È stato forse Silvio Berlusconi dalla villa di Arcore nel video L’Italia è il paese che amo, annunciando la sua discesa in politica nel 1994, a lanciare la tipologia di collegamento “da casa”: alle sue spalle una libreria, qualche soprammobile e delle rassicuranti fotografie di famiglia in cornice. Altri ne sarebbero seguiti negli anni, con quadri alla parete, scudetti di calcio e ancora foto e libri. Fino ad allora eravamo stati abituati a collegamenti più istituzionali, come quelli del presidente della Repubblica alla vigilia di Capodanno, con lo sfondo della bandiera italiana, oppure ad alcune interviste che coglievano scrittori o attori nell’intimità domestica o, nel caso di artisti, nel loro atelier.
Da quel 1994, con Silvio a mezzo busto, con quei libri alle spalle che molti si chiedevano se avesse mai letto, la televisione è entrata in molte altre case grazie al format dei reality stranieri ma riadattati in salsa nostrana, che le reti dello stesso Berlusconi hanno diffuso: dalla casa ‘fittizia’ del Grande fratello, a quelle di persone comuni, affidate alle mani di impietosi decoratori d’interni per mutare i loro squallidi habitat in dimore più ‘contemporanee’ (pur se talvolta grottesche e stridenti con le persone che avrebbero dovuto poi viverci), fino alle case degli accumulatori seriali, che assistenti sociali e psicologi provano a riportare sulla retta via. Immagini di estremo disagio, cucine impraticabili col cibo ormai incrostato sui piatti quasi fossero Tableaux pièges di Daniel Spoerri, e stanze ormai talmente piene di oggetti misti a spazzatura da non poter essere nemmeno attraversate, tanto da far pensare di trovarsi di fronte a certe installazioni di Thomas Hirschhorn, dove mucchi e grovigli di fogli, cavi, lattine, divani, sedie, cartoni sono metafore della sovrabbondanza d’informazioni e di prodotti che ogni giorno ci vengono propinati. Tuttavia, mentre l’artista svizzero tende a dare un senso al caos, a realizzare una forma di ‘estetica della distruzione’, nelle case degli accumulatori seriali non si compie quello scatto verso la ‘redenzione’; restano così allo stato informe, sollecitando solo il nostro istinto di curiosità e di gusto perverso nel calarsi in una patologia molto contemporanea, e nell’entrare impudicamente in quelle desolazioni esistenziali, che proprio gli oggetti ci raccontano. E se in alcune trasmissioni le situazioni sono finte, costruite, e ogni azione segue un copione ben scritto, quel copione è comunque verosimile ed il corredo di oggetti, posto ben in vista, ci narra la storia del personaggio “in onda”, tanto che perfino la messa in scena fake acquista un suo significato. Non era forse Aristotele nella Poetica (XXIV, 25) a insegnarci che «si debbono preferire le cose impossibili ma credibili alle possibili incredibili»?

Con la pandemia, l’intensificarsi vorticoso di chat su varie piattaforme, ci ha portato a presentarci ai colleghi di lavoro o a studenti nella stessa postazione di Silvio, riservando magari a persone care o ad amici la visione di angoli diversi della nostra casa, per collegamenti più rilassati e meno convenzionali. La posa a mezzo busto dietro la scrivania assunta per le chat lavorative ha stimolato anche la realizzazione di esilaranti video che circolavano nel web, come quello di un uomo vestito di tutto punto con giacca e cravatta, che si alza di scatto nel corso di una riunione di lavoro in chat, per rincorrere un figlioletto chiassoso, svelando così di essere, dalla vita in giù, in boxer; oppure quello di un signore stravaccato sul divano a bere birra, ma pronto a indossare un bolerino prefatto tipo ‘cartamodello’ per un collegamento on line, piazzandosi al volo di fronte a un fondale più idoneo.
