Dialogo con un fantasma e l’apparizione dell’inconsapevole oca

In occasione del “compleanno” di W.G. Sebald, nato a Wertach in Baviera il 18 maggio 1944, riproduciamo – grazie alla gentilezza di autore ed editore – la prefazione all’edizione italiana del reader curato su di lui da Lynne Sharon Schwartz, Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald, uscito negli Stati Uniti nel 2007 e tradotto da Chiara Stangalino per Treccani nel maggio del 2019 (pp. 161, € 17). Ne è autore Filippo Tuena: cioè uno dei nostri autori che da più tempo, e con più passione, ha nutrito la propria ispirazione, anche, col modello di Sebald. Nel volume sono presenti saggi sull’autore di Austerlitz, e conversazioni con lui, un po’ sul modello degli storici Cahiers de l’Herne (che in Italia ha figliato una rivista del calibro di «Riga»): di scrittori e saggisti come Tim Parks, Eleanor Wachtel, Carole Angier, Michael Silverblatt, Michael Hoffmann, Joseph Cuomo, Ruth Franklin, Charles Simic e Arthur Lubow. Una minima porzione del testo di Tuena era stata anticipata, all’uscita del libro, da «Le parole e le cose2»; qui ne sono omessi, invece, solo i pochi passi da lui dedicati a presentare, nello specifico, i contributi inclusi nel volume; ma la sostanza del testo come si vede è autonoma dai suoi uffici paratestuali, e squisitamente tuenesca infatti, nel suo insediarsi fra memoria soggettiva e «memoria del mondo». Di quel mondo dentro il mondo, cioè, che è l’opera di Sebald.

A.C.

1.

Una buona metà dei testi qui raccolti è stata redatta e pubblicata o trasmessa via radio prima del 14 dicembre 2001, data in cui Winfried Georg Sebald perì in un incidente stradale dovuto, pare, a un mancamento mentre guidava la sua auto.

L’altra metà dei contributi è stata resa nota in una data successiva a quell’evento, certamente sull’onda dello sgomento, e forse per questo gli autori – giornalisti, scrittori, critici – che hanno raccolto gli interventi di Sebald o commentato la sua opera sembrano tutti intrattenere un’impossibile conversazione con un morto, con uno spirito tornato dall’oltretomba anche se, almeno le trascrizioni di interviste, dovrebbero sottolineare l’hic et nunc del testo, il suo Dasein (questo è quel che è ac-caduto quel giorno e non quel che proviamo oggi). Ma la consuetudine con la morte che rende i libri di Sebald così dolenti travalica la pagina scritta e nonostante la piacevolissima ars affabulatoria dello scrittore si ripercuota in quelle conversazioni, sembra davvero che quegli incontri siano condotti consapevolmente sul limite estremo, sull’orlo dell’abisso. Alcuni intervistatori sono in grado di svelare i misteri sebaldiani, altri sottolineano con la devastante incompletezza della scrittura quel che non sono riusciti a recuperare del pervicace e ossessivo sistema narrativo di Sebald ma tutti sembrano davvero penetrare le nascoste vene della superficie della terra e giungere agli Inferi dove soggiornano, ignare del presente e smemorate del passato, le anime dei defunti. E la figura di Sebald emerge finalmente all’interno del paesaggio oltretombale nel quale hanno agito i personaggi dei suoi libri; finalmente congruente con l’animo ombratile che li contraddistingue tutti, autore e personaggi.

Ed è in quest’atmosfera che il lettore si trova ad assistere al colloquio con Sebald, quasi rispettando le regole dell’oltretomba omerico. Il defunto ignora quanto accade nel mondo sovrastante; le sue considerazioni non riguardano il presente che ci appartiene e rimangono circoscritte al passato che lentamente e inesorabilmente svanisce salvo per quei lacerti – argomento e sostanza dei suoi libri – che hanno superato la nebbia della dimenticanza e si sono trasformati in pietre angolari di un edificio solidissimo fatto di scrittura, immagini e memoria, poiché tutto in queste pagine rimanda a un tempo trascorso che si vuole riportare in vita attraverso il grimaldello dello stile.

S’è detto della morte violenta di Winfried Georg Sebald, ma si dovrebbe altresì dire della persistenza di W.G. Sebald, ovvero di come la maschera dietro la quale scriveva i suoi libri sopravviva all’uomo che la calzava. La verità è che noi italiani non riusciamo a liberarci dall’idea che W.G. Sebald sia uno scrittore quasi completamente postumo.

In Italia esordì da Bompiani, nelle belle traduzioni di Gabriella Rovagnati, con Gli anelli di Saturno nell’ottobre nel 1998, già preceduto da una certa notorietà internazionale. Ammetto che quella prima edizione mi sfuggì. M’imbattei in lui circa un anno dopo, ai primi del 1999, quando ancora Bompiani pubblicò in una sciatta edizione Gli emigrati, un tascabile con sovraccopertina segnato da un singolare incidente tipografico, una sorta di refuso macroscopico (che a detta di alcuni comportò il passaggio di editore da Bompiani ad Adelphi).

Se sulla sovraccopertina campeggia il titolo Gli emigrati,traduzione corretta dell’originale Die Ausgewanderten, sulla coperta del libro, in incongruente diversità, appare un imprevisto Gli emigranti, dove l’inserimento di quella “n” sfalsa completamente il significato del titolo e di conseguenza anche delle vicende che sono narrate nel libro. Dunque, il refuso non suggerisce l’esperienza di persone che si sono trasferite altrove e che lì hanno germogliato o si sono estinte lasciando tracce più o meno evidenti o significative del loro percorso terreno, ma con quel titolo il libro sembrerebbe avere per argomento coloro che “stanno emigrando”, che ancora non hanno raggiunto il loro luogo di destinazione; che sono in corso di trasferimento e non possono, per quel motivo, mettere radici, costrette come sono all’andare. Le quattro storie che compongono il volume invece parlano dello struggimento di personaggi sradicati, altrove disposti, quasi come fossero cadaveri ancora in vita e relegati in terra straniera, abbandonati in un luogo altro, in contatto e in contrasto col nuovo paesaggio che li avvolge e li imprigiona e ne stravolge la natura. E quando avviene che sia concesso un ritorno in patria questo si trasforma davvero in un pellegrinaggio lugubre che termina con una cerimonia funebre.

Per quel che mi riguarda è con questo libro che avvenne il colpo di fulmine. Terminata la lettura venni preso da un’insolita brama e corsi ai ripari acquistando un volumetto tascabile de Gli anelli di Saturno pubblicato nel maggio 2001 e, dopo averlo letto, per desiderio di condividere un’emozione fortissima, subito regalai la mia copia a un amico poeta, avendo trovato in una bancarella la prima edizione rilegata del libro, vezzo – il possedere una prima edizione – che mi sembrava doveroso e compatibile con l’ammirazione che provavo per l’autore.

Austerlitz, per contro, uscì in Italia, primo volume adelphiano, per l’altrettanto bella traduzione di Ada Vigliani – che avrebbe poi curato tutti i testi a venire – nel maggio del 2002; appena sei mesi dopo l’uscita del libro in Germania (6 novembre 2001) ma sette mesi dopo la morte dello scrittore; in questo senso il destino di Sebald parve compiersi finalmente, aderendo all’immagine che di sé stava costruendo: quella di uno spirito volatile immerso nell’inappartenenza e che negli anni a venire avrebbe distillato apparizioni non dissimili a quelle del fantasma di Amleto a ogni uscita dei suoi testi dove la sua figura si mostrava e si nascondeva sempre dietro una narrazione pseudo autobiografica[1].

Il fatto che solo due testi siano stati pubblicati in Italia con Sebald in vita, ha fatto sì che a ogni nuova uscita, l’inquietante immagine di un flâneur dell’oltretomba abbia sempre più preso piede, sino a radicarsi indissolubilmente con la sua scrittura. E dunque, un po’ come i suoi personaggi “emigrati” anche W.G. Sebald percorre terre estreme e inospitali ogni volta che i suoi testi – che provengono anch’essi da quell’oltretomba – vedono la luce uscendo dall’oblio dell’inedito. 

Non tutti i libri usciti a suo nome sono stati pensati da Sebald; in alcuni casi hanno goduto di una curatela redazionale che ha scelto titoli, brani, collocazioni; e libri come questo, formati di saggi e conversazioni coprono lacune sentite e ovviamente le coprono in maniera limitata ma concedono al lettore un congruo numero di parole di Sebald su cui ragionare. Questo senso di mancanza, di assenza dolorosa si trasforma in una spasmodica ricerca di notizie, di parole che provengono da quest’oltretomba e che riassestano i testi incompiuti, producendo qualcosa di simile alla Creatura di Frankenstein: un Sebald ricostruito attraverso le testimonianze e i frammenti. Del resto i contributi verbali o letti dallo scrittore hanno il nitore della sua pagina scritta e le interviste radiofoniche o filmate finiscono per trasformare in narrazione la genesi dei suoi libri, le sue idiosincrasie, le sue passioni. Confesso che Sebald che argomenta di sé è altrettanto avvicente del Sebald scrittore.

