Occhiali, penna tra le mani, lo sguardo sui fogli poggiati sulle gambe, l’aria seria del giovane intellettuale. Così Germano Celant appare in una fotografia scattata nei primi giorni di ottobre 1968 negli Antichi Arsenali di Amalfi. Il critico – scomparso a ottanta anni il 29 aprile scorso a Milano – aveva appena inaugurato una delle esposizioni fondamentali per la vicenda artistica di quegli anni, Arte povera più Azioni povere. Tanto la mostra quanto l’“assemblea” – una discussione aperta tra critici, artisti e pubblico cui presero parte tra gli altri anche Tommaso Trini, Achille Bonito Oliva, Filiberto Menna e Marcello Rumma, ritratti nella stessa immagine – e le azioni che gli artisti eseguono sotto le volte gotiche degli Arsenali, nelle vie della città o in riva al mare, rappresentano in effetti l’irruzione di uno spirito di novità radicale, in cui opere e “comportamenti” danno vita a una mescolanza anarchica di materie, immagini, corpi, pensieri. Evento esemplare nella sua anticonvenzionalità, Amalfi ha inaugurato un modello di esposizione come luogo in cui l’arte “accade” in continuità con la vita.

Insieme a nomi nuovi del panorama internazionale, ad Amalfi sono presenti gli artisti dell’arte povera, il gruppo tenuto a battesimo da Celant in una mostra alla galleria La Bertesca di Genova l’anno prima e da allora rimasto indissolubilmente legato al suo nome. Nel manifesto Arte povera. Appunti per una guerriglia, pubblicato nel novembre 1967 su «Flash Art», il critico aveva disegnato una mappa della ricerca artistica italiana più recente, letta sotto il segno di una rivolta che colpiva simultaneamente i linguaggi espressivi, le idee e le istituzioni dell’arte. Il clamoroso richiamo alla “guerriglia” richiama la strategia di opposizione che Umberto Eco aveva definito appunto “guerriglia semiologica” in una conferenza a New York pronunciata in quello stesso 1967. Una pratica che mirava a restituire un ruolo attivo alla ricezione individuale, contro la manipolazione operata dai mass media. L’opposizione ai codici della comunicazione e l’empowerment dei suoi destinatari, proposta da Eco come strategia di contropotere rispetto ai modelli sociali e politici dominanti, diviene nel testo di Celant un invito a superare la condizione passiva che condanna l’artista a “perfezionare la struttura sociale, mai a modificarla e a rivoluzionarla”. Al contrario, l’artista poverista da “sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto”. Con la sua richiesta di essenzialità e autenticità, l’arte povera – l’epiteto era almeno in parte derivato dal concetto di “teatro povero”, ascetico ed essenziale, coniato da Jerzy Grotowski – è dunque “impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente”, rifiuta categorie ed etichette e tende a “liberazioni formative e compositive, antisistematiche, tese all’identificazione uomo-mondo”, in cui cioè “l’uomo è il fulcro e il fuoco della ricerca, non più il mezzo e lo strumento”.
Le ricerche più recenti intorno all’Arte povera hanno contribuito a spogliare le posizioni di Celant dall’inevitabile enfasi ideologica del “manifesto” del 1967, così come a ridimensionarne l’immediato valore politico, nonché a riconoscere le grandi differenze tra gli artisti del “gruppo”, in realtà una costellazione di personalità eterogenee per percorsi e poetiche individuali. E tuttavia la forza dell’intuizione originale di Celant resta inoppugnabile: con l’arte povera si può ben dire inizi un nuovo corso, complesso e imprevedibile, per l’arte italiana. Per un’intera generazione di artisti e critici è in effetti questo il momento di una trasformazione di cui Celant interpreta simultaneamente tutti i tratti cruciali, stabilendo di fatto un nuovo standard culturale: l’indifferibile apertura internazionale della scena artistica, l’affermazione della figura del curatore indipendente, la nuova preminenza della “scrittura espositiva” rispetto al testo tradizionale, la relazione diretta con gli artisti.
