Noli me tangere. Barriere, gesti, relazioni.

Non è chiaro se il virus, che ha tolto la vita a molti e modificato quella dei rimanenti, appartenga al vivente. Della vulgata virologica ammannitaci dai media almeno questa nozione è destinata a fissarsi nelle coscienze: il covid 19 condivide con la specie cui appartiene una modalità di esistenza parassitaria, che di vita si nutre ma che vita, propriamente, non è. La sostanza paradossale di un simile assunto può richiamare alla mente l’efficace proposta definitoria formulata da Roberto Casati e Achille Varzi, anni or sono, in materia di buchi, fori, cavità: «i buchi constano di “mera” materia non qualificata. Essi sono – diremo – corpi immateriali, e “crescono” da parassiti, come funghi negativi, sulla superficie dei corpi materiali» (Buchi e altre superficialità, Garzanti 2002). Ontologicamente dipendenti, esistono tuttavia, riguardano la nostra esistenza in modo tangibile, il senso comune, la vita quotidiana, la nostra corporeità (corpi essi stessi, pur privi di materia, o di materia “qualificata”). Tale l’enormità di un simile statuto ontologico che c’è perfino il rischio, dopo averne trascurato l’esistenza, di identificare col buco la totalità dell’oggetto che lo ospita (un «punto di vista radicale» che i due accademici paventavano fin da subito, come ipotesi di scuola).

Tra le conseguenze della pandemia, la più comune consiste oggi nel “distanziamento sociale”, una profilassi che ci allontana e ci priva dell’esperienza corporea dell’altro, ovvero della nostra stessa corporeità se letteralmente la parola con-tatto evoca la condivisione sensoriale. Proprio la negazione del contatto ha offerto un tema di duratura fortuna nell’arte sacra, da Beato Angelico a Dalì, da Giotto a Picasso (per quest’ultimo, attraverso Correggio), grazie all’iconografia del noli me tangere, inopinatamente attualizzata, nell’esperienza visiva massmediatica, dall’odierno Vicario di Cristo.

Nel Vangelo di Giovanni (20,17), dove oggi leggiamo: «Non mi trattenere» (versione CEI / Gerusalemme e Nuova Riveduta) eravamo abituati ad accontentarci di un più letterale «non mi toccare», derivato dalla vulgata latina di S. Gerolamo. Tuttavia il passo ha rappresentato, e rappresenta, una vera e propria crux interpretativa per i biblisti, evasa secondo un’escursione del senso che va da un minimale «Non fermarti a me» al più enigmatico «Noia toccarmi». Difficile infatti rendere il μή μου ἅπτου della fonte greca senza tradire la complessa sostanza semantica del verbo che regge la frase e che annovera tra le numerose accezioni: cucire insieme, dare fuoco, abbracciare, assalire, mangiare, intraprendere, conseguire, fare menzione ecc.

Al di là dell’eventuale soluzione del rompicapo traduttivo, vale la pena di ricondurre il passo al contesto che lo ospita per notare come l’intero capitolo 20 del testo giovanneo, proponendo l’episodio del sepolcro deserto come scaturigine della fede, configuri al tempo stesso una vertiginosa riflessione sull’assenza, sulla mancanza, sul vuoto. Questi i fatti: l’«altro discepolo» che, più in gamba di Simon Pietro, arriva per primo al luogo della sepoltura, lascia all’ingresso la precedenza al secondo ma, entrato a sua volta – con le parole dell’evangelista – «e vide e credette» (20,8). Cosa precisamente ha visto l’innominato podista, e a cosa ha dunque creduto? Non alla presenza di un Cristo trionfante sulla morte, non a una spettacolare ascensione tra armigeri dormienti: a rigore la fede scaturisce, nella scrittura, per endiadi attraverso la visione di un corpo che manca al suo posto, che non c’è: attraverso l’esperienza sensoriale dell’assenza, mediante la percezione del vuoto.