Del resto non dovrebbe sfuggire la qualifica di “emigrato” dello stesso Sebald che trasferitosi in Inghilterra per insegnare letteratura non riesce a liberarsi delle radici linguistiche e nelle sue pagine spesso affronta la questione dello scrivere nella lingua madre o in quella appresa (così come accade a Conrad o a Nabokov, che ne Gli emigrati fa una breve comparsata come cacciatore di farfalle) concludendo che gli risulta difficilissimo scrivere in inglese, quasi impossibile come è cambiare pelle o memoria. E qui torna alla mente la splendida scena di Austerlitz, dove improvvisamente, attraverso il semplice esprimersi con una frase imparata a pappagallo nella sua lingua natale ma dimenticata, il protagonista si presenta alla sua antica bambinaia ritrovata a Praga, e grazie alle conversazioni con la donna, prima in francese e poi in ceco, la lingua dell’infanzia, appresa e ascoltata sino ai quattro anni e poi mai più frequentata, riemerge e con lei i ricordi e l’identità si riappropriano dell’emigrato e torna intera e fluente la conoscenza e la memoria del proprio passato.

2.

Quid sirenes cantare sint solitæ? «Cosa cantano di solito le sirene?» Per loro abitudine, per loro piacere che cosa sussurrano all’apparire dei marinai? Fu l’imperatore Tiberio, esule a Capri, a così breve distanza dagli scogli delle sirene, a sollevare la questione.

Diversi secoli dopo, in altri volumi, con altre voci, uno degli scrittori-feticcio di Sebald, uno dei tanti che sembrano destinati a prestare voce e pensieri all’autore tedesco tornò a ragionare sulla questione posta da Tiberio. What song the Syrens sang, or what name Achilles assumed when he hid himself among women, though puzzling questions, are not beyond all conjectured. «Cosa cantavano le sirene, o quale nome Achille assunse quando si nascose tra le donne, sono queste domande bizzarre ma non al di là di ogni soluzione».

A riprendere la questione è sir Thomas Browne, nel quinto capitolo del suo libello Hydriotaphia and The Garden of Cyrus pubblicato nel 1658, dove analizza alcune urne cinerarie ritrovate a Norfolk e s’interroga sulla vicenda terrene dei corpi e di quel che adesso ha la consistenza della cenere e che invece furono corpi che ebbero un nome e una storia e sa che non potrà arrivare a soddisfare la sua curiosità al contrario di quel che può accadere quando i quesiti riguardano personaggi del mito e possono essere più facilmente risolvibili.

Sebald non si pone astrusi quesiti mitologici né cerca risposte impossibili come la vera identità delle ceneri di antichi sudditi di Adriano. Ha un campo d’indagine più ristretto che forse ha il suo punto estremo proprio in sir Thomas Browne che apre Gli anelli di Saturno e lì ipotizza che potrebbe essere uno dei medici ritratti nella rembrandtiana Lezione di anatomia.

Quasi vampirizzata, quest’ossessione del dottor Browne – trovare i versi cantati dalle sirene o il nome femminile di Achille o l’appartenenza delle ceneri di urne romane – porta a ragionare sull’origine delle cose, sul nome del colpevole, sulle circostanze dei mutamenti, delle singolari coincidente che hanno determinato le vite dei personaggi che affollano i libri di Sebald.

La stessa frase di Browne compare come epigrafe del racconto di Poe, I delitti della Rue Morgue (originariamente Poe aveva ambientato il racconto in una rue Trianon-Bas, entrambe strade che non avrei mai smesso di cercare a Parigi se alla fine non mi fossi convinto che esistevano soltanto nella fantasia dell’autore), dove ha il compito di sottolineare come la stringente speculazione dell’investigatore Dupin possa risolvere casi ritenuti impossibili. Anche Sebald è un investigatore che risolve casi per una via indiziaria così stringente che sembra assumere il medesimo peso delle prove dirette o storiche anche se l’indeterminatezza che è però probatoria domina la scena delle indagini. […]

