Cosa anima uno sguardo desiderante? Quale profondità trascinante di emozioni lo sostanzia? Quanta parte del turbamento che lo accompagna si può ascrivere all’oggetto del desiderio? Ho provato a compiere un attraversamento in quattro momenti del tema, un breve viaggio così articolato: prima tappa un’esperienza rivelatoria sulla felicità del vedere (in maniera stereoscopica, in specie, nelle parole di Sacks); quindi una rivelazione sulla natura desiderante dello sguardo (nella ricostruzione storica di Mark Cousins); vedremo all’opera la pulsione erotica dello sguardo mutata in morbosità (nelle pagine di un reportage di Gay Talese); infine incontreremo una declinazione artistica di un inquieto desiderio turbato (in una lettera di Hans Bellmer).
1. L’inattesa felicità del vedere
Oliver Sacks (1933-2015) ha dedicato molti saggi agli aspetti neurologici della visione, a partire dal testo che lo ha reso famoso in tutto il mondo (scientifico e letterario), L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. In L’occhio della mente (traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi, 2011) sono indagate, con il consueto e indimenticabile equilibrio di rigore scientifico, empatia per il caso clinico ed emozione personale, le relazioni tra alcuni aspetti della visione e la neurologia. La raccolta contiene, tra l’altro, il primo diario della diagnosi e dell’evoluzione del melanoma all’occhio destro che, diagnosticato nel dicembre 2005, avrebbe poi portato Sacks alla morte dieci anni dopo; ma è un altro saggio quello da cui prendiamo le mosse.
In «Stereo Sue» Sacks racconta la sua passione per la stereopsia, ovvero per la capacità del cervello di mediare e fondere la visione binoculare regalandoci da una parte l’impressione di un punto singolo d’osservazione e dall’altra fornendo imprescindibili elementi per la valutazione della profondità e della tridimensionalità. Il fatto che i due occhi vedano in maniera leggermente diversa è talmente semplice da rilevare (basta chiudere uno o l’altro con una mano) che è possibile immaginare fosse noto agli uomini sin dalla notte dei tempi. Eppure, ancora Galeno e Leonardo, rispettivamente nel secondo secolo e nel Quattrocento, nel ragionare su questa differenza non furono in grado di spiegarne le ragioni o comprenderne gli effetti. I primi studi sulla stereopsia furono quelli di Charles Wheatstone, negli anni Trenta dell’Ottocento. Grazie a lui fu chiaro che il vantaggio di avere due occhi era legato alla possibilità di cogliere la profondità degli oggetti e dei luoghi osservati. Quasi contemporaneamente, Wheatstone inventò lo strumento detto “stereoscopio” (fu lui a scegliere il nome), che consente di sottoporre ai due occhi due differenti disegni bidimensionali tali da creare, a chi osserva, l’impressione di tridimensionalità. Pochi anni dopo, con l’invenzione della fotografia, ebbero una grande diffusione anche le stereofotografie e nel secondo dopoguerra il View-Master e il Vectograph e infine gli occhiali con lenti di colori diversi tra loro che utilizziamo tutt’ora al cinema per le proiezioni 3D e che sfruttano il medesimo meccanismo. Tutti oggetti di cui Sacks, membro attivo della New York Stereoscopic Society, era un collezionista:
C’erano poi gli stereogrammi a rete lenticolare, in cui le due immagini erano stampate su strette bande verticali, coperte da una plastica trasparente zigrinata. Le zigrinature servivano a trasmettere ciascun insieme di immagini al singolo occhio, eliminando così il bisogno di occhiali speciali. Vidi per la prima volta uno di questi stereogrammi subito dopo la guerra, nella metropolitana di Londra – era una pubblicità, caso volle, dei reggiseni Maidenform. Scrissi al produttore, chiedendo se potevo averne uno, ma non ottenni risposta; probabilmente pensarono che fossi un adolescente ossessionato dal sesso, e non un semplice “stereofilo”.
Noi che la possediamo, tendiamo a dare per scontata la visione stereoscopica, tanto che avremmo (abbiamo) ragionevolmente difficoltà a spiegare in che cosa questa capacità arricchisce la nostra visione e in che modo la menomerebbe la sua mancanza. Ma è appunto sulla mancanza di visione stereoscopica che si concentra Sacks.
