In un’ampia intervista rilasciata a The Guardian nel 2012, alla vigilia del suo novantesimo compleanno, Jonas Mekas ammise la propria insofferenza verso l’etichetta di filmmaker “sperimentale” («lasciamo gli esperimenti agli scienziati»), definendosi piuttosto un «antropologo di piccoli momenti densi di significato». Una caratterizzazione che restituiva fedelmente l’attitudine diaristica del suo cinema, la sensibilità impressionista per l’istantanea, una devozione quasi ossessiva alla fuggevolezza della tranche de vie.
Tuttavia, un episodio della produzione più recente di Mekas sembrava travalicare decisamente la cornice dello «small, meaningful moment». Solo quattro anni prima il regista lituano, giunto a New York nel 1949, aveva rielaborato i filmati realizzati tra il 1989 e il 1991 con la sua videocamera Sony riprendendo pressoché quotidianamente i telegiornali che “raccontavano” agli spettatori statunitensi la crisi in cui versava allora l’Unione Sovietica.
In 04 44’ 14’’. Lithuania and the Collapse of the USSR, ovvero il film tratto da quelle immagini ormai d’epoca, l’incommensurabilità degli eventi storici si sostituiva alla “piccolezza” del dettaglio privato; lo svolgimento lineare dei fatti subentrava all’eternità di un singolo istante; l’accostamento alogico di frammenti, episodi, visioni privilegiato di solito da Mekas cedeva il passo alla grammatica stereotipata della narrazione televisiva. Solo i movimenti involontari e quasi impercettibili della camera, l’irruzione casuale di rumori e voci fuori campo (i familiari del regista?), il rimbombo quasi sinistro assunto dalle parole degli speaker tra le mura domestiche rivelavano la natura “al quadrato” del footage, introducendo in quel “filmato di un filmato” una forma seppur minima di commento.
Declinando il genere del Diary-Film in un’ottica decisamente più sovrapersonale e collettiva del consueto, 04 44’ 14’’ sembrava rispondere al contempo a un’esigenza profonda del suo autore e cioè a un bisogno di filmare la realtà “semplicemente”, vale a dire senza esprimere giudizi, indotto a sua volta da una viva consapevolezza dell’impossibilità di comprendere i comportamenti umani. Un pessimismo di fondo che il regista faceva risalire a un momento preciso della sua giovinezza lituana, e cioè, quando dopo aver visto gli occupanti tedeschi immobilizzare suo padre puntandogli una pistola alla schiena, aveva smesso di colpo – così affermerà in un’altra intervista – «di capire gli esseri umani». Questa sensazione tragica di imperscrutabilità emerge ora anche dalle pagine del volume che Humboldt Books ha dedicato di recente a 04 44’ 14’’, pubblicandone l’intero script e accompagnandolo con una nutrita scelta di fotogrammi.
Rendendo tangibile simultaneamente ciò che la pellicola cinematografica iscriveva in una durata, la forma libro sembra infatti enfatizzare la caotica imprevedibilità degli avvenimenti che, giorno dopo giorno, portarono all’11 marzo 1990, data in cui la Lituania, prima delle Repubbliche baltiche, dichiarò la propria piena sovranità e quindi di fatto la secessione dall’Urss. A tale proposito viene da chiedersi se il cineasta avrebbe esteso all’intero impero sovietico in procinto di crollare quella formula in cui aveva efficacemente riassunto l’immobilismo apparente che regnava a Semeniškiai, suo villaggio natale, prima dell’arrivo dei russi nel giugno 1940: «nothing happened, then suddenly everything happened».
D’altronde, il legame di Mekas con la Lituania è molto più stretto di quanto farebbero credere settant’anni esatti di vita trascorsi al di fuori dei suoi confini. L’identificazione totale della sua figura con l’underground artistico newyorkese non può essere infatti disgiunta dallo status di displaced person che il regista – scomparso nel gennaio 2019, a 96 anni – rivendicò sempre come una parte inalienabile di sé. Come se in fondo, pur essendosi lasciato alle spalle pietre miliari come Walden (1969) o Lost Lost Lost (1976), fosse sempre lo stesso ragazzo spaesato giunto fortunosamente in America insieme al fratello Adolfas dopo l’esperienza del campo profughi (sostituitosi quasi senza soluzione di continuità a quello di lavoro in Germania).
In effetti, lo stile febbrile e impressionistico che l’ha reso celebre, con le sue immagini sovraesposte e le sue accelerazioni, è sostanzialmente quello degli estemporanei “appunti” presi con la sua prima Bolex 16 mm per le vie di Williamsburg nei mesi immediatamente successivi all’arrivo. Inquadrature dettate dall’esigenza di appropriarsi di un “mondo nuovo”, estraneo e incomprensibile, che, inutile dirlo, non potrà mai sostituirsi a quello perduto. Non a caso, Lost Lost Lost si apre con un’invocazione a Ulisse: a colui che, pur non volendo abbandonare la propria terra, “è stato gettato” nel mondo. Anche se alla sua Itaca lituana – Semeniškiai – il regista aveva già fatto pur temporaneo ritorno cinque anni prima, grazie alle autorità sovietiche che lo avevano invitato al festival del cinema di Mosca sotto l’impressione del suo The Brig (1964), definito «opera antimilitarista e anticapitalista».
In Reminiscenses of a Journey to Lithuania (1971-1972), ritenuto il secondo dei suoi Diary Films dopo Walden, Mekas registra scene di vita che non potrebbero essere più distanti da quelle della comunità artistica newyorkese che, nel frattempo, era diventata la sua nuova famiglia: una casetta di legno sperduta nel verde abbagliante della vegetazione; la vecchia madre che prepara nel forno in giardino i bulviniai blynai, le tradizionali frittelle di patate; donne anziane e severe impettite accanto alle tombe dei loro cari. Eppure anche per questi fotogrammi sembra valere la lezione che era stata del suo film precedente, e che sarà dei successivi: «Guardate queste immagini. Non accade molto. Le immagini scorrono, senza tragedia, senza dramma, senza suspense. Solo immagini, per me e per pochi altri».
Jonas Mekas
Transcript 04 44’ 14”: Lithuania and the Collapse of the USSR
a cura di Francesco Urbano Ragazzi
Humboldt Books, 2020, pp. 168, € 30