La folla e il contagio

11/05/2020

1840. Nella Londra vittoriana un uomo seduto in un caffè osserva il movimento disordinato della metropoli. L’osservatore è preso dalla confusione che abita la vita urbana, dal movimento frenetico nelle strade, dal viavai chiassoso. In Europa la vita metropolitana è molto diversa da quella della grande città americana dalla quale viene. Ne descrive la morfologia sociale, gli stili, i modi di vestire, le espressioni, le fisionomie, prova una “classificazione” delle popolazioni che la vivono come un etnografo in un paese “esotico”; uomini lerci o ben vestiti, gentiluomini, prostitute di ogni età, mendicanti di professione, mercanti, truffatori, invalidi e ubriachi. Ma è ciò che non riesce a comprendere che lo attrae di più. L’uomo della folla, colui che non si lascia conoscere, che sembra non appartenere a nessun gruppo sociale, che scompare nella massa. Chi è il viandante solitario? L’uomo della folla di Edgar Alan Poe è l’uomo moderno, l’uomo che si mimetizza nella fiumana urbana, in quell’insieme indistinto di massa e singolarità che vive nel ciclico rincorrersi ininterrotto della notte con il giorno che inizia con la modernità ottocentesca. La vita moderna conosce l’esperienza della folla per la prima volta nel pieno della società industriale; masse che si spostano da una parte all’altra della città, moltitudini che si affrontano senza conoscersi, che si urtano senza scansarsi e si ammassano lungo le strade del passeggio o negli agglomerati urbani cadenti. «Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano tra loro non sono tutti esseri umani con le stesse qualità e capacità, e con lo stesso desiderio di essere felici?» scrive Fredrich Engels  ­osservando l’indifferenza dei londinesi che si incrociano nelle strade (La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845). L’Ottocento è il secolo della folla, del “clamore in strada” che fa da sfondo a Charles Baudelaire che osserva incantato una passante sconosciuta nelle vie di Parigi (C. Baudealaire, A una passante, 1857).

Un centinaio di anni dopo, in pieno Novecento, Elias Canetti (Massa e potere, 1960) scrive che solo nella massa l’uomo si libera della paura di essere toccato da ciò che non conosce, dall’estraneo, da ciò che, immagina, possa violare la sua intimità e il suo corpo. L’uomo moderno ha paura dell’altro ma quando con esso si fonde in un corpo unico trova protezione. È lì che trova l’anonimato. Se il progetto della modernità ha dato all’uomo della folla libertà, indipendenza e autonomia, di converso ne ha depotenziato il senso della vita collettiva. L’uomo della folla, Poe lo intuisce, è solo. Nella folla s’immerge e in essa vaga solitario – come il blasé di Georg Simmel non si lascia stupire dalla vita metropolitana ­– e come la nebbia si dilegua e si perde nella notte.

Nella tarda modernità, nella folla non ci si può più perdere. La folla, in tempi di Covid 19, rappresenta la paura principale della modernità. Occorre difendersi, fuggire da essa, non mescolarvisi. La folla diventa lo sciame che investe, come l’orda lenta di vaganti contagiosi travolge i superstiti nel pieno dell’apocalisse. E allora bisogna schermarsi per mettersi in salvo, vestire i panni del cosmonauta e ripensare lo spazio (o addirittura il cosmo!) e la propria solitudine. Cambia qualcosa. Cambia molto. Bisogna cominciare a tenere un comportamento territoriale “maggiormente regolamentato”, muoversi nello spazio pubblico misurando le distanze e “governando se stessi”, perché il proprio corpo ritorna a essere una soglia attraverso la quale cogliere le violazioni, le intrusioni, come scrive Erving Goffman (Relazioni in pubblico, 1971). Nella solitudine della folla, il corpo si fa dispositivo per il controllo dello spazio individuale e collettivo, e così occorre rimodulare la propria umwelt (ambiente), il contorno, la “sfera individuale” entro la quale si colgono i segnali di allarme. Jackob von Huexküll, l’etologo dal quale Erving Goffman rilegge il concetto di umwelt, scrive che, diversamente da quanto avviene per molti animali, per gli esseri umani l’ambiente non è un’unità universale (Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, 1930). Esso è una configurazione variabile e dunque soggetto a “revisioni” impreviste. La risposta che noi diamo all’invasione da parte di un organismo che, chissà perché, consideriamo “alieno e invisibile”, ci porta a “disciplinare” nuovamente il nostro comportamento. Le politiche del contagio ridefiniscono il senso dello spazio, il significato della reciprocità, dentro e fuori la folla, riproducendo l’atomizzazione di una società già de-collettivizzata dal “capitalismo egoista” (O. James, Il capitalista egoista, 2008)  dove, per cavarsela, bisogna pensare a se stessi. Biopolitica immunitaria. Una politica della vita, ma della “propria” vita. Se in passato la metafora del contagio operava una separazione sull’appartenenza di classe ­– si tenevano a distanza i poveri e i miserabili perché non contaminassero i valori della vita borghese con le loro condotte – oggi ha un valore universale che cerca in ognuno l’anomalia. Una nuova pedagogia morale estende a tutti le nuove norme della coesistenza. Il contagio ha una forte valenza simbolica che riproduce un modello già consolidato nel tardo capitalismo: ognuno si faccia carico di sé e “incorpori” la nuova “normalità”, autodisciplinandosi. Non l’abbiamo già fatto forse quando abbiamo visto nel lavoro flessibile una possibilità nel nuovo modo di produzione, una libertà e non una costrizione? O quando abbiamo incominciato a considerare la responsabilità come una “competenza individuale” slegata dalla vita collettiva e non come una qualità socialmente appresa?

E allora la nostra incapacità di interpretazione ci porta a considerare il virus come l’alieno che viene da lontano, da un mercato esotico dove il sangue ­– rappresentazione perfetta della contaminazione – è cosparso sui corpi morti degli animali, e dove la folla ancora si accalca. Non a caso, le politiche di disciplinamento dello spazio urbano nell’Ottocento, nel pieno del secolo della folla, spostano “fuori” dalla città quelle pratiche che hanno a che fare con il cibo e con gli animali. Ordine pubblico e igiene riconfigurano lo spazio di vita in nome del risanamento dei costumi oltre che in nome della salute. Ma c’è qualcosa oltre il mercato di Wuhan. C’è la produzione di massa, il capitalismo aggressivo, gli allevamenti intensivi, lo sfruttamento dell’ambiente. Dunque la “cosa aliena” non viene da un altro pianeta, ma viene dal nostro. Forse, come nel film di John Carpenter (The Thing 1982), essa riesce a tirar fuori dal nostro corpo ciò che già c’è dentro. La Cosa si adegua perfettamente alle caratteristiche degli umani, diventa la somma dei loro sentimenti; sfiducia nel gruppo, diffidenza, difficoltà di convivenza, ridefinizione delle distanze. Il contagio si appropria dei corpi e, in fondo, li asseconda. Forse essere fisicamente separati, imparare a distanza, lavorare a distanza è la lineare conseguenza di un modo di organizzazione e di produzione che vede l’ “impresa individuale” come la condizione fondante della tarda modernità. Un’apparente virata verso l’autodeterminazione e la realizzazione del sé che trova specularmente essenza nell’alienazione dall’altro. Stiamo andando (invero ci siamo già) verso una “nuova cultura della coesistenza” –  di muoverci, di produrre, di abitare, di studiare e così via – che riscrive il rapporto tra individui e società. L’ordine politico e collettivo perde valore, sfuma nella folla, mentre l’individualismo diviene la norma. Fredrich Engels già vedeva nella folla della grande Londra dell’Ottocento qualcosa del genere, oltre la solitudine dell’uomo moderno e più prossimo all’indifferenza propria della competitività del capitalismo industriale: «La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto più ripugnante e offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto egoismo è dappertutto, il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo così sfrontato e aperto, così consapevole come qui»  (op. cit.). È lecito immaginare, allora, che la fenomenologia del contagio ci porta a pensare, anche per il futuro, strategie per vivere fianco a fianco ma senza contatto, in autonomia e con indifferenza, con la differenza che lo spazio non sarà ristretto e non saremo ammassati. L’uomo della folla resta solo, ma questa volta non nella mischia e alla giusta distanza.

Immagine di copertina: © Bishopsgate Institute/London and Middlesex Archaeological Society

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