Poiché il cervello è in grado di supplire all’assenza di stereopsia utilizzando alcune modalità alternative per “calcolare” distanza e profondità (in primo luogo attraverso il movimento), Sacks porta l’esempio di alcuni aviatori ed atleti che conseguirono successi di rilievo, in termini di trasvolate e vittorie sportive. Cita anche alcuni artisti probabilmente privi di quella facoltà della vista: Calder, Chagall, Picasso, Hopper.
Ed ecco che ci avviciniamo al punto ed alla ragione di questo lungo resoconto: il caso raccontato da Sacks è quello di una donna, la Sue Barry del titolo, che, nata strabica, aveva subito l’intervento correttivo troppo tardi (rispetto ai quattro anni, età limite) e non aveva perciò sviluppato la capacità di vedere stereoscopicamente. Pur non essendo più strabica, dunque, continuava come molti strabici ad alternare la vista con uno e con l’altro occhio. In seguito a un problema di stanchezza degli occhi, però, Sue è costretta a vedere una optometrista comportamentale, che le assegna degli esercizi mirati proprio al recupero della visione binoculare, consistenti fondamentalmente nel sottoporre separatamente ai due occhi delle immagini preparate, cosicché il cervello impari a fonderle e a “leggerle” come tridimensionali (sfruttando lo stesso principio, lo stesso trucco del View-Master, insomma).
Come racconta lei stessa nelle lettere inviate a Sacks, la visione con due occhi si rivela al di la della sua immaginazione:
Oggi ho notato che la lampada che pende dal soffitto in cucina ha un aspetto diverso. Sembra occupare uno spazio fra me e il soffitto. Anche i suoi bordi sono più arrotondati. È un effetto lieve, ma rilevabile.
Non ci interessano poi tanto in questa sede tutte le valutazioni neurologiche sulle modalità del recupero di Sue, sulle quali invece insiste a lungo Sacks nel proseguio del testo. Questo è per noi il passaggio sul quale dobbiamo riflettere. Perché è il passaggio dal mondo a due dimensioni, in cui Sue ha sempre vissuto e che rappresenta per lei la sola e unica facies della realtà, e quello a tre dimensioni, in cui invece noi viviamo da sempre e che consideriamo normale.
«Stereo Sue» fa esperienza come novità travolgente di qualcosa che a noi sembra banale: quando le cade l’occhio sul volante e lo vede per la prima volta con entrambi gli occhi, ha l’impressione che esso sia «saltato fuori» dal cruscotto. Ciò che prova è, nelle sue stesse parole, «assolutamente meraviglioso»: «Proprio non avevo idea di che cosa mi stessi perdendo». Continua a registrare lo stupore di fronte agli oggetti della quotidianità, come la forchetta e l’acino d’uva sospeso sulla sua punta, che ora occupano uno spazio distinto da quello del piatto, da quello del tavolo. Ma questa scoperta, questa felicità del vedere, questa continua fonte di meraviglia è tale che, come scrive lei stessa:
Mi piacerebbe prendermi un’intera giornata solo per andarmene in giro a guardare.
Quand’è stata l’ultima volta in cui noi “normali” abbiamo provato qualcosa di simile, un simile trascinante entusiasmo verso l’atto del guardare? Senza pensarci troppo, la risposta più facile e forse statisticamente più azzeccata dovrebbe essere: quando siamo stati innamorati, o anche, semplicemente, quando abbiamo guardato con desiderio.
2. Momenti di una storia dello sguardo erotico
Il regista irlandese Mark Cousins ha dato alle stampe un poderoso volume di più di cinquecento pagine, riccamente illustrato, intitolato Storia dello sguardo (traduzione di B. Alessandro D’Onofrio, Il Saggiatore, 2018). Il succo del contributo offerto dal libro è racchiuso prefettamente nel titolo: lo sguardo non è mai a-storico, è sempre storicamente (e dunque culturalmente) determinato. Ciascun vedente si porta dietro categorie, interessi, interpretazioni, usi e costumi derivanti dalla cultura in cui è nato. Si potrebbe dire, dunque, che l’atto del guardare è, né più né meno, determinato alla nascita al pari della religione o del linguaggio.
