I lavori per la ricostruzione del ponte Morandi di Genova procedono spediti nonostante la crisi sanitaria. L’ultimo impalcato del nuovo viadotto progettato da Renzo Piano è stato issato a fine aprile e, salvo imprevisti, quest’estate si potrà circolare da una sponda all’altra del fiume Polcevera come ai vecchi tempi del ponte Morandi. Tuttavia, se il Presidente del Consiglio si è affrettato ad affermare che la ferita è stata sanata, giustizia non è stata ancora fatta per le 43 vittime del crollo e per i 566 abitanti costretti ad abbandonare le loro case. Il processo che dovrebbe ristabilire la verità e le responsabilità della catastrofe di quella mattinata piovosa del 14 agosto 2018 va a rilento: l’incidente probatorio è slittato di alcuni mesi, l’udienza fissata per il 14 giugno.
Gli elementi di prova all’esame degli inquirenti sono i blocchi del ponte crollato. Da qui la cautela con cui sono stati trattati: bisognava trovare al più presto un luogo in cui custodirli e catalogarli il più vicino possibile alla catastrofe. La scelta ricade su un fabbricato industriale dell’AMIU (Azienda Multiservizi e d’Igiene Urbana) che si trova sotto al ponte, parallelo alle sponde del Polcevera.

Qui giace quel che resta degli stralli, i tiranti con l’anima in acciaio e la guaina in calcestruzzo caduti sotto l’ex Pilone 9 del ponte Morandi. Su questi resti – punti nodali della costruzione che hanno ceduto – sono probabilmente scritte le ragioni che hanno causato il crollo. Sotto sequestro giudiziario, il fabbricato è accessibile solo su permesso della procura di Genova, perlomeno fino alla chiusura del processo.
Con un modo di procedere tipico di molti suoi lavori, come i corpi di reato del delitto Moro (di cui abbiamo parlato poco tempo fa), Gigi Cifali decide di fotografare questi reperti. Così chiede al procuratore di Genova l’autorizzazione ad accedere al deposito e, dopo circa sette mesi, gli viene concordato il permesso di recarsi in loco e scattare fotografie per una giornata. Siamo a febbraio 2020, il cantiere per il nuovo ponte è in piena attività.
Accompagnato dalla Guardia di finanza, l’artista entra in uno spazio sconosciuto e invisibile se si eccettuano due brevi riprese giornalistiche andate in onda il 3 ottobre 2018 e il 10 dicembre 2019. Penetrato all’interno del capannone, resta sorpreso: gli ammassi di cemento armato sono stati avvolti di recente da teli di plastica trasparente contro gli agenti atmosferici.

L’involucro diventa un lenzuolo funebre che protegge e opacizza le macerie, nascondendole appena alla vista con una forma di involontario pudore. Con la sua natura diafana, lo strato di polietilene rende questi macigni più leggeri ma, allo stesso tempo, dà loro un’aria fantasmatica. Come se all’interno dell’hangar aleggiassero visioni spettrali, e in cui solo la ruggine sulle armature di ferro segna il passaggio del tempo degli orologi.
Come fotografare le macerie? Singolarmente, come dei ritratti. Del resto ognuna ha una forma e un innesto diversi e portano un numero specifico, quello registrato negli atti del processo. Gigi Cifali ne sceglie sette, i più isolati che gli permettono di tenersi a una certa distanza. Sebbene siano frammenti – o proprio per questa ragione – vanno fotografati integralmente, lasciando che riempiano l’immagine. Solo così possono imporsi con la loro presenza; ripresi da vicino, nei dettagli, si depotenziano. Ogni scatto richiede tempi lunghi d’esposizione per ottenere la profondità di campo necessaria.
Alcune di queste macerie entreranno a far parte del memoriale, parte de Parco del Polcevera e il Cerchio Rosso progettato da Stefano Boeri, che dovrebbe includere tra l’altro un progetto di Luca Vitone, Genova nel Bosco, con la piantumazione di 43 alberi in memoria delle vittime. Parte del memoriale sarà collocato proprio nell’ex fabbricato, in cui verranno conservate alcune tra le macerie fotografate da Gigi Cifali.
La serie in grande formato s’intitola, con un richiamo all’estetica della pittura cubista, Scomposizioni. Tante sono tuttavia le suggestioni che queste fotografie evocano. In quanto sculture velate, sulle prime mi viene in mente all (2007) di Maurizio Cattelan, le nove sculture funebri in marmo di Carrara. Ma, in finale, questi monconi architettonici, avulsi dalla logica commemorativa del monumento, mi fanno pensare a Gordon Matta-Clark.

Un cortocircuito dovuto al fatto che proprio a Genova, alla Galleriaforma nel 1973, grazie anche all’intermediazione di Germano Celant, Matta-Clark ha tenuto la sua prima mostra europea. In quell’occasione, l’artista allora trentenne si accorge che, lavorando per la prima volta con la muratura, “invece di riguardare un insieme (whole), i tagli in sé diventavano sempre più palpabili”, come dirà a Liza Bear nel dicembre 1974. I tagli, cioè il vuoto, sembrano farsi materia. Da qui il titolo della mostra, W-hole, che gioca sulla co-presenza e l’ambiguità tra pieno e vuoto, presenza e assenza.
Secondo Michel Serres (L’Art des ponts, 2006), il filosofo è un pontificatore, ovvero non qualcuno che parla con sussiego secondo l’accezione corrente del temine, ma qualcuno che, alla lettera, sa farsi ponte. Un Homo pontifex. Il pensiero si misura in base ai passaggi che rende possibile, ai fiumi e alle rive e alle vallate che attraversa, al trasporto e alle traiettorie inedite che traccia. Il pensiero è uno strumento che lega, che mette in connessione tenendo le parti distinte. Presto il nuovo ponte sarà percorribile, ma questo è solo un primo passo, e così il memoriale. Si tratterà, più profondamente, di trovare parole e immagini, gesti e azioni che sappiano farsi ponte.
In copertina: Gigi Cifali, Scomposizioni #2, 2020, Courtesy the Artist