Un cumulo di ossa semisotterrate. Pezzi bianchi e frammenti scheggiati confusi tra i fili d’erba e la luce. Inizialmente è stato il biancore delle parti in luce ad attirare la mia attenzione. Da lontano poteva essere qualsiasi cosa, un ricamo sgualcito, il riflesso di un cellofan incagliato tra l’erba e il terreno o resti di stoviglie rotte, appartenute a chissà chi. Ma la realtà di quel biancore, da vicino, era molto più evidente. Ossa. Ossa di animale. Un cranio di maiale.
Ho scattato questa fotografia con l’intenzione di segnarmi un appunto, né più né meno di come mi si presentava dinnanzi. Non mi sono preoccupato di nulla. Era un appunto interno, senza alcuna destinazione precisa.
È ad ogni inizio d’inverno che continua ad aprirsi il capitolo dell’uccisione del maiale. Ai miei occhi quella che avrebbe dovuto essere una pratica usuale, un accadimento normale, in realtà non lo è mai stato. La prima volta che vidi l’uccisione era all’inizio di un giorno di gennaio, il sole doveva ancora sorgere e, intorno a me, tutto era avvolto nel buio. Non lontano bruciava un fuoco di sterpi e nella luce arancione, lentamente, si alzavano i vapori dell’acqua calda.
Il corpo dell’animale era steso a terra, appoggiato su due travi di legno che lo tenevano perpendicolare e in asse, leggermente sollevato da terra. La grande massa bianca, bagnata di acqua e sangue, emergeva dall’oscurità mandando un chiarore languido.
Ricordo queste immagini con nitore, nonostante iniziasse tutto nell’indistinto e la luce fosse ancora lontana dal venire.
Se c’è un’ambientazione in cui le cose accadono è questa, in questa condizione di luce, prima del formarsi delle ombre. O perlomeno questo atto si doveva compiere in un momento di transizione, un momento in cui l’occhio potesse ricavare un’ansa, uno spazio a parte. Prima che il giorno e la luce lasciassero tutto allo scoperto.
Da lì in avanti ogni cosa sarebbe stata riassorbita e collocata adeguatamente entro uno spazio lecito visibile. Ma prima di allora, vedere e assistere a questa pratica significava richiamare le materialità più profonde e abbiette, osservare il farsi in parti del corpo intero, guardare dentro al corpo – smembrato più e più volte, diviso in sezioni, in frazionamenti sempre maggiori, finché il visibile, di volta in volta, non si fosse ridotto in più piccole porzioni. Ripartendo e scomponendo, distinguendo consistenze e filamenti, raggruppando per indici.
Essere messo davanti a questa evidenza implicava la scelta di guardare. Aspettare e guardare. Accettare di farne parte anche solo con gli occhi, anche solo per aver guardato. Fino al punto in cui, tutto ciò che costituiva la forma in origine, diventava completamente irriconoscibile allo sguardo. Una distanza ripetuta di volta in volta, fino a ridurre l’identità organica in mero materiale inerte. Densità non più riconducibile e scarna, composta di qualità singole ormai remote e inappartenenti.
Ogni cosa è tesa tra la volontà di vedere e quella di chiudere gli occhi. Sottrarsi alla vista o guardare fino alla fine, finché non resta proprio più nulla da vedere. Fino ad essere completamente al di qua del vedere, come se per un periodo abbastanza lungo non ci fosse più nulla su cui mettere gli occhi e, assieme al corpo, fosse stato momentaneamente cancellato ogni altro orizzonte possibile. Come se il peso del visibile avesse frantumato lo schema della luce.
Sì, perché tutto termina con una completa sparizione, una superba cancellazione di esistenza. È lo sguardo stesso a frammentarsi con il suddividersi delle carni: la dissezione diventa una conseguenza dell’occhio.
Ci si allontana così dalla compostezza del corpo, in cui a parte risponde parte e in cui ogni forma d’estensione diventa conseguente.
Ciò che aveva vita e ora non l’ha più, può solo continuare ad essere guardato e approfondito, avanzando e motivando un distacco dopo l’altro, seguendo i segmenti che la prospettiva interna impartisce.
Guardare fino alla fine
quel che resta è un’immagine
ritrovata
Un cranio bianco
In copertina: Nicolò Cecchella, Un cranio bianco, 2020