Il libro è strutturato per salti temporali secondo una logica che mette a confronto in capitoli successivi varie specifiche dello sguardo: si comincia dai fondamenti del vedere (messa a fuoco, spazio e colore) e del vedere ciò che è prossimo (il contatto visivo madre-figlio, il movimento, il paesaggio, la lettura delle emozioni) per arrivare alle ulteriori complicazioni sociali (e dunque propriamente storiche) del vedere, connesse alle relazioni interpersonali, al design, alla religione, alla scienza, al viaggio, all’arte, fino al sovraccarico di input visivi a cui siamo abituati negli ultimi decenni.
Cousins ci fa riflettere su alcuni aspetti del vedere a cui difficilmente pensiamo (perché, sovente, li diamo per scontati e naturali) e di farlo in maniera divertente e con l’ausilio di un apparato iconografico sensazionale, costituito da centinaia di fotografie e ritratti, vedute d’architettura e riproduzioni di oggetti d’archeologia e di uso quotidiano come anche da riproduzioni di dipinti e affreschi, sculture, fotogrammi cinematografici. Sin dalle prime pagine, in cui è immaginata, 200.000 anni fa, la prima visione sfocata di una bimba della specie Homo sapiens e il suo immediato orientarsi con lo sguardo rivolto in particolare verso la madre, sin da quelle prime pagine Cousins rivela quanto sia strettamente connesso lo sguardo con l’emozione. Proseguendo, vengono toccati gli aspetti materiali del vedere (le interazioni con lo spazio domestico e gli oggetti) e quindi si arriva all’immateriale, allo sguardo astratto, che origina dal desiderio e ha «due corollari, l’astrazione e dio». Desiderio, astrazione e dio: che è come dire che il desiderio è il fondamento dell’aspirazione al divino.
Per addentrarsi nel tema dello sguardo desiderante, Cousins ci mostra, commentandole in sequenza, la statua michelangiolesca del David; Lauren Bacall in un fotogramma di Acque del sud; Leonardo DiCaprio e Claire Danes in Romeo + Juliet di William Shakespeare di Baz Luhrmann; Diana e Atteone di Tiziano; la celebre Déjeuner sur l’herbe di Manet; l’Origine del mondo di Degas; infine – ma a quel punto ci siamo già spinti oltre il desiderio carnale e siamo entrati in pieno nel campo dell’astrazione – un’immagine di corpi di soldati-danzatori da Beau travail di Claire Denis.
Il primo passo è immaginare di seguire lo sguardo (e le emozioni) di una ragazzina adolescente a Firenze l’8 settembre 1504, allorché fu trainata a piazza della Signoria la statua del David di Michelangelo. Quando fu esposta per la prima volta, quella statua in cui l’eroe a sua volta adolescente non ha ancora compiuto l’impresa e dunque semplicemente sta, il pubblico reagì con stupore e con indignazione, furono lanciati sassi contro quel corpo nudo, esibito senza pudore a donne e bambini. La nudità suscita insieme desiderio e paura di quel desiderio. L’adolescente non capisce perché ciò accada, ma è verosimile che impari, che veda coesistere insieme e dunque assuma per sé come endiadi costante: paura e desiderio. Che, insomma, da una parte sia tentata di fissare lo sguardo sui muscoli, sulle curve levigate di quel corpo esposto e ne sia turbata mentre, dall’altra parte, senta quel desiderio come colpevole e degno di condanna.
L’esempio tratto dal film di Luhrmann è ancora più esemplare. Nel fotogramma Romeo vede per la prima volta Giulietta e se ne innamora, ma tra i due è posto un acquario. L’immagine è immediatamente metafora del diaframma che impedisce l’attuazione di un felice amore tra gli amanti. Nella fattispecie della fabula shakespeariana si tratta della rivalità e dell’odio tra le famiglie; ma più in generale, suggerisce Cousins, ogni sguardo del desiderio è scoccato da distante, attraversa la distanza desiderando il contatto, dunque si realizza accompagnato da entusiasmo e paura verso l’altro.
Perché prendere le mosse dalla rappresentazione degli adolescenti? Perché nell’adolescenza avviene la scoperta del desiderio: fino a quel momento la storia visiva dell’individuo si è svolta dentro tutt’altro paradigma, in un clima “innocente” per quanto riguarda il desiderio; i corpi e le emozioni dei bambini sono state ingenue come ingenue vorrebbe mantenerle certi adulti censori (come i fiorentini che lanciano sassi contro l’oscenità del David). Ora esplode il desiderio, ed è contrastato: chi desidera trema. Così come paradossalmente tremava, racconta Cousins, l’attrice Lauren Bacall quando girò la scena in cui è immortalata come un’adolescente sicura di sé e del fascino potente della sua bellezza.
