Ancora una volta contro il muro

Elisabetta Marangon è, nell’ordine, una fotografa (ancora del tutto inedita) e una studiosa di fotografia. Ma qui interviene invece in qualità di tennista dilettante e, come me, sfegatata voyeuse di tennis professionistico: ora dalle Circostanze privata, dunque, del proprio passatempo preferito. Questo ancorché il tennis sia lo sport che, per il proprio regolamento, già di per sé osserva il Distanziamento Sociale (in virtù della rete che separa i giocatori, limes fisico ma anche metafisico: come sa chi ha visto Match Point di Woody Allen). Chi non ama il tennis, in effetti, proprio questo Distanziamento fra i contendenti disprezza quale segno di Distinzione (nel senso di Bourdieu): tacciandolo di sport “per signorine”. Quando invece è, fra tutte le discipline agonistiche, di gran lunga la più violenta: metafisicamente appunto, cioè psicologicamente (insieme agli scacchi, coi quali ha altre significative tangenze).

Fatto sta che anche ATP e WTA, i circuiti professionistici ai quali afferiscono rispettivamente tennisti uomini e donne, sin da febbraio si sono allineati al bando che ha proiettato nel limbo tutto lo showbiz sportivo. L’iconico torneo di Wimbledon, previsto fra giugno e luglio, è stato cancellato per la prima volta dal 1945. È la più lunga sospensione che questo sport abbia mai osservato, appunto, dalla Seconda Guerra Mondiale. E già so che gli aficionados, nei prossimi anni, si divideranno fra coloro che rimpiangeranno l’annata 2020 come quella che avrebbe potuto riservare a Roger Federer, ormai trentanovenne, l’occasione di uno spettacolare canto del cigno; oppure quella di battere i suoi record agli eterni rivali (ancorché da un pezzo a loro volta ultratrentenni: età che, una generazione fa, li avrebbe visti già ritirati o comunque sul viale del tramonto), Rafael Nadal e Novak Djokovic.

È lo stesso dilemma che nella storia del ciclismo, per esempio, vede ancora oggi divisi – cogli interessati morti rispettivamente nel 1960 e nel 2000 – i tifosi degli arcirivali Fausto Coppi e Gino Bartali: il primo conseguì il suo primo grande successo, ventunenne, al Giro d’Italia del 1940, cioè l’ultima grande competizione disputata prima del ’45; mentre il secondo, ventiseienne, era reduce da un successo ancora più prestigioso: il primo dei suoi due Tour de France, vinto nel 1938. Chi avrebbe mietuto più successi, senza l’interminabile sospensione bellica? Nessuno può dirlo, ovviamente. È solo un esempio delle mille variabili che rendono impossibile decidere chi sia il Più Grande di Tutti i Tempi (il GOAT, cioè, acronimizzano gli anglosassoni) nelle diverse discipline sportive. Nel tennis, per esempio, ancora di più pesa la lunga sospensione che fra anni Cinquanta e Sessanta impedì ai giocatori migliori, passati al professionismo, di partecipare a Wimbledon e agli altri majors: ci ha perduto più Rod Laver, classe 1938 passato al professionismo nel 1963, dopo aver completato il suo primo Grande Slam, e che al suo ritorno ne completò un altro nel 1969 (unico tennista della storia ad esserci riuscito due volte, prima da dilettante poi da professionista)? Oppure Ken Rosewall, classe 1934 passato al professionismo nel 1957, capace di completare il Grande Slam professionistico nel 1963 – prima dell’arrivo di Laver, cioè –, ma anche di raggiungere la finale a Wimbledon (torneo che non riuscì mai a vincere, peraltro) nel 1974, cioè all’età – per quei tempi inverosimile – di quarant’anni?

So che a queste statistiche Elisabetta non è appassionata quanto me. A sedurla almeno quanto seduce me, invece, è la metafisica del tennis. Quella che nessuno ha saputo mettere in scena meglio di Michelangelo Antonioni (buon tennista dilettante, come altri intellettuali ferraresi della sua generazione) nel finale di Blow-Up. E la situazione da lei qui illustrata, che nell’ultimo mese ha visto le star del tennis sfidarsi virtualmente nei propri spazi conclusi, riprodotti su Instagram e altri social network, non poteva che indurla a questa sorta di stalking iconico. Nei suoi occhi – proprio come a suo tempo in quelli del Thomas di Antonioni – spiamo una realtà che non è solo virtuale ma anche potenziale. Metafisica, appunto. Sono in corso proprio in questo momento, infatti, in quella realtà parallela, gli Internazionali d’Italia al Foro Italico di Roma (da questa parte della rete, invece, rinviati sine die). Vuol dire che sarà per un’altra volta.