Il lockdown ci ha inoltre permesso di accedere alle case di medici, di politici, di giornalisti, di figure che eravamo abituati a vedere quasi soltanto ospiti negli studi televisivi. Siamo entrati anche nelle abitazioni di cantanti, com’è avvenuto in questi primi giorni di maggio per l’iniziativa Ma il cielo è sempre più blu. All stars (i cui proventi sono destinati alla Croce rossa), dove celebri nomi del panorama canoro italiano, di generazioni diverse, si sono esibiti in una versione corale della melodia di Rino Gaetano dai propri separati habitat della quarantena. Il video si apre con Giusy Ferreri che ha tra le mani Il profeta diKahlil Gibran e alle sue spalle dell’edera che pende da un soffitto in legno chiaro; si susseguono poi, in ordine sparso, studi di registrazione casalinghi per Nek o Eros Ramazzotti, il giardino per Gianni Morandi con la vanga in mano, o quello di Max Pezzali seduto però di fronte alla sua Harley Davidson; un angolo di libreria, intellettuale e rassicurante, con un soprammobile in porcellana e il mappamondo, è il fondale scelto da Fiorella Mannoia, libri e dischi per Irene Grandi, spregiudicata sul palco ma signora bene fiorentina nel suo salotto; e ancora, libri e foto incorniciate, affastellate con soprammobili in un disordine ‘affettuoso’ e ciarliero per Fiorello; un’opera di Arnaldo Pomodoro alla parete, tra due finestre sul verde, sono lo sfondo di Ornella Vanoni. Cornici dorate, ma anche vasi design, soprammobili stravaganti e un libro di Helmut Newton, evocano il percorso di Emma Marrone da concorrente di «Amici» a cantante affermata, mentre Gigi D’Alessio ha alle spalle foto di suoi concerti e di famiglia, alternate a gadget di dubbio gusto; c’è poi Loredana Bertè con un manichino, un vasetto con incensi e dei trucchi. Non si sottrae alla situazione domestica neppure il rapper Marracash, in un angolo di appartamento che suggerisce un arredo sobrio e design, con pure gli attrezzi da palestra, mentre Lodo Guenzi, frontman dello Stato Sociale, sembra l’emblema del ragazzo di buona famiglia andato a trascorrere la quarantena nella casa dei genitori, nel salotto con mobili e dipinti antichi e varia argenteria. Solo pochi cantanti si esibiscono in spazi indefiniti (Fabri Fibra forse nella sua terrazza urbana, di notte), con muri di pietra o sfondi finti di città con grattacieli.

Questo modo di “andare in onda” – già ben familiare a chi è del mestiere, a chi già usa i social, pubblica video su Youtube o ha propri blog – ha trascinato in una vorticosa “danza selfica”, per usare l’espressione di Joan Fontcuberta nella Furia delle immagini (2016) anche i più schivi a questa pratica, alimentandone il narcisismo. Al punto che un conoscente mi ha confessato di mettere sempre, prima di far lezione on line, due gocce di profumo, quasi fosse Romy Schneider nell’episodio di Boccaccio 70 (1962), alla quale Luchino Visconti chiedeva di profumarsi di Chanel sul set, in accordo con gli abiti che lei indossava per il ruolo di una donna dell’alta società, tradita dal marito con le prostitute. Pare che il regista volesse anche i cassetti del comò riempiti di biancheria firmata, accessori che non si sarebbero visti, ma che, al pari del profumo, avrebbero contribuito a calare il personaggio nel contesto e a rendere più ‘vera’ l’atmosfera di quella camera da letto claustrofobica, nella quale Romy avrebbe scelto, per salvare il suo ménage, di concedersi a pagamento al suo coniuge.
Il nostro dover apparire in questi mesi costantemente di fronte a schermi, se da un lato ha sviluppato una curiosità sulle “vite degli altri”, dall’altro ha dunque condizionato la riflessione su quale “io” mettere in scena, perché l’impietoso schermo del computer blocca, registra, rinvia agli altri un’immagine di noi stessi totalmente priva di quelle sfumature che il confronto diretto coi nostri simili permetterebbe. Ciò avviene soprattutto se non siamo avvezzi alla “danza selfica” prima citata, che ci aiuterebbe a creare una credibile immagine, pur se artefatta, della nostra persona. Ed ecco allora che gli oggetti di cui ci circondiamo ci vengono in aiuto nell’allestire un possibile teatrino.