Il capitolo ventesimo proseguirà con l’incontro tra Gesù e la donna di Màgdala, simmetrica deuteragonista di ogni noli me tangere pittorico col suo “atto mancato” (20,17), prima di chiudersi sull’incredulità di Tommaso, annunciata dal proverbiale: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (20,25), e finalmente sanata per aver toccato con mano (20,28). La vacuità del sepolcro, il contatto negato alla Maddalena, l’esperienza tangibile del vuoto, sondato da Tommaso attraverso i fori nel corpo di Cristo, suggellano, su una misura ternaria, una professione di fede dal sapore orientale e quasi in odore di zen.

In una trafila secolare, tra Medio Evo e contemporaneità, gli artisti hanno saputo dare sostanza a quel vuoto, una sostanza relazionale. Ma prima di venire a ciò con qualche esempio tratto dalla storia dell’arte, può essere utile focalizzare il polo terrestre della relazione, ovvero il personaggio femminile che compone la coppia mistica, come corpo sensibile che rivela la presenza assente del corpo divino. Spetta, infatti, all’elemento femminile, tradizionalmente, il compito di rivendicare la materialità degli affetti, la corporalità dell’esperienza umana. Non solo alla Maddalena, non solo nelle Scritture. Da Jacopone («figlio, chi me t’ha morto /figlio mio delicato?») a De André («Per me sei figlio vita morente / Ti portò cieco questo mio ventre») è invalsa un’immagine “apocrifa” di Maria, e dunque del femminile, come freno all’ascesi. Nel Compianto di Giotto agli Scrovegni non sono forse mani femminili quelle che, lungi dal sostenere un corpo morto, tentano di frenarne la levitazione, già evidente nella movenza delle braccia che paiono sollevarsi prive di peso?

Giotto

Il testo pittorico tollera, e talvolta suggerisce, simili letture antifrastiche rispetto alla fonte letteraria, anche quando (o specialmente se?) si tratti di sacre scritture o, più in generale, di soggetto religioso: corrente l’interpretazione dell’estasi berniniana della beata Ludovica Albertoni come jouissance, “piccola morte”, almeno all’indomani dell’ecfrasi gaddiana, nel Pasticciaccio, di un analogo gruppo statuario sito in Santa Maria della Vittoria a Roma.

Bernini

Più incline alla misinterpretazione si rivela, del resto, il romanzo che non la letteratura critica di ambito storico-artistico, come dimostra pure, proprio in relazione al Noli me tangere, il brano seguente, tratto da uno dei titoli narrativi del Camilleri orfano di Montalbano (Noli me tangere, Mondadori 2016):

Ebbene, Laura rilevò questa sostanziale ambiguità che l’affresco esprime e subito esclamò: «Ma si sono già toccati!». E alla mia richiesta di un chiarimento aggiunse che le pareva evidente che l’Angelico aveva voluto raffigurare il momento immediatamente successivo a quello in cui la mano sinistra di Maria Maddalena e quella destra di Gesù si erano afferrate l’un l’altra e poi rilasciate per l’intimazione di Gesù.

Che il tocco ci sia stato o meno, quesito degno di più frequentati fermo-immagine calcistici, resta il fatto che – come anticipato – la pittura ha saputo radunare nei secoli, intorno a un vuoto, la sostanza stessa dell’episodio biblico, riuscendo ogni volta ad organizzare, orbitante intorno a un punto di fuga inconsistente, la dinamica interna di una figurazione interminatamente reiterata. Che tutto ciò si sia rivelato possibile per un’arte fondata su un gesto di contatto (indoeuropeo piñj [p + iñj]: agire in avanti [iñj] per rendere puro [p], colorare, dipingere) giustifica gli esiti estremi che tale gestualità ha saputo produrre, per esempio nei “tagli” di Lucio Fontana (e nella poesia verbovisiva di Emilio Villa, poeta dei Trous nonché fomentatore delle sperimentazioni dell’artista dei Concetti spaziali). Il medesimo paradosso ha indotto Jean-Luc Nancy a istituire un parallelo tra il brusco ritrarsi del Cristo nel Noli me tangere e l’atto stesso del dipingere, poiché entrambi in grado di «rendere intensa la presenza di un’assenza in quanto assenza» (Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, traduzione di Franco Brioschi, Bollati Boringhieri 2005).