Dopo aver visto il corpo statuario scolpito da Michelangelo; dopo aver visto negli occhi la propria amata (seppur attraverso lo schermo d’un acquario); dopo aver visto il corpo nudo di Diana per Atteone o quelli dipinti da Manet o ancora la vulva della modella in primo piano nel paesaggio di carne dell’Origine del mondo; dopo aver visto ciascuna di queste immagini, ci si chiede, dice Cousins:
Com’è possibile che ci sia permesso di vedere così tanto?, Ci è permesso? e Cos’altro c’è da guardare, dopo aver visto questo? L’adolescente rinascimentale che abbiamo preso in considerazione proverà questo tipo di lussuria, una tra le più potenti sensazioni che sperimenterà in tutta la vita. Il misto di piacere e di brama nello sguardo sessualizzato è tempestoso. Gli aspetti erotici del guardare pongono l’adolescente in un mare in tempesta. Gran parte dell’osservazione racchiude un elemento di attrazione, dunque un potenziale distruttivo. Ma quando l’attrazione diviene compulsiva, lo sguardo può diventare bullismo. L’adolescente lo desidera, ma non vuole perdersi in esso oppure si chiede cosa dica di lui l’esservisi perso. La capacità della lussuria di escludere o distorcere i pensieri è simile a una febbre dello sguardo.
3. Uno sguardo erotico molto attuale
Di questo guardare eccitato che sottintende un’altalena di emozioni contrastanti, di una febbre alta dello sguardo dominato dal desiderio, i possibili esempi letterari sono migliaia, milioni. Perché nella tradizione occidentale dell’amore (e non solo occidentale; e non solo umana, forse) il sentimento passa per gli occhi. Facendo dei salti che forse piacerebbero a Cousins e citando solo due punti cardine: Saffo descrive forse per la prima volta i sintomi della visione della persona amata, la potenza devastante e l’attrazione che mina le certezza di chi ama (tanto che chi invece riesce a mantenere un contegno è «simile a un dio», e oggetto d’invidia); qualcosa di simile è ancora all’opera nell’incontro del giovane Werther con Carlotta, così mirabilmente sezionato nella sua composizione da Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.
Il brano che ho scelto, tuttavia, è speciale per più di un motivo. Innanzitutto perché ne è protagonista proprio un adolescente, un ragazzo di diciassette anni, americano. Poi perché è abbastanza vicino a noi nel tempo (si svolge nel 1957), e dunque appartiene a una società dell’immagine in cui l’esposizione della nudità femminile, l’uso del corpo femminile per suscitare il desiderio maschile (che erano sempre state delle costanti dell’arte) hanno conosciuto una diffusione e un’estensione non possibili in passato, con gli inevitabili effetti di distorsione che ciò comporta. Infine perché è tratto da una delle opere del cosiddetto new journalism, in cui inchiesta e narrazione si intrecciano: ha dunque un valore testimoniale superiore alla pura e semplice finzione letteraria, pur conservando la godibilità di quest’ultima. Non usciamo, propriamente, dal dominio della saggistica, insomma.
Gay Talese dà alle stampe il suo reportage narrativo La donna d’altri nel 1981 (l’edizione italiana, aggiornata nel 2009 e tradotta da Francesco Saba Sardi, è edita da Bur). È un libro che desta scandalo, da subito, perché rappresenta una ricostruzione dell’erotismo negli Stati Uniti d’America dal dopoguerra agli anni Ottanta: dalle riviste erotiche alla pornografia, dalle leggi per la censura delle oscenità alle prime comunità dedite all’amore libero.
Per scrivere il libro Talese visitò di persona molti dei luoghi raccontati, come scrive nell’ultimo capitolo parlando di sé in terza persona: lavorò come direttore di un centro massaggi, trascorse alcuni mesi in un resort per nudisti, partecipò ad alcune orge (sua moglie perdonò le sue infedeltà perché commesse a scopo di studio), raccolse dati e informazioni di prima mano e realizzò un numero incredibile di interviste.