Un libro importante e dalla grafica innovativa, Arte povera, pubblicato subito in più lingue nel 1969, metteva in questo senso ulteriormente in luce la capacità del giovane critico di creare connessioni a lungo raggio e di posizionare saldamente le esperienze italiane nel panorama delle ricerche europee e americane di area ambientale e “processuale”. Un mutamento di prospettiva è tuttavia già avvertibile: caduta la metafora della guerriglia, emerge nel libro una visione diversa, depoliticizzata e non conflittuale, in cui gli elementi “magici” e la sensibilità agli aspetti archetipici e mitologici delle pratiche artistiche prende il posto della mobilitazione collettiva e del cambiamento rivoluzionario. Questo sintomatico cambio di prospettiva critica diventerà sempre più avvertibile mano a mano che ci si allontana dal 1968. Celant reitererà e affinerà più volte queste posizioni nei decenni seguenti, soprattutto a partire dal reboot dell’Arte povera con la mostra The Knot. Arte Povera at PS1, al MoMa PS1 di New York, la prima negli Stati Uniti a presentare il “gruppo” nel suo insieme, per finire con l’ampia retrospettiva di Jannis Kounellis, la prima dopo la scomparsa dell’artista, ospitata dalla Fondazione Prada nel 2019.

L’ideale di Celant è quello di una “critica acritica”, che procede affiancata all’arte, respinge ogni gerarchia intellettuale, rifiuta il giudizio ideologico e l’atteggiamento prescrittivo tipici dei critici delle generazioni precedenti come Giulio Carlo Argan. Sono posizioni espresse nel novembre 1970 sulla rivista «NAC», in cui Celant propone di sostituire alla pratica dell’interpretazione, in cui legge una carica inevitabilmente autoritaria, una nuova modalità basata su un rapporto diretto dell’opera, accogliendo in questo l’invito “a vedere di più, ascoltare di più, sentire di più” formulato da Susan Sontag in un saggio molto letto, Against interpretation (1964), citato in esergo all’articolo. “Raccolta”, “archiviazione”, “registrazione” devono dunque prendere il posto del “testo”, negando a quest’ultimo, in ultima analisi, il suo potere. Una posizione che riflette e rafforza incidentalmente una circostanza cruciale: il divorzio tra critica e storia dell’arte che si consuma dopo il ’68 in Italia e che costituirà nei decenni seguenti un limite notevole a una più matura ricezione della cultura artistica contemporanea nel nostro paese. Riferimento essenziale diventa a questo punto per Celant la figura del curatore – il suo Idealtypus è Harald Szeemann – in quanto capace a tutti i livelli di un rapporto “immediato” con le pratiche dell’arte,
Alla scrittura impegnativa e all’intransigenza della vecchia scuola – ma anche all’inventività mobile e onnivora del suo coetaneo Achille Bonito Oliva –, Celant preferirà sempre la descrizione puntuale dei lavori e l’analisi ravvicinata delle poetiche degli artisti, con ben poche concessioni alla divagazione saggistica o a una più ampia prospettiva storica. Proprio per questo forse la parte migliore della sua produzione è quella legata al lavoro di documentazione, come testimoniano diversi suoi libri, da Precronistoria 1966-1969 (1976, ripubblicato da Quodlibet nel 2017), insieme cronologia e raccolta documentaria dedicata alla nuova scena artistica internazionale, a Offmedia (1977), che indaga l’uso nuovi media artistici come libro, disco e film. L’esempio migliore di questa metodologia resta tuttavia il ricchissimo catalogo della mostra Identité italienne al Centre Pompidou (1981), modello di una narrazione in cui la lettura sinottica delle vicende artistiche, culturali e politiche diviene strumento di interpretazione e (contestata) costruzione del canone.