Ciò è avvenuto, con estrema coerenza e secondo un climax evidente, nell’iconografia che illustra il passo giovanneo. Si inizia con la minima ritrosìa accennata nelle prime figurazioni medievali di Duccio di Buoninsegna, di Giotto, dell’Angelico o del Maestro della crocifissione Lehman – Cristo muta appena il passo, scosta il braccio (o la sola mano) dal corpo, quando non accenna a tenderlo nel gesto-barriera che gli conosciamo.

Duccio

Si prosegue attraverso variazioni più o meno marcate, a seconda dall’ambiente culturale di riferimento. Si veda per esempio, in un’attestazione semi-colta del tardo quattrocento, la sostituzione dell’ostacolo comunemente frapposto dall’arto del risorto con la diagonale di un cartiglio recante la citazione neotestamentaria, per una volta compromettendo la centralità del vuoto (ma forse per un intervento posteriore e didascalico).

Baschenis

Poi, col tempo, i gesti si faranno più concitati o coreografici. Prima che lo scostarsi del protagonista diventi allontanamento evidente e quasi sospetto di fuga, però, la misura del distanziamento può essere anche solo allusa nella curva che si fa cava all’altezza dell’anca: così nella tela del caravaggesco Valentin de Boulogne, dove le ombre sembrano corrodere il fianco annunciando la ferita del costato.

De Boulogne

Più o meno negli stessi anni, i Venti del Seicento, Battistello Caracciolo, pure caravaggesco e napoletano, arriva a riscrivere la “mossa” del Cristo come una vera e proprio schivata, tale da mandare a vuoto lo slancio della Maddalena che si trova così, innaturalmente, a stornare lo sguardo fuori bersaglio.

Caracciolo

Ma già circa un secolo prima, in altra area culturale, l’attitudine del protagonista si era fatta minacciosa e, si direbbe, marziale, nel tenere a distanza di sicurezza la donna (particolarmente nel Noli me tangere dipinto da Holbein il Giovane, databile intorno al 1524).

Holbein

Non così, nell’Italia della Maniera, per Bronzino Correggio o Pontormo, col quale lo schema si fa danzante ed euritimico

Bronzino

mentre in pieno Rinascimento, la ritrosìa del protagonista aveva assunto per Tiziano tonalità muliebri, come volta a schermare l’immacolato perizoma da ogni ipotesi di contaminazione terrena, per mano femminile.

Tiziano

A ben altri gesti-barriera ci forza oggi il virus, a salvaguardia della nuda vita, vale a dire proprio di quella mera esistenza terrena che, nel topos figurativo del noli me tangere, veniva tenuta a distanza di sicurezza da un corpo mistico “gravato” da improrogabili incombenze escatologiche.                                               

Eppure, l’assenza di contatto, la relazione a distanza – affettiva, sentimentale, didattica – l’impossibilità dell’incontro reale non equivalgono alla negazione di ogni esperienza relazionale, e non perché la vulgata massmediatica e securitaria a proposito di teleconferenze, videochiamate e altri espedienti smart ci illuda di connessione, ma perché – l’arte ci insegna – un gesto creativo può fare dell’immateriale corporeità del vuoto il lievito stesso dell’esperienza (estetica, intellettuale, personale).

In copertina: Claude Lorrain, Noli me tangere, 1681

insegna Teoria e Critica della letteratura a Roma Tre. Ha pubblicato, tra l’altro, “Sconfinamenti d’autore. Episodi di letteratura giovanile presso gli scrittori italiani contemporanei” (Giardini 2002), “Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia” (Perrone 2012), “Per Emilio Villa. 5 referti tardivi” (Lithos 2016). Ha curato “Mezzo secolo di Bufera”, fascicolo monografico della rivista «Trasparenze» dedicato alle “47 poesie” di Eugenio Montale (San Marco dei Giustiniani 2007). È del 2020, presso Morellini, “Moti di imitazione. Teorie della mimesi e letteratura”, pure a sua cura.

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