Sul ruolo degli oggetti rivelatori e testimoni delle personalità di chi se ne circonda, viene alla mente il lavoro di Sophie Calle, L’hotel (1981)dove l’artista francese, dopo essersi fatta assumere per tre settimane in un albergo come donna delle pulizie, trascorre parte del tempo fotografando, all’insaputa degli ospiti che alloggiano nelle camere, i loro effetti personali. Gli esiti di quell’indagine sono – come sempre nei lavori della Calle – l’unione e il montaggio di scatti fotografici e di testi di commento, nei quali l’artista riflette sui campionari di oggetti trovati e talvolta dimenticati, disposti negli spazi in maniera sempre diversa, anche nel caso siano d’uso molto comune, quali pantofole, orologi, pettini, tazzine da caffé, valigie.

Sophie Calle svolge inchieste, entra nelle esistenze altrui. Ma proprio il tema dell’indagine, ci riporta al magistrale film di Alfred Hitchcock La finestra sul cortile (Rear window, 1954) – dove James Stewart/Jeff, fotoreporter con la gamba ingessata, passa il tempo a frugare nelle vite del condominio di fronte, fino a smascherare, con la complicità della sua fidanzata Grace Kelly/Lisa, un assassinio. Rear window ha fatto scuola nel trattare la finestra come forma simbolica del rapporto col mondo, basti ricordare film quali Non desiderare la donna d’altri di Krzysztof Kiéślowsky, 1988o La finestra di fronte di Ferzan Özpeteck, 2003. Oppure la storia secondaria che si svolge all’interno del film American Beauty (1999) di Sam Mendes, dove, parallelamente alla vicenda che coinvolge il protagonista Lester, interpretato da Kevin Spacey, si inserisce quella dell’amore tra Jane, figlia di Lester, e Ricky, il loro vicino, dando luogo, per descrivere la solitudine dei due adolescenti, a un gioco di raddoppiamento tra finestra e telecamera digitale. La telecamera (con cui Ricky insegue ovunque la bellezza, anche nella danza di un sacchetto di plastica mosso dal vento) è infatti l’unica forma che permette al ragazzo di avvicinarsi veramente all’amata, mentre la finestra, quella vera, crea inganno poiché, nella visione incompleta dello spazio che offre, porta il padre di Ricky a interpretare in maniera errata i rapporti tra il proprio figlio e il protagonista.
Il voyeurismo consiste però nel guardare senza essere visti e si pratica quindi in senso unilaterale: un senso che Marcel Duchamp, con il congegno di Étant donnés (1946-1966) impone allo spettatore, costringendolo a ‘vedere’ dal buco della serratura. Tuttavia nel clima del lockdown appena trascorso, sorvegliati da telecamere e droni appena varcata la soglia di casa, la nostra condizione ‘dentro le case’ ha legittimato una forma di voyeurismo a ‘doppio senso’ di marcia: immobilizzati come lo era Jeff in Rear window, siamo infatti stati portati, volenti o nolenti, a intrattenere rapporti col mondo proprio attraverso la “finestra” dello schermo del nostro computer o del nostro smartphone. Certo, esiste la possibilità di tenere la telecamera chiusa nei collegamenti, ma la nostra presenza resta comunque dichiarata e, a meno di non essere hacker, non possiamo scomparire del tutto. Sulla finestra come dispositivo ottico è stato d’altronde scritto molto, come pure sulle relazioni strette tra finestra e schermo, e tra schermo e specchio – tra cui un intero numero della «Rivista di Estetica» (n.55/2014) intitolato appunto Schermi – e numerose sono le traduzioni visuali: dal film Dottor Jeckyl e Mister Hyde di Rouben Mamoulian (1931), adattamento del racconto dello scozzese Robert Louis Stevenson (1886), fino a episodi della serie Black mirror quali Shut up and dance, diffuso su Netflix nel 2016.
