Pochi giorni prima del lockdown riusciva da Aesthetica, a cura di Sandro Barbera con la presentazione di Elio Franzini e l’utile appendice biobibliografica di Piero Giordanetti, la classica edizione della fondamentale Estetica del brutto di Karl Rosenkranz (1853), già uscita nel 2004 (pp. 308, € 25). Luca Scarlini ci offre questo suo percorso che ne rappresenta un ideale spin-off novecentesco: controveleno omeopatico per questi tempi cupi.
A.C.
La duchessa brutta è un quadro del pittore fiammingo Quentyn Metsys (1466-1530), che attira l’attenzione dei visitatori della National Gallery di Londra. Una fisionomia orribile, mostruosa perfino, che sembra riferita a una caricatura di Leonardo da Vinci, in cui la deformazione del volto è portata all’estremo. Un volto da animale fantastico delle cattedrali, che spicca su un abito prezioso e un lussuoso copricapo. La creatura non rinuncia, peraltro, alla seduzione, secondo la moda dell’epoca, ha il decolleté in fuori, assai marcato. L’opera fa parte di un dittico, di intenzione allegorica sugli eccessi dell’essere umano, e la seconda parte è conservata a Parigi al Musée Jacquemart-Andrée.

Il pittore, nato a Lovanio, