso inconciliabile, si pongono come il mezzo di ricerca più appropriato nello studio delle immagini in questa nuova epoca del mondo, in cui i confini disciplinari sembrano saltare, allo stesso mondo in cui le frontiere fisiche si fanno sempre più impercettibili con l’avvento dei grandi mezzi collettivi di partecipazione reticolare, di cui le reti web sono la massima esemplificazione. Non si tratta quindi nella cultura visiva contemporanea di un semplice ampliamento dello spettro dell’immaginario, come accadde con la grande svolta semiotica degli anni sessanta, di cui senza dubbio Roland Barthes e Umberto Eco sono stati esempi mirabili, (svolta che portò a spostare l’attenzione dalla cultura “alta” a tutte quelle forme di cultura, visiva e non, considerate “basse”), ma si tratta piuttosto di uno sfondamento dei confini metodologici entro i quali un’immagine, “alta” o “bassa” che sia, si rende visibile. In un certo senso, all’interno delle visual cultures, si indaga una trasformazione dello statuto ontologico dell’immagine e delle condizioni di possibilità della sua apparizione o scomparsa. Se la svolta semiotica, ad esempio, cercava le regole di lettura del linguaggio visivo, considerando però l’immagine come un elemento acquisito del suo alfabeto compositivo, le visual cultures si interrogano piuttosto sullo statuto stesso dell’immagine, sul modo in cui l’immagine appare e occupa uno spazio nel mondo, fino al punto di sostituirsi ad esso, di divenire il luogo della sua ri-produzione, cioè ponendosi non più come un semplice fatto segnico e quindi necessitante di interpretazione, ma come un evento ontologico. Detto ancora altrimenti, le culture visive rendono all’immagine il suo carattere di spazio della visione, di luogo di apparizione di un mondo, e non più semplicemente di elemento da sottoporre a lettura, sottraggono cioè l’immagine al codice linguistico, alla sua riduzione a linguaggio. In una formula, nel passaggio epistemologicamente rilevante da una cultura visiva “classica”, fondata su una teoria dei linguaggi visivi, alla dimensione ontologica dell’iconosfera al centro dell’attenzione delle visual cultures più avanzate, si prende consapevolezza che “vedere non è leggere” e che l’immagine non è semplicemente e/o esclusivamente un segno che sta per qualcos’altro ma anche, e forse soprattutto, una presenza a sé che istituisce un mondo.
Chiaramente questa rivoluzione ontologica e cognitiva è ancora lungi dall’essere definitiva e le ricerche nel dominio della cultura visiva sono solo in uno stadio iniziale. Quel che risulta certo è che le pratiche e le consuetudini che permettevano di trincerarsi dietro i comodi canoni disciplinari oggi difficilmente possono continuare a reggere. Non tanto nel senso che bisognerebbe rinunciare ai differenti approcci (storici, filologici, critici, filosofici, semiotici, psicanalitici, ecc.) a favore di un melting pot dei saperi, ma nel senso che occorre che questi approcci singolari, pur conservando la propria specificità, si rendano capaci di dialogare anche con altre modalità della visione, si rendano cioè capaci di vedere altrimenti, anche attraverso gli occhi dell’altro. Se si dà un futuro delle visual cultures, questo non si pone tanto nella fusione dei saperi in un nuovo ipermezzo di lettura critica dell’immagine – come in fondo è stata in modo esemplare e insuperato l’iconologia messa in atto da Panofsky – ma in una decostruzione disseminante dei saperi che, ibridandosi reciprocamente, aprono la questione dell’immagine al di là di tutti i confini disciplinari, per esporla a una persistente volontà o ossessione scopica, incapace di acquietarsi nelle certezze di una sola metodologia dello sguardo. In altre parole, le visual cultures aprono la strada, non ad una nuova semiotica dell’immagine (nel senso più ampio del termine), ma a una pragmatica dell’immagine e dell’immaginario, cioè della produzione di immagini. L’approccio metodologico è, quindi, quello di una pragmatica che vede l’immagine come frutto di una praxis dello sguardo, di uno sguardo che non ha tuttavia nulla di naturale ma è, piuttosto, a sua volta frutto di una serie di altre complesse prassi (sociali, economiche, tecnologiche, simboliche, industriali, ecc.). L’immagine sorge all’interno di una prassi dello sguardo il quale, a sua volta, è modificato dall’immagine (questo è il significato della parola praxis, un fare, un savoir-faire, in cui il soggetto della prassi appare e si definisce attraverso il suo stesso fare). Sarà, quindi, solo comprendendo le prassi visive – o, per parafrasare Foucault, le formazioni visive – oppure, per dirlo ancora diversamente, le tecniche della produzione di immagini (comprese le tecniche di produzione industriale di immagini) che noi potremo forse comprendere l’iconosfera in cui viviamo.
Il lavoro che, dunque, si prospetta oggi a chi voglia confrontarsi con le culture visive risponde ad una sola urgenza, all’esperienza di una persistenza, di un atteggiamento tanto ostinato e insistente quanto talvolta discreto e marginale, che, da diversi anni, spinge molti studiosi e intellettuali a perseverare sugli stessi concetti, sulle stesse figure, sulle stesse immagini.
Per-sistere significa “far fermare fino in fondo”, far sì che qualcosa si arresti e sia così costretto a mostrarsi in una sorta di innaturale immobilità. Nel caso delle visual cultures, la persistenza, questa volontà di persistere, si rivolge all’immagine, a questa polisignificante unità che sembra sfuggire da ogni parte: figura, fantasma, sogno, allucinazione, simbolo, icona, mito, ma anche immagine verbale, immagine sonora, immagine mnestica. Si potrebbe forse dire che un serio lavoro all’interno dell’orizzonte delle visual cultures dovrebbe testimoniare di questa ossessione per l’immagine, per ciò che si dà a vedere, ma anche a sentire, in e per tutti i sensi, impedendo allo sguardo di proseguire oltre. Una tale ossessione, una tale persistenza dell’immagine si articola su più fronti, allargando di conseguenza il concetto stesso di immagine. Al suo interno, i confini disciplinari sembrano saltare. L’immagine si espande oltre i suoi limiti stabiliti. Ciò che appare in questa pragmatica della visione è l’insieme di rapporti che l’immagine instaura, oltre che con la vista, con la memoria, il corpo e la società. L’attenzione deve così portarsi, di volta in volta, sulle arti visive, sulla musica, sulla danza, sulla letteratura, sulla storia, sulla società, sui nuovi media e sui distributori planetari di immagini, come, ad esempio, Google. L’immagine è sottratta agli angusti muri della vista, per divenire visione di ciò che è ancora ignoto. Ciò che quindi anima questa nuova riflessione critica sullo statuto ontologico e gnoseologico dell’immagine è il tentativo di vedere l’invisto, questa sorta di inconscio della visione che sembra apparire e scomparire senza tregua all’interno di quelle che Debord ha giustamente definito le società dello spettacolo integrato e che già Heidegger indicava, come abbiamo detto, come le società in cui l’immagine del mondo, la Weltbild, non è più una semplice raffigurazione o visione del mondo, ma è il mondo stesso concepito come immagine. Ed è chiaro che in un mondo in cui tutto pare divenire immagine, l’esercizio dello sguardo è tutto.
La persistenza dell’immagine che le visual cultures cercano di mostrare sta, quindi, ad indicare, come insegna la fisiologia, quella proprietà dell’occhio che permette di trattenere sulla retina l’immagine ricevuta per una frazione di tempo in più di quanto sia durata l’esposizione dell’occhio stesso al fascio di raggi luminosi provenienti dall’oggetto. Per orientare la ricerca verso una persistenza dell’immagine è dunque necessario prestare attenzione a quell’intervallo che passa tra ciò che l’occhio vede e la traccia che il visto lascia sulla retina; prestare attenzione a quella che potremmo chiamare la memoria retinica. Un serio studio di critica delle immagini, capace di una reale persistenza, sarà quindi il resoconto di questa memoria retinica, di questo scarto tra il fascio spettacolare che quotidianamente ci investe e la memoria che questo fascio abbagliante lascia sui nostri corpi. Ciò che ne scaturirà sarà, allora, il tentativo di un’estetica dello scarto, dello scarto tra il vissuto e il pensato, tra il visto e l’invisto, tra il fatto e la sua traccia, tra la percezione e la memoria. Saper porre attenzione allo scarto per liberarsi di ogni immagine di scarto, di ogni effetto ottico dovuto a una iperproduzione orientata esclusivamente al consumo immediato, senza resti, senza attese e, di conseguenza, senza memoria. Quello a cui aspira un’estetica dello scarto non è, dunque, come si potrebbe forse pensare in un primo momento, un’estetica delle rovine, delle rovine disciplinari del secolo scorso o della rovinosa caduta dell’immagine nel mondo della produzione industriale, del marketing e della riduzione dello spazio visivo a voyeurismo pulsionale finalizzato al consumo illimitato di beni feticcio. Ad animare lo sguardo critico capace di persistenza dell’immagine non c’è nessun gusto del trash o dell’immondizia del mondo, come nessun gusto del riciclo – benché sia il primo che il secondo pongano istanze importanti alla contemporaneità – quanto, da una parte, il tentativo, per ora appena abbozzato, di dar forma a quella massa informe di macerie visive che la società spettacolare riversa nelle nostre esistenze e, dall’altra, come già detto, il tentativo di praticare un esercizio di attenzione verso la sospensione, l’intervallo, lo scarto che si instaura tra un’immagine e l’altra, tra un fascio luminoso e l’altro, tra la persistenza di quest’ultimo sulla retina e la sua memoria visiva. Questo esercizio mi pare, seppur allo stato attuale della ricerca ancora in modo imperfetto, possa essere un metodo critico per guardare diversamente al grande flusso della contemporaneità, ponendo il problema della sua memoria attuale e di quella futura che le sue immagini, inevitabilmente, portano con sé.
Se la società contemporanea, che coincide con gli albori dell’iconosfera, viene alla luce con l’invenzione tecnologica della messa in sequenza di immagini, creando quindi quel flusso inarrestabile in cui tutto svanisce appena dopo che è stato reso visibile, non è certo un caso che sia proprio la persistenza dell’immagine a permettere la tecnica cinematografica e quella televisiva: il flusso, cioè, si fonda su una persistenza, su una capacità di fermo immagine. Come neppure è un caso che quel flusso ininterrotto di immagini che hanno fatto del mezzo televisivo il regno dello spettacolare trovi una battuta d’arresto, una sorta di fermo immagine generalizzato e a portata di ognuno, nel più grande veicolatore di immagini di ogni tempo che è internet. Potremmo dire, parafrasando Stiegler, che l’iconosfera è in sé un pharmakon, contiene in sé tanto il veleno quanto l’antidoto. Non potendo concepire il flusso come un male assoluto, non potendo ridurre la produzione industriale di immagini a una semplice distruzione dell’immaginario, sarà chiaramente anche e soprattutto da un’analisi di questi nuovi potenti mezzi di produzione e condivisione delle immagini, mezzi che appunto mostrano il carattere di pharmakon della produzione industriale di immagini, che passa la possibilità di ripensare l’iconosfera non più in una logica consumistica dell’immagine ma in quella, più complessa e gratificante, di una nuova produzione collettiva di memoria storica e sociale; come anche è possibile vedere all’opera proprio nell’iconosfera la dimensione di una creazione di nuove sfere di espressione per il desiderio, singolare e plurale, di un’umanità alla ricerca di se stessa e della propria autorappresentazione. Il web è, probabilmente, il luogo in cui oggi si gioca questa partita sull’identità di una nuova civiltà dell’immagine che poi, oggi, significa di una civiltà tout court. La posta in gioco nelle nuove tecnologiche collettive è il passaggio da una società dello spettacolo a una civiltà delle immagini o, per dir meglio, a una civiltà dell’immaginario, cioè una civiltà in cui, tramite la tecnica, si rende disponibile a tutti la possibilità di fruire e di produrre immagini nel medesimo gesto, nella consapevolezza critica di uno sguardo che sa realmente vedere e che conosce le regole fondamentali di una immaginazione creatrice. Il nostro compito è oggi persistere negli scarti tra un flusso ininterrotto di immagini e il suo arrestarsi repetino, senza lasciarsi scoraggiare dalla violenza onnipervasiva dello spettacolare diffuso e nemmeno cedendo all’illusione nostalgica del passo all’indietro in un mondo scomparso. Occorre, anzi, persistere in quel punto d’arresto del flusso che appare improvviso là dove meno ce lo si aspetta. Solo indirizzandosi allo scarto, al momento di sospensione del flusso, alla cesura del flusso che inevitabilmente l’immagine autentica porta in sé, lo sguardo critico, aperto dalla persistenza dell’immagine, potrà forse davvero sospendere lo spettacolare e arrivare infine a vedere l’invisto dell’immagine del mondo che viene a noi da ogni dove e da ogni luogo in cui un immaginario è all’opera.
Una prima versione di questo testo è apparsa in AA.VV., In difesa delle cause perse. Estetica e pratiche curatoriali, Silvana editoriale, Milano 2013
Immagine di copertina: Albarran Cabrera, “Kairos”, 2015, #4020, Pigments, gampi paper and gold leaf.