Andrea Cortellessa

«Ecco un utile esercizio in solitaria. Vediamo cosa sapete fare! Rispondete con un video e vi darò qualche consiglio. Scegliete saggiamente il vostro cappello», è la sfida che “Il Re” del tennis Roger Federer ha lanciato lo scorso 7 aprile attraverso i suoi profili social (si contano 7,6 mln di followers solo su Instagram). Il venti volte campione slam e attualmente numero quattro del ranking mondiale si presenta in total white – a far risaltare l’elegante Borsalino ecuadoriano che gli nasconde metà volto e il cui bordo nero è richiamato dal telaio della racchetta e dalle stringhe delle scarpe – mentre si allena al muro esibendo un perfetto drill sulle volée di dritto. Anche nei giorni precedenti aveva stupito i fan con due video del suo “ritorno alle origini”: contro quel muro della sua casa in Svizzera aveva già palleggiato in abiti più anonimi che avevano fatto ricordare la semplicità e l’ingenuità di Rocky Balboa.

Roger

La familiarità era accentuata anche dal modo in cui Federer si era rivolto al suo pubblico non sbarbato, e finalmente libero dalla messa in piega impostagli da un fruttuoso contratto pubblicitario, per incoraggiarlo a prendersi cura di se stesso e a praticare l’attività sportiva (secondo le direttive sanitarie relative al Covid-19): dicendo di voler giocare «ancora una volta contro il muro come nei vecchi giorni» (in ricordo delle ore interminabili trascorse da bambino contro quel muro). Nel farlo svelava parte del circondario ovattato da un’atmosfera invernale fiabesca, mentre colpiva la palla più volte fino a urtare il cellulare, per poi congedarsi divertito con un sorriso infantile a tutto schermo (contagioso come quello durante l’ultimo torneo disputato, in Australia a gennaio, nel selfie col sempre gioioso quokka: così facendo schizzare la popolarità di quel mammifero marsupiale che, non tutti sanno, è solito lanciare i propri cuccioli contro i predatori in caso di pericolo).

abbiamo tutti un quokka dentro di noi

Diversamente dai primi due filmati (in cui lo si vedeva palleggiare sotto il nevischio, un po’ più burbero e nervoso nei movimenti e nelle espressioni facciali), in quest’ultimo impressiona l’architettura del luogo resa asettica e claustrofobica sia dall’inquadratura fissa sia dall’angolazione obliqua, che ne renderebbero impossibile la contestualizzazione se non si fossero visti i precedenti. In tale scenario minimalista e asfittico spicca il thok – thok – thok – thok – thok delle volée che risuona con un’eco metallica contro quel muro verde di cemento, non incrostato, e ornato da una riga bianca, per quasi duecento volte in meno di un minuto. Il cortocircuito della visione è inevitabile. È Federer stesso ad ammettere in uno scambio di battute coi suoi fan di aver provato una vertigine durante quell’esecuzione: la cui regia sembra voler accrescere l’aura leggendaria della «bellezza cinetica» celebrata nel 2006 da David Foster Wallace (Federer come esperienza religiosa, Einaudi stile libero 2012), ma rende impossibile una scansione cronologica, un prima e un dopo: la ripresa si arresta infatti mentre il gioco è in corso congelando il giocatore in un imperituro presente (è una delle imposizioni di Instagram: non si possono caricare filmati più lunghi di sessanta secondi).

Roger

Tre milioni le visualizzazioni e oltre diecimila i commenti lasciati fino a questo momento sulla sfida lanciata da Federer ad amici e colleghi come Rafael Nadal o Aleksandr Zverev (rispettivamente n. 2 e n. 7 del ranking), spicca anche il suo acerrimo rivale, Novak Đoković: numero uno in carica, vincitore di diciassette tornei del Grande Slam e dotato «del fisico e della mente più pericolosi del tennis» (secondo Stefano Semeraro, autore del Codice Federer, Pendragon 2018, sul «Tennis italiano» del febbraio 2020) ma conosciuto anche come “Il Djoker” per via delle ripetute esibizioni che parodiavano gesti e rituali dei colleghi (come i tic di Nadal, che mal le tollerava, o le pose sofferte dell’appena ritiratasi Marija Šarapova).