L’intervista di Michael Silverblatt inizia con un raggelante «no». «Lei è stato influenzato dalla poesia tedesca?» «No, no, dalla poesia tedesca proprio no». Di solito dopo un esordio di questo tenore l’intervistatore si abbatte, ammette la sua insipienza e si rifugia nell’ovvio. Silverblatt ha il coraggio d’insistere e azzarda, poco dopo, un’altra domanda rischiosa a proposito del debito che Sebald sembra mostrare per Thomas Bernhard. In questo caso l’azzardo funziona e Sebald non ha difficoltà ad ammetterlo: «Sì, sono sempre stato tentato di dichiarare apertamente, fin da subito, il mio grande debito di gratitudine verso Thomas Bernhard». Sappiamo, grazie a un breve ricordo che compare nell’edizione inglese di Camposanto che anche Bruce Chatwin ha qualche responsabilità nello sviluppo artistico di Sebald. A questi due che sembrano essere alcuni degli autori contemporanei più vicini, va aggiunto, almeno tra quelli noti al lettore italiano, Jean Améry che, per coincidenza, è un altro nome de plume, ovvero qualcuno che scrive di sé cercando di prendere le distanze da sé. A parte considereremo il rapporto con Robert Walser, il camminatore per eccellenza, colui le cui storie e la cui vicenda oscillano tra la massima libertà della follia e la spietata costrizione della ragione.

Citati o meno, discussi o meno questi sono tutti autori che cominceremo a rileggere sub specie Sebaldi. Questi e quelli che compaiono di sfuggita nei suoi testi e ci hanno incuriosito perché hanno incuriosito Sebald. Alla fine è questo che accade: si presta attenzione ai suggerimenti siano essi di percorsi, viaggi, peregrinazioni che di artisti da seguire o di scrittori da leggere.

Ricordo il momento di grande soddisfazione quando, leggendo Storia naturale della distruzione,carpii la citazione di un libro sulla Germania nazista che Sebald ricordava come irrinunciabile: il diario di Friedrich Reck-Malleckzewen. In Italia era uscito anni addietro da Rusconi, tradotto da Quirino Principe e ormai fuori catalogo. Corsi alla Braidense e recuperai quel volume degli anni Settanta. Mi trovai di fronte alla devastante esperienza di un aristocratico che osservava l’orrenda parabola del nazismo sino alla morte. Lo lessi in poche ore senza mai alzarmi dal posto, già sicuro di poterlo ripubblicare in una collana che allora dirigevo affascinato anche dal fatto che mi sentivo in qualche modo essere affiancato da Sebald nella scoperta di quel diario. La cosa poi non si realizzò. Il libro è stato ritradotto più tardi da un altro editore ed è in commercio. Il lettore di Sebald lo acquisti perché troverà in quelle pagine un surrogato dell’autore di Austerlitz e riconoscerà atmosfere, percepirà la sofferenza prodotta dal silenzio sul nazismo che Sebald imputa ai suoi genitori, la rimozione delle colpe e dei dolori praticata da una generazione di reduci, a volte responsabili, a volte vittime e altre semplicemente testimoni ciechi e silenti.

E sempre nello stesso libro Sebald cita il testimone sublime delle macerie del dopoguerra, il disperato giornalista svedese Stig Dagermann, annientato anch’esso dal paesaggio devastato dei bombardamenti sulla Germania che aveva deciso di raccontare. Un altro suggerimento sebaldiano che il lettore partecipe non dovrebbe trascurare.

Dispiace che il coraggioso Silverblatt si sia trattenuto e non abbia formulato la domanda che avrei posto io per cercare di capire che peso nella sua formazione letteraria (in quella politica o di storico penso sia stato minimo, quando non totalmente opposto) possa aver avuto uno scrittore come Ernst Jünger, cosa che mi son sempre domandato senza trovare un esplicito riferimento nei testi di Sebald così che rimane il dubbio che il grande entomologo del pensiero, l’osservatore delle comete, la sentinella che scruta i confini rimanga una figura non frequentata anche se certamente  non ignorata da Sebald. A dire il vero è proprio nella seconda parte di Storia naturale della distruzione, nel capitolo intitolato Lo scrittore Alfred Andersch che il nome dell’autore di Irradiazioni compare, come modello di Andersch, uno dei fondatori del Gruppo 47, società di intellettuali che alla fine della guerra s’era formata con l’intento di ricostruire il pensiero tedesco andato distrutto con l’avvento del nazismo (ne fecero parte a vario titolo e con varie sfumature tra gli altri Enszesberger, Grass, Handke, Weiss) ma che a Sebald, per i libri che Andersch aveva pubblicato e per la sua storia personale, appare figura di scrittore e di uomo totalmente ambigua e incapace di risolvere le contraddizioni prima dell’accettazione e poi del rifiuto del nazismo, sicché, spostando il tiro, dal fantoccio al modello, le critiche ad Andersch sembrano investire anche Jünger. Del resto, altrettanto nascosto, se mai formulato, rimane il giudizio di Jünger su Sebald. I termini cronologici per un incontro anche solo letterario avrebbero potuto consentirlo. Me lo immagino come un duello tra fieri rivali ma svolto in punta di fioretto. Dispiace che non se ne abbia testimonianza. […]

3.

Esistono pagine scritte anche in periodi molto lontani dal termine dell’esistenza e che però per qualche motivo imponderabile rappresentano congedi definitivi e che annunciano il dissolversi dello scrittore e della sua opera. In questi casi è sempre il lettore a sottolineare l’imprevedibile, a stupirsi di questa sorta di rosa del deserto che compare tra le pagine del libro che sta leggendo. È consapevole che per ogni altro lettore il brano non susciterebbe pari emozioni ma sa che, quando s’imbatte in certe pagine, o in determinate parole, separate nel loro assoluto nitore dal rimanente della pagina, l’autore si svela in maniera definitiva. Non è un caso che una delle pagine più rilevanti di tutta l’opera di Sebald appartenga a un libro abortito, che ha il significativo titolo di Camposanto, abbandonato, messo da parte per dar vita ad Austerlitz e di cui rimangono frammenti sparsi, tenuti assieme da un filo sottilissimo e che certamente l’autore avrebbe saputo saldare tra loro (alcuni di questi sono raccolti in un libretto, Moments musicaux, che è l’ultimo testo pubblicato in Italia) entro i quali il lettore si aggira quasi si trovasse all’interno di un museo archeologico o un’antica necropoli e che raccontano di paesaggi della Corsica interna o poco frequentata dal turismo e che, nella loro incompletezza, danno chiaramente al lettore la prospettiva del lavoro di Sebald: illuminazioni inattese e imprevedibili; incontri e rivelazioni apparentemente irreali come quello struggente dell’orchestrina di un piccolo circo in cui l’autore s’imbatte a Piana che viene così introdotta: «entrarono in successione i componenti della troupe e si disposero al buio sul proscenio. L’ultimo reggeva una lampada, il cui chiarore cadde su cinque figure in abiti orientali e su un’oca dal candido piumaggio».

Ecco, fu quell’oca dal candido piumaggio, che immaginavo ottusa e inconsapevole ad attrarmi e a segnare l’intera pagina. Che cosa mi sarei aspettato da quell’essere ebete, goffo, e così semplicemente e limpidamente introdotto nella narrazione, non sapevo. Lessi piuttosto che l’orchestrina chiuse la sua esibizione eseguendo a orecchio un sublime movimento dell’ultimo Schubert – l’andante sostenuto della Sonata in Si bemolle – e che quella musica sembrò assumersi per me il compito di accomiatarmi dall’autore e dai suoi vagabondaggi che avrei voluto assai più numerosi di quanto non sia avvenuto e che tuttavia grazie alla mitezza di quell’immagine mi suggeriva di rassegnare il rimpianto ed esercitare lo sguardo a quei panorami che la scrittura di Sebald, così precisa e così altrettanto evocativa riusciva a custodire nel bagaglio della memoria da cui potevo estrarre immagini e dispormi così alla meditazione sulle pagine, quasi accompagnassi, fantasma io stesso, il fantasma che mi guidava alla scoperta dell’ineluttabilità del caso.

All’ultima riga di quel racconto l’oca inconsapevole ricomparve e, rammento, fu come uno specchiarmi e un riconoscermi in quell’animale ebete ma affascinato dalla musica che aveva sino a quel momento ascoltato.


[1] Per il lettore non sarà irrisorio stendere un breve catalogo delle uscite presso Adelphi: Vertigini, ottobre 2003; Storia naturale della distruzione, ottobre 2004; Il passeggiatore solitario, luglio 2006; Gli emigrati, aprile 2007; Secondo natura, luglio 2009; Gli anelli di Saturno, ottobre 2010; Le Alpi nel mare, luglio 2011; Soggiorno in una casa di campagna, settembre 2012; Moments musicaux, marzo 2013. Vorrei inoltre segnalare almeno il film di Grant Gee, Patience (After Sebald) uscito nel settembre del 2012 e il saggio di Elena Agazzi, W.G. Sebald: in difesa dell’uomo (Firenze, Le Lettere 2012) che affrontano l’argomento Sebald con esemplare nitore.

(Roma 1953). Vive a Milano. Scrive libri. L’ultimo suo è "Le galanti" (il Saggiatore 2019). Quando non scrive cura collane editoriali.

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