Tuttavia, se in questo scenario l’ “Io” resta ancor più difficile da definire – «perché l’Io è un Altro» come scriveva il giovane Rimbaud al suo professore Georges Izambard nel 1871 poi all’amico Paul Demeny – ed anzi quell’ ‘io’ risulta ancor più dissolto nell’era del display, gli oggetti invece ancora resistono nel loro potere, nella loro capacità di essere «estensione dello stato d’animo», per dirla con Orhan Pamuk nel saggio Romanzieri ingenui e sentimentali (2012), riguardo al ruolo che assegnava ad essi Gustave Flaubert nei suoi romanzi. Ben ce lo indica anche Jean-Luc Godard in un geniale omaggio al cinema di Hitchcock, in Histoire(s) du cinéma): «Abbiamo dimenticato / perché Joan Fontaine / si sporga sul ciglio della scogliera / e cosa Joel McCrea andasse mai a fare / in Olanda / abbiamo dimenticato / su cosa / Montgomery Clift mantenga / un eterno silenzio / e perché Janet Leigh / si fermi al Bates Motel/ e perché Teresa Wright / sia sempre e ancora innamorata / di zio Charlie / di cosa Henry Fonda / non sia / colpevole / e perché esattamente / il governo americano / ingaggi Ingrid Bergman / ma ci ricordiamo / di una borsetta […] ma ci ricordiamo di un bicchiere di latte / delle pale di un mulino / di una spazzola per capelli / ma / ci ricordiamo / di una fila di bottiglie / di un paio di occhiali / di uno spartito musicale / di un mazzo di chiavi / perché con questi / e attraverso questi / Alfred Hitchcock riuscì / là dove fallirono / Alessandro, Giulio Cesare, / Napoleone / avere il controllo dell’universo / forse / diecimila persone / non hanno dimenticato / la mela di Cézanne / ma sono un miliardo / gli spettatori / che si ricorderanno / l’accendino / di Delitto per un delitto» (Godard 1998, IV, pp. 78-92).
Quest’analisi avrebbe poi ispirato la concezione della mostra Hitchcock et l’art. Coïncidences fatales, curata nel 2001 da Guy Cogeval e Dominique Païni al Centre Pompidou, nella quale lo spettatore era introdotto all’inizio del percorso espositivo in una sala completamente buia, dove, all’interno di bacheche di vetro risplendevano, illuminati, singoli oggetti, ciascuno riferito a un film di Hitchcock – un paio di forbici, un reggiseno, un bicchiere ecc… – prima che le sale successive svelassero le forti assonanze tra l’ispirazione del regista e l’arte, i suoi debiti verso la cultura figurativa del passato e l’influenza da lui esercitata su quella dei nostri anni, da Cindy Sherman a Gregory Crewdson.
Così, seguendo Godard, Cogeval e Païni, in una mostra su questa pandemia basterebbero, nelle teche illuminate, un respiratore, una mascherina e un paio di guanti di gomma, testimoni simbolici di un momento assurdo e, nel caso dei guanti, rifiuto difficile da riciclare che già figura nelle immagini circolanti sulla stampa e sui social, sparso sul suolo di luoghi e paesi diversi.
Quanto ai collegamenti on line, quelli non rimarranno invece limitati al lockdown poiché, tristemente, molti già li indicano come forma di comunicazione e perfino di svolgimento di didattica del futuro. In fin dei conti, Vilém Flusser, nel 1985 (Immagini, Fazi , Roma 2009, p. 223) aveva preconizzato un mondo di uomini che «ognuno per sé, in celle, giocheranno con i polpastrelli sulle tastiere, guarderanno fissi piccolissimi schermi, riceveranno immagini, le modificheranno e le trasmetteranno»; un mondo, molto vicino allo scenario odierno, nel quale «diventerà perciò senza senso, da un punto di vista funzionale, voler differenziare tra intelligenze ‘naturali’ e ‘artificiali’».