Uno dei personaggi su cui Talese indugia a lungo nel libro è Hugh Hefner, il fondatore di «Playboy», ragazzo frustrato, con un quoziente intellettivo sopra la media, marito fedele almeno fino al conseguimento del successo. Prima di «Playboy», leggiamo in Talese, «pochi uomini in America avevano visto una fotografia a colori di una donna nuda». Eppure nel giro di due anni (dal 1953, anno della prima pubblicazione) le copie mensili tirate erano passate da sessantamila a quattrocentomila. Il segreto? Ogni donna ritratta sulla rivista, in pose ammiccanti e con poco o niente addosso,
Apparteneva a una sorta di specie umana particolare, che esisteva solo negli occhi e nella mente di chi la guardava, offrendo tutto quanto si potesse immaginare: era sempre disponibile a letto, si lasciava dominare completamente, sapeva sempre toccare i punti giusti, e non faceva né diceva nulla che potesse disturbare il momento dell’estasi.
Hefner, in altre parole, assicurava a migliaia di uomini l’accesso a un assortimento di donne che, nella vita reale, non li avrebbero degnati neanche di uno sguardo. Procurava donne giovani a uomini anziani, donne desiderabili a uomini brutti, donne bianche a uomini neri, ninfomani a uomini timidi.
Il libro di Talese è un panorama dei ripetuti e contrastati tentativi di estendere il dominio del visibile. Pubblicare una rivista erotica o un romanzo esplicito come L’amante di Lady Chatterley o proiettare un film come Gola profonda significa spingere più avanti il limite di ciò che è consentito «vedere». Editori, redattori, produttori, registi, distributori, edicolanti, condannati per oscenità si difesero appellandosi al primo emendamento della Costituzione americana che sancisce la libertà di parola e di stampa, contro tutti i divieti, anche quelli della morale. Le vittorie conseguite in nome di quella libertà sacrosanta aggiungono nuove risposte alla domanda che poneva Cousins: «Cos’altro c’è da guardare, dopo aver visto questo?».
Ecco perché è estremamente significativa la prima pagina di La donna d’altri: il modo in cui l’autore decide di dare inizio al suo lungo e articolato discorso ci mostra la rivoluzione del costume in atto e ci dice immediatamente qualcosa sull’attraversamento dello sguardo desiderante che qui stiamo compiendo.
Era completamente nuda, sdraiata bocconi sulla sabbia del deserto, le gambe divaricate, i lunghi capelli che ondeggiavano al vento, la testa all’indietro, gli occhi chiusi. Sembrava perduta in chissà quali pensieri, lontana dal mondo su quella duna spazzata dal vento, […] adorna solo della sua naturale bellezza. Nessun gioiello, nessun fiore tra i capelli; sulla sabbia non c’erano impronte, e nulla che indicasse che giorno fosse o che guastasse la perfezione della fotografia, a parte le dita umide dello studentello diciassettenne che la teneva tra le mani e la guardava con desiderio e smania adolescenziali.
Non c’è che dire, è un incipit irresistibile. Siamo indubbiamente davanti alla stessa scena descritta da Cousins a proposito del David di Michelangelo: un adolescente turbato davanti a un nudo. La modella in questione è Diane Webber; a contemplarla con «smania adolescenziale» è Harold Rubin, che incontreremo più volte nel corso del libro, tra i primi iscritti al primo Playboy Club, imputato in processi per oscenità nonché direttore di un centro massaggi. In questo primo capitolo, però, Harold è il rappresentante di tutti gli sguardi erotici che le pubblicazioni “oscene” hanno attivato e reso possibile negli adolescenti.
Cos’è accaduto al suo sguardo? La tensione che lo innerva si è radicata in uno spazio privato, costruito sull’immaginazione e accomodato sul proibito. Apparentemente sottratto alla socialità, il desiderio “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” ha istituito una propria ritualità differente dalle precedenti e racchiusa entro precisi confini (una cameretta, per esempio). L’atto di chiudersi a chiave con il nudo fotografato, o l’atto di richiudere la rivista a piacere è un addomesticamento della componente paurosa ed estroversa del desiderio. Poter modulare lo sguardo erotico, decidere come e quando concedervisi, declinare l’invito implicito delle fotografie potendo realizzare il solo piacere dell’autoerotismo, sono tutte nuove versioni di antiche situazioni. La dirompenza del desiderio si è riversata nella sua ricorsività. Questo ci descrive Talese quando racconta la cura con cui il giovane Rubin colleziona centinaia di riviste, il fatto che egli sappia richiamare alla mente esattamente in quale numero e a quale pagina si trovi uno scatto particolarmente eccitante (Diane Webber lo attende a pagina 19 della rivista che ha tra le mani, ma altre cinquanta immagini così portentose di lei sono catalogate nella sua collezione), l’indugiare tra le altre fotografie prima di concedersi la visione dell’unica e sola con cui scatenare l’immaginazione e dare il via alla masturbazione: a quel punto ecco che «Harold non doveva fare altro che desiderarla, e lei sarebbe stata sua».
Il nome di questo desiderio, che pure è prodigo di delicatezze («mentre con la sinistra si accarezzava gentilmente in mezzo alle gambe […] con la destra piegava la rivista in modo da evitare il lieve riflesso della lampada sulle pagine patinate»), è Talese stesso a dichiararlo:
Negli ultimi tempi […] Harold Rubin era più distaccato del solito dalla vita della sua città, più sprofondato nelle sue fantasie, soprattutto quando aveva sott’occhio le immagini di una certa donna [cioè Diane Webber] che, doveva ammetterlo, stata diventando un’ossessione.
L’idealizzazione si è frantumata. L’astrazione è diventata ripetizione. Il possesso così implacabilmente irrealizzabile è diventato ossessione.
4. Uno sguardo che reinventa il desiderio
Hans Bellmer (1902-1975, artista poliedrico, scultore, fotografo, illustratore, “adottato” dai surrealisti francesi negli anni Trenta) nel primo dei brevi testi che compongono Anatomia dell’immagine (a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, 2001) mostra come nella reazione al dolore l’essere umano sia istintivamente portato ad agire per sdoppiamento. Così accade esattamente quando, per esempio, una fitta intensa di mal di denti ci costringe a serrare i pugni. Cosa sta a significare quella reazione istintiva? Il dolore non è attenuato, è replicato e quindi, idealmente (o forse sarebbe più corretto dire praticamente) sostituito con un dolore virtuale. Anche un riflesso al dolore, ovvero il gesto apparentemente meno votato all’espressione, è uno spostamento. Con la creazione di un’immagine di dolore, esso è inoltre in grado di liberare un certo piacere. Seguendo lo stesso principio Bellmer intende creare le proprie rappresentazioni.
È curioso (lo è, intendo, dal nostro punto di vista di turisti dello sguardo erotico) che il primo esempio di questi spostamenti concatenati è quello di una ragazzina (dunque ancora un’adolescente) seduta, con un braccio disteso sul tavolo e il capo reclinato verso quel braccio. Nella disposizione del suo corpo Bellmer individua una certa stanchezza serale e l’occultamento di un conflitto interiore legato alla proibizione del piacere sessuale.
Le singole parti di questa immagine, una volta riconosciute come interrelate, vengono da Bellmer riconnesse sulla base di un nuovo nesso reale-virtuale («percezione pura» e «rappresentazione pura», così come «eccitazione reale» ed «eccitazione virtuale»). La confusione, la vertigine, lo choc che questa compresenza determina è rivelatorio della costante sovrapposizione, appunto, di percezione e rappresentazione. Bellmer aggiunge un ulteriore tassello, ovvero il piacere derivante dalla reciprocità dei nessi tra reale e virtuale (come avviene nel sogno, in cui ogni oggetto può valere per sé e per il proprio contrario, in senso proprio o in quanto simbolo). Infine, egli stabilisce una più circostanziata definizione di questa contrapposizione, in termini di «scissione dell’Io che subisce un’eccitazione e dell’Io che crea un’eccitazione» (corsivo dell’autore).
Sdoppiamento, simultaneità e sostituzione: ecco le chiavi dell’invenzione visuale di Bellmer e in particolare delle tante rielaborazioni della sua più famosa opera, la Puppe o Poupée, la Bambola erotica multiforme, insieme disturbante ed attraente, composta di duplicazioni di arti e frammenti di corpi femminili. Come dice altrove Bellmer stesso, la Poupée è «una ragazza artificiale dalle possibilità anatomiche capaci di rifisiologizzare le vertigini della passione, fino a inventare desideri». Avviciniamoci a quella creazione con l’esperimento visivo che l’autore ci propone in Anatomia dell’immagine.
Posate perpendicolarmente uno specchio senza cornice sulla fotografia di un nudo e, mantenendo sempre un angolo di novanta gradi, fatelo avanzare e girare in modo che le metà simmetriche dell’insieme visibile rimpiccioliscano o ingrandiscano secondo un’evoluzione lenta e regolare. L’insieme si produce incessantemente sotto forma di bolle, di pelli elastiche che, gonfiandosi, escono dalla fessura più che altro teorica dell’asse di simmetria; oppure, se eseguite un movimento inverso, l’immagine fatalmente rimpicciolisce, le sue metà colano l’una nell’altra, come colla tiepida risucchiata da un nulla irresistibile, come la candela posata su una stufa calda, che si accorcia perché si liquefà in silenzio a partire dalla base, che è anche quella del suo doppio riflesso nella cera fusa.
[…] E nel caso dell’entrata in scena dello specchio e del suo movimento, come del frustino che rianima la trottola, o del riflesso espressivo dell’organismo, coglieremo una stessa legge, che si riassume in questa antica formula:
l’opposizione è necessaria affinché le cose siano e si formi una terza realtà
Ciò che presiede alla creazione artistica di Bellmer è lo stesso artificio che è all’opera nello sguardo in generale e in particolare nello sguardo desiderante, erotico: le carni della persona desiderata sono dolorosamente mescolate, confuse in un’astrazione che è il desiderio stesso, privo di centro e di equilibrio, confuso perché in balia del suo impeto travolgente. Esso non è suscitato da una singola parte, non dall’intero ma da un continuo andare e riandare di frammenti di desiderio che scompongono l’amato e lo ricompongono (rappresentano) in un organismo nuovo. Questo principio è, insieme, un’astrazione verso l’ideale e un’esaltazione della sua organicità, della sua materialità. Il desiderato è creato in una nuova forma (inattingibile, e perciò dolorosa) da e per gli occhi del desiderante: in qualche misura «l’immagine della donna desiderata [sarebbe] predeterminata dall’immagine dell’uomo che desidera». Ancora: «il desiderio, quanto all’intensità delle sue immagini, non prende le mosse da un insieme percettivo, bensì dal particolare». Ottavio Fatica, nel breve saggio che accompagna Anatomia dell’immagine, osserva che «Immagini e percezioni coscienti costituiscono una minima parte degli elementi in gioco nella sfera visiva».
Il culmine della teorizzazione di questo sguardo, che reinventa il corpo dell’amato perché incapace di governarsi e venire a patti con la residuale materialità dell’altro, è una lettera d’amore, di questo nuovo amore totalizzante (cioè insieme analitico e sintetico, integrante e disintegrante della corporeità altrui), a tratti persino grottesco:
«Mia cara, la passione che mettevi ieri sera a scomporti meticolosamente davanti a me, la tua confusione, non avrebbero potuto riscuotere maggior successo, fino al punto di ignorare – ed è solo un dettaglio – che il gioco di pazienza dei cento aliossi del tuo piede spiccava a meraviglia sul velluto del tuo intestino.
[…]
«Non appena sarò immobilizzato sotto la gonna a pieghe di tutte le tue dita, stanco di sciogliere le ghirlande di cui hai circondato la sonnolenza del tuo frutto mai nato, tu soffierai in me il tuo profumo e la tua febbre, perché all’interno del tuo sesso esca in piena luce il mio…».
In questa deformazione c’è indubbiamente una componente di violenza (una violenza che ingenera turbamento e paura). Ma d’altra parte «un oggetto, per esempio un piede femminile è reale solo se il desiderio non lo prende fatalmente per un piede».
La felicità dello sguardo erotico, così sovraccaricato, si è mutata in una congerie destabilizzante (destrutturante letteralmente, anzi plasticamente) di eros e paura. L’oggetto del desiderio è insieme percepito come oggetto di orrore. È uno sguardo che ha masticato e digerito l’oggetto e ne ricrea dalle viscere le fattezze scarnificate e riassemblate. A piacimento. A piacere.
Immaginiamo di trovarci davanti a una gif animata che mostri in morphing la transizione dalle forme eleganti e levigate del David di Michelangelo a quelle esposte in posa di Diane Webber e quindi alle carni tremolanti di una Poupée di Bellmer. Ci disturberebbe non poco, perché scuoterebbe le stesse corde, in una variazione di intensità che va dalla timida reazione della prima occhiata intrigata e scandalizzata fino al ferino fissare di un’eccitazione esaltata.
In copertina: Hans Bellmer, La Poupée