Djo

In un set in apparenza simile (anche Đoković palleggia di profilo contro il muro, per quanto l’inquadratura si stringa sul suo mezzo busto) si notano dettagli stridenti: a cominciare dall’inaspettata incertezza nella volée di dritto, evidenziata dal flebile whak – whak – whak – whak contro il vuoto di quello spazio illusorio. È evidente l’intenzione di Đoković di replicare a suo modo al gioco di Federer: quando, dopo aver perduto il controllo della palla, improvvisa una gag nella quale continua a colpire a vuoto con la racchetta prima di scoppiare a ridere. La ripresa si arresta mentre sta per fuoriuscire dal campo visivo, in bilico sulla soglia dell’inquadratura tagliata in diagonale dal suo corpo: richiamando l’occhio di falco che i tennisti invocano in caso di dubbio sulle scelte arbitrali. Postando il suo video Đoković ha domandato al Re: «Good enough?», provocandogli una risposta stizzita: «Con quelle volée mi hai battuto più di qualche volta, non credo che tu abbia bisogno dei miei consigli».

Questo giocare a vuoto richiama il celebre epilogo del Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, ispirato al racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar, e al quale s’ispirò a sua volta Italo Calvino per il racconto L’avventura di un fotografo (nella raccolta Gli amori difficili del 1970),in un gioco di specchi che le due superstar del tennis riflettono inconsapevolmente: come nel travestimento dell’io biografico attraverso l’imitazione. Difficile non pensare alla partita a tennis inscenata da alcuni mimi senza racchette e palline nell’epilogo di Antonioni, cui assiste il protagonista Thomas (il quale, nel prologo del film, appare a sua volta camuffato da senzatetto, per realizzare un fotoreportage di denuncia sociale). Thomas è un fotografo, come lo è Antonino del racconto autobiografico di Calvino – il cui nome richiama non a caso quello del personaggio di Antonioni: il quale aveva anche provato a farlo collaborare al suo film –, che fotografa ossessivamente la donna che ama, Bice, costringendola a travestirsi a sua volta da tennista «con la racchetta sotto il braccio, atteggiando il viso a un’espressione da cartolina sentimentale».

Blow-up

Nel gioco del “chi assomiglia a chi?”, l’imitazionevuole rappresentare il proprio oggetto con la massima precisione; ma «non si è mai altro che la copia di una copia, reale o mentale che sia», secondo Roland Barthes: «l’immagine viva di una cosa morta». Le note tesi della Camera chiara (Einaudi1980) sono riprese nell’Atto fotografico (1983, Quattro venti 1996) da Philippe Dubois, il quale insiste sullo stato fluttuante, incerto e allucinatorio della fotografia a causa dell’assenza tanto del referente quanto del soggetto, citando come esempio proprio Blow-up: «Eccolo, questo soggetto, […] perduto nelle apparenze, preso nel gioco dei fantasmi, delle finzioni, dei miraggi, inabissarsi sempre di più nella frattura che credeva di colmare – scavandosi la propria tomba».

“Chi guarda chi?”. È una delle domande che assilla ancora oggi lo spettatore durante la visione dell’opera di Antonioni. La fusione del campo e del controcampo, del soggetto scopico e di quello autoriale, dell’interno e dell’esterno, resa possibile dalla soggettiva libera indiretta di cui parla Pasolini nel Cinema di poesia (in Empirismo eretico, Garzanti 1972), annichilisce la classica partitura hollywoodiana. Tale contravvenzione ai rapporti filmici consueti sembra connotare pure il faccia a faccia pixellato tra Federer e Đoković: cadaveri squisiti di un pubblico invocato, ma incorporeo, destinati a scomporsi in un calviniano «pulviscolo d’immagini» fino a dissolversi completamente nella luce,come nel racconto di Calvino (Antonino, lasciato da Bice, inizia a fotografarne l’assenza) e in Blow-up (l’ingrandimento fotografico sproporzionato del cadavere intravisto da Thomas ne trasfigura la materialità corporea fino al grado zero dell’astrazione).

Blow-up

Mentre i corpi dei due duellanti evaporano nel delirio mimetico dei fan, l’anarchia prende piede nel circuito professionale tennistico: conferenze stampa senza stampa annunciano l’annullamento di un torneo dopo l’altro (non accadeva dai due conflitti mondiali), slittamenti, nuovi calendari, ritiri, rivelazioni di traumi personali, contestazioni tra chi ha l’autorizzazione per allenarsi a porte chiuse e chi non intende sottoporsi a un ipotetico vaccino (così Đoković qualche giorno fa), donazioni milionarie patriottiche e non, raccolte fondi per gli atleti, per le famiglie in difficoltà, per l’acquisto di attrezzature ospedaliere, per giocatori fuori classifica, per coach non pagati che consegnano pizze a domicilio per sopravvivere, duetti canori improvvisati (Nole che canta Terra promessa di Eros Ramazzotti in diretta su Instagram insieme a Fiorello, come già all’ultimo Sanremo), gare culinarie ipocaloriche impugnando la racchetta, esercizi ginnici al seguito di prole e animali domestici, in salone, in giardino, da balcone a balcone, tra consanguinei, tra vicini di casa, tra marito e moglie o fratello e sorella, tra stendini, passeggini o divanetti usati come rete, travestiti da cospaly o in abiti folcloristici, tra dirette live su come bruciare il grasso addominale o sul come fare una diretta live.

Il tempo, per dirla col Gianni Celati di Narratori delle pianure (Feltrinelli 1985), si annulla in un «tempo senza più tempo perché non va da nessuna parte».

È un’arena incontenibile, indecifrabile, ambigua e granulosa, quella del web in questi mesi di arresto forzato; un’arena orfana del sostegno e dell’ostilità tattili di un pubblico umorale ma sempre appassionato, talvolta indiscreto e spesso indisciplinato, che non riesce a trattenere la sua antipatia nei confronti del numero uno del mondo che ha appena vinto lo slam più prestigioso. «Quando la folla gridava Roger io sentivo Novak».

Nole e Roger

Glaciali leparole rilasciate da Đoković ai giornalisti dopo aver vinto la finale più lunga della storia di Wimbledon (quattro ore e cinquantasette minuti), lo scorso anno proprio contro Federer (con il punteggio di 7-6, 1-6, 7-6, 4-6, 13-12). Un re solo col suo scettro, indicato come l’eterno incomodo tra Federer e Nadal (dei quali brama di annullare i record imbattuti digrignando i denti). Un re tormentato dalla luccicanza di quel re sole del quale è considerato l’erede illegittimo. Un re che, come l’altro, iniziò a giocare a tennis da bambino contro il muro accanto alla pizzeria dei genitori nel circolo tennistico di Kopaonik, poco distante da Belgrado, dove venne notato dall’ex tennista Jelena Gencic. Un muro crivellato dai proiettili che insanguinarono la Jugoslavia.

il muro di Nole

Contro quel muro Đoković continuava ad allenarsi con cieca ostinazione nonostante le macerie e i bombardamenti (un ricordo cui si ispira ancora oggi nei momenti più difficili: «Quando in campo ho bisogno di trovare una spinta in più mi ripeto sempre chi sono e da dove sono venuto»). Un muro che da vicolo cieco, emblema di un reale sgretolato, si trasforma in rifugio dello sguardo: così per l’Antonioni che concepì il soggetto del Grido (1957), «un film sulla perdita di un posto in cui vivere» (Michele Guerra in Sguardo smarrito, in«Ricerche di S/Confine», 2013), fissando appunto un muro per ore (Sei film, Einaudi 1964): «Voglio vedere chi passerà per questa strada […]. Aspetto tre ore e mezza. Il buio comincia a disegnare il tradizionale cono di luce del fanale quando me ne vado senza aver visto nessuno. Io credo che questi piccoli fallimenti, questi momenti vuoti, questi aborti d’osservazione, siano tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messi insieme un bel po’, non si sa come, non si sa perché, viene fuori una storia. Il soggetto del Grido mi venne in mente guardando un muro».


Immagine di copertina: Elisabetta Marangon, Jack Sock, 2016 (Internazionali di Tennis 2016, Foro Italico, Roma)

Elisabetta Marangon

fotografa freelance. Ha studiato fotografia a Milano e cinema a Roma, laureandosi presso l’Università Roma Tre e presso la Pontificia Università Gregoriana; ha frequentato il Master in fotoreportage presso il Centro Sperimentale Adams (2016) e collaborato per diversi anni con “alfabeta2”, scrivendo recensioni di libri e mostre fotografiche. Si è occupata del casting, delle scene e delle fotografie nell’“Incendio di Via Keplero. Fiamme di Gadda”, docufilm di Mario Sesti (2013); ha collaborato al progetto “Sustainability is Human”, per conto di “Avanzi”, del Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare (2019); ha esposto allo Spazio Factory del MACRO Testaccio durante il Festival di fotografia “Emerging Talents” (2017) e al Prague Photo Festival (2018).

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