Con il volume dedicato nel 1972 a un Giulio Paolini poco più che trentenne, Celant adotta la monografia come formato elettivo, un genere – come testimoniano del resto le numerose pubblicazioni realizzate in oltre quattro decenni (l’elenco, ampissimo ed eclettico, comprende tra gli altri Accardi, Fioroni, Heizer, Isgrò, Nevelson, Manzoni, Rotella) –, ben presto divenuto centrale nella sua attività. Rivolta, almeno agli inizi, ad artisti ancora in piena evoluzione anziché solo a maestri affermati, questa scelta rivela non solo lungimiranza critica ma anche una essenziale intuizione di fondo: l’arte ha abbandonato la regola modernista della tabula rasa e della rivoluzione permanente dei linguaggi ed è ormai caratterizzata da una pluralità di alternative da osservare e convalidare in maniera simultanea al loro accadere. Un tempo ratifica a posteriori di un’œuvre, la monografia ne diviene si può dire un momento di formazione, contribuendo al tempo stesso a stabilire le coordinate di quella condizione rizomatica, indefinita, orizzontale, sintetizzata nel sintagma “arte contemporanea”.

La successiva carriera di Celant interpreta e riflette la trasformazione complessiva del mondo dell’arte dagli anni Ottanta in avanti e il sempre più rapido inserimento delle ricerche artistiche più recenti nel circuito delle grandi istituzioni e delle megagallerie, un contesto ormai esteso a scala mondiale in cui il curatore diviene una rispettata ed efficiente figura professionale. Di questo panorama Celant è rimasto fino alla sua scomparsa una figura di spicco: diventato curatore al Guggenheim di New York, vi allestisce importanti retrospettive (ad esempio quella dedicata a Mario Merz nel 1989) e grandi macchine spettacolari, come l’assai discussa The Italian Metamorphosis: 1943-1968 (1994), un ambizioso tentativo di narrare in forma post-ideologica la vicenda italiana dalle macerie della guerra all’apice del boom allargando la visuale dall’arte al cinema, al design, alla moda. È questo il modello, seducente e rischioso al tempo stesso, di un approccio multidisciplinare adottato più di recente in Arts & Foods alla Triennale di Milano (2015), mostra onnivora le cui dimensioni e costi non hanno mancato di suscitare controversie. Alla Fondazione Prada, che dirigeva dal 1995, il suo interesse per lo scavo documentario e la restituzione storica ha trovato un’ancor più vasta attuazione in progetti di grande respiro come The Small Utopia: Ars Multiplicata (2012), una vasta ricognizione sulla produzione di libri d’artista, multipli ed edizioni nell’arte del XX secolo. Ancora più sintomatici di questo taglio curatoriale sono stati il remake, ma forse sarebbe meglio dire l’appropriazione, della celebre mostra di Harald Szeemann del 1969 When Attitudes Become Form (2013), e soprattutto Post Zang Tumb Tuuum (2018), un’ampia ricostruzione dell’arte italiana tra le due guerre che evidenziava tuttavia, al di là di un allestimento pur sin troppo orientato all’effetto, un approccio evasivo alle questioni storiche e politiche che essa stessa sollevava.
Un bilancio della parabola di Celant non può che tener conto di tutti gli aspetti che si sono venuti a intrecciare nella sua personalità sin dagli esordi, segnati dagli studi di storia dell’arte con Eugenio Battisti a Genova e dal lavoro per «Marcatré» rivista multidisciplinare tra le più autorevoli dell’epoca, di cui era diventato nel 1963 giovanissimo segretario di redazione. Solo così è infatti possibile rendere conto di una personalità che poteva riunire in sé il fedele compagno di strada degli artisti e lo strategico organizzatore, l’appassionato raccoglitore di documenti e testimonianze (e ci si augura che il suo straordinario archivio personale venga ora preservato e reso accessibile) e il conoscitore al servizio di una sofisticata industria culturale. Questa ambivalenza è un dato strutturale nel panorama dell’arte e in genere della cultura del capitalismo tardo, e Celant ne ha incarnato fisicamente e a lungo i caratteri e le contraddizioni. Fedele in fondo a quanto scriveva nel catalogo di Amalfi, fare critica ha sempre pragmaticamente equivalso per lui alla realizzazione “immediata di un risultato, azione o evento, […] non solo come dimensione del preferibile e dell’ipotizzabile, ma evento in divenire con la realtà attuale e contingente”.
In copertina: Germano Celant (al centro), Antichi Arsenali di Amalfi, ottobre 1968