Un monolito nero è piantato nella nostra coscienza. Emana qualcosa che induce domande, continuamente. Sta tra lo spazio e il tempo, tra l’inizio e la fine di ogni cosa. Qualcuno ha tentato di rendere visibile questo mistero attraverso lo specchio del pensiero o l’immaginazione. È possibile cogliere questo enigma indefinito anche con uno strumento tecnologico? Una tecnologia fantascientifica cosa riuscirebbe a mostrarci realmente? In 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, la macchina fotografica è riuscita a cogliere nello spazio anche le frequenze e le energie del monolite nero, il suo mistero, o solo ciò che appare sulla sua parvenza esterna e superficiale?
Nella scena in cui l’astronauta comincia a scattare foto agli altri astronauti che si sono messi in posa davanti al monolito piantato sul suolo lunare, la pietra enigmatica comincia a emettere un rumore stridente, così acuto che gli umani si portano istintivamente le mani alle orecchie (ma hanno la testa nel casco dello scafandro spaziale). Pare che l’oggetto misterioso non gradisca che si cerchi di creare un’immagine della sua presenza, di dare spazio a simulacri o a feticci, di relegarlo in un rettangolo bidimensionale o in una parziale registrazione. Sembra più vicino al pensiero di chi preferisce mantenere invisibile il senso del divino, per evocare una realtà polisemica, interpretabile in vari sensi. Apre all’enigma e alla non riproducibilità. Il monolito è immaginazione, monumento dell’indefinito. Poi la scena viene interrotta bruscamente e si passa all’immagine della navicella nello spazio, nelle vicinanze di Giove.
Kubrick lascia intendere che c’è un mistero ineffabile, che non può essere assolutamente colto né dagli scatti fotografici né da altro. Il monolito nero, nella sua forma parallelepipede, rappresenta probabilmente il primo mattone della coscienza cosmica e, al contempo, il puro mistero in sé. Il viaggio psichedelico innescato dalla forza oscura presente nel monolito induce lo sguardo e la mente a percorrere una velocità simile a quella della luce. Si viaggia ad altissima velocità nell’astrazione, nelle innumerevoli sfumature dei colori e della luce.

L’approdo è nella stanza settecentesca del passaggio da una vita a un’altra, da una pre-immaginazione all’immaginario possibile, dall’incontro di vari tempi in un solo istante, dove vivono al contempo passato, presente e futuro, nello spazio memoriale. Nel film di Kubrick, la chiosa lascia aperte più letture e interpretazioni. L’essere nel nuovo feto, sospeso nello spazio sidereo con la Terra a vista, allude forse a qualcosa che assomiglia a un’evoluzione del nuovo uomo, ipotizzato da Friedrich Nietzsche? L’oltremedium è strettamente legato all’idea dell’oltreuomo, forse. La processualità di qualcosa che intende cogliere il vasto e complesso mondo dell’istante, tra il visibile e la portata evocativa di ciò che non riusciamo a vedere chiaramente – come per esempio quella del mezzo fotografico – si supera solo ricompiendosi all’infinito? La morte della fotografia si vince facendola morire ogni volta di nuovo per permetterle di rinascere nell’istantaneitá einsteiniana spaziotemporale? Il mito del cambiamento, dell’evoluzione e della riproduzione ripete sempre le tappe dell’età umana.
Vivere in più periodi nel tempo è paragonabile a chi cerca di comprendere la complessità del flusso temporale aggirandosi in un labirinto. La vita del protagonista di Shining (1980), o almeno il suo volto, era già appartenuta a qualcuno che si trovava all’Overlook Hotel nel 1921? Nella lingua inglese “overlook” significa sia “posizione panoramica” sia “ignorare”, verbo che nel film allude a coloro che nel 1907 hanno edificato l’hotel sul suolo cimiteriale dei nativi, ignorando il valore sacrale di un luogo popolato dalle anime e dalla memoria di innumerevoli persone. La presenza del labirinto rende visibile ciò che sta tra i viaggi spaziotemporali e il mondo ctonio, dove sono sepolte le vite di chi agì nel passato. In una sequenza tagliata nel montaggio finale del film, Jack trova un album nel seminterrato. Le fotografie svelano l’oscuro passato dell’hotel. Nell’album si vede anche la fotografia dell’ultima scena, quella dove Jack è ritratto assieme a molte altre persone, mentre si festeggia il 4 luglio del 1921 nella Golden hall dell’hotel. Dopo il taglio, l’album si intravvede nel montaggio finale poggiato sulla scrivania di Jack. L’album era stato considerato da Kubrick un elemento favolistico, ovvero un album caricato da forze occulte, che, una volta scoperto da Jack, lo avrebbe condotto a essere controllato dai fantasmi dell’hotel o dagli spiriti del cimitero dei nativi. Che cosa è l’oltrefotografia? Forse è ciò che sta in sospensione tra Jack nell’Overlook hotel narrato nel film e l’altro Jack che è presente nello stesso hotel nel 1921, come testimonia la fotografia nella chiosa della storia. È possibile vivere contemporaneamente in due o più periodi della storia distanti molti anni tra loro? In Shining la fotografia del finale allude a un wormhole spaziotemporale?

Nel film Blade Runner (1982) di Ridley Scott viene utilizzato un computer per analizzare le fotografie, per ingrandire i particolari contenuti anche dietro pareti o porte presenti all’interno della superficie bidimensionale, e le immagini vengono tradotte in oggetti attraverso una stampante che realizza direttamente foto polaroid. Le fotografie sono state create ad hoc per fornire ai replicanti ricordi personali, che in realtà non hanno vissuto. In questa metafora viene suggerita la possibilità che il potere utilizzi i ricordi personali della gente come fattore di controllo emotivo nei confronti dei propri cittadini votanti e consumanti. Agli androidi organici vengono date fotografie finte, per supportare i loro falsi ricordi innestati. In qualche maniera nel film l’idea di creare un immaginario fotografico non vissuto personalmente anticipa di vari decenni quello che è di uso comune attualmente, sebbene con connotazioni diverse e con strascichi grotteschi, per esempio pensando a chi passa molto tempo della sua giornata a guardare le fotografie postate da sconosciuti in Instagram o Facebook. Significativo è l’uso che viene fatto di queste fotografie nella trama del film. Esse fungono da elemento legittimante di una finzione, cioè della natura umana in tutto e per tutto (con un inizio, un’infanzia, una crescita, una famiglia) di esseri che sono invece delle macchine pensanti. La fotografia, con il suo valore di attestazione di realtà, viene utilizzata per costruire il passato di Rachael e di Leon, cioè di cyborg con una mente mossa dall’intelligenza artificiale. La fotografia quindi è intesa come strumento per costruire una realtà, in questo caso un passato, verosimile ma inesistente. Quando entreremo nell’area di interazione della computational photography, quella immaginata in Blade Runner nel 1982, utilizzando la Esper?

Nell’episodio Crocodile (2017), della serie Black Mirror ideata da Charlie Brooker, l’investigatrice assicurativa utilizza un rammentatore, o riesumatore di ricordi, per accedere agli ingrammi, ovvero ai ricordi di quanto è avvenuto in un determinato momento, ricordi soggettivi e personali di un accaduto. Il rammentatore (Recoller) raccoglie tutta una gamma di ricordi dei vari testimoni di un incidente stradale, per ricostruire un quadro attendibile. Nell’episodio The Entire History of You (2011), Liam Foxwell è un giovane avvocato che, come la maggior parte delle persone del suo tempo, ha un congegno chiamato “grain” impiantato dietro l’orecchio, il quale registra e memorizza tutto ciò che accade. Il dispositivo permette la riproduzione dei ricordi direttamente negli occhi del proprietario o su uno schermo esterno. Liam rivede tutte le fotografie e le immagini registrate e scattate nella memoria personale, direttamente nello sguardo retroattivo. Purtroppo a un certo punto della storia un sospetto comincia a corrodergli l’anima, e così prendono corpo tutti i fantasmi della gelosia. Ossessivamente ripercorre tutte le immagini che riguardano il rapporto con sua moglie. A prescindere dalle suggestioni distopiche ipotizzate dalla serie Black Mirror, sarebbe interessante accedere ad altre immagini: quelle più preziose, quelle custodite nel mistero – per ora ancora inaccessibile o raggiungibile per pochi istanti – del corpo o della mente o dell’anima o di un altro non luogo determinato. Il “mistero” sta innanzitutto in quella differenza sostanziale tra la “memoria” della macchina e la memoria dell’individuo: una memoria che lavora in maniera imprecisa e confusa, che dimentica e ricostruisce e condensa immagini, che lavora con l’analogia e la metafora. La nostra memoria può davvero essere considerata indipendente da quella delle macchine? Dipende da cosa si intende per “indipendente”. Siamo indipendenti dalle nostre protesi? Le macchine strutturano da tempo la nostra visione. Nell’episodio White Christmas (2014) della serie Black Mirror, compare la fotografia dei blocchi legali, i quali impediscono di guardare l’immagine di qualcuno che ha richiesto di non essere visto. La figura in rosso è la silhouette di un uomo che è stato condannato a non poter vedere distintamente le fisionomie e le figure umane, e costretto anche a essere visto solo come individuo marchiato dal colore di coloro che sono in attesa del giudizio.
In Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders alla protagonista Claire Tourneur interessano molto di più i frammenti visivi che giungono dai sogni, le immagini del suo inconscio, i ricordi non ancora svelati, registrati con un nuovo dispositivo tecnologico. La macchina che registra il mondo onirico rende poi visibile quello che prima era solo elettricità, nel suo movimento originale, l’intreccio di onde cerebrali trasformato in “una sinfonia di colori e forme, immagini biochimiche, l’armonia delle sfere”. Recentemente hanno pubblicato su Nature la notizia dell’ideazione di un nuovo dispositivo in grado di rappresentare su monitor i pensieri e le loro eventuali modificazioni: vengono visualizzati elettronicamente l’attività cerebrale e le decisioni attuate dal pensiero cosciente. La nuova macchina è stata creata da ricercatori guidati da Moran Cerf del California Institute of Technology di Pasadena (Usa). Dicono che sarà possibile rappresentare sogni e pensieri su uno schermo e analizzarli. Chissà che uso ne farebbero Freud e Jung. Il cervello, che è costantemente bombardato da immagini, rumori e odori, può, attraverso il pensiero cosciente, selezionare quali stimoli notare e quali ignorare? I ricercatori hanno ipotizzato di poter leggere anche le menti dei pazienti in coma, che non sono in grado di comunicare, di inviare mail solo pensando di farlo, di pensare un flusso di informazioni e vederselo scrivere in tempo reale sul monitor davanti a noi.
Sarà possibile trasmettere immagini interiori, immagini verbali o poetiche, idee, attraverso il medium telepatico? In Lo and Behold, Reveries of the Connected World (2016) Werner Herzog intervista uno scienziato americano su questa futuristica possibilità: “Uno scanner di risonanze magnetiche misura l’energia di risonanza magnetica proveniente dal cervello. Quindi è extrasensoriale. È abbastanza precisa da dirci che attività si sta verificando in ciascun piccolo elemento di volume della grandezza di un grano di pepe. Quindi quando si legge una frase tipo: “ci sono due elefanti che attraversano la savana”, un programma informatico può capire se stai pensando alla stessa cosa sia che tu stia guardando il video o leggendo la frase. A livello concettuale è uguale. È uguale anche se si parlano lingue diverse. C’è un’universalità di alfabeto nei pensieri umani e vale per i video che Jack Gallant e i suoi colleghi hanno trovato ma anche per i discorsi orali e scritti, indipendentemente dalla lingua. Abbiamo un vocabolario, il cervello ha un vocabolario, e stiamo iniziando a scoprirlo. Adesso ci serve una macchina da due milioni di dollari che pesa 7250 chili, ma in futuro, qualche geniale biofisico inventerà un cappellino o un casco in grado di farlo? Credo che sia possibile. L’energia elettromagnetica è lì ferma. È lì ferma. Quindi, quando si parla di telepatia, la telepatia è una comunicazione a distanza. Funziona già a distanza di qualche millimetro ed è questione di tempo prima che funzioni a distanza di migliaia di chilometri. In un futuro non troppo distante si potranno twittare pensieri. Quindi non digitarli ma pensarli, premere un pulsante e i tuoi follower potenzialmente potranno leggerli”.

Se sarà possibile trasmettere pensieri si aprirà un ventaglio di nuove applicazioni, letture e fruizioni, anche per quanto riguarda la sfera dell’extrasensoriale. Ma torniamo ora all’incipit di questo viaggio fantafotografico, per un attimo o per sempre, nella stanza settecentesca in cui il protagonista di 2001: Odissea nello Spazio entra in contatto con il monolito nero, che forse solo lui stesso ha evocato o può vedere. Ripartiamo da questa prossimità, consapevoli che il monolito non vuole che si scatti alcuna immagine fotografica.
In copertina: la scena del monolito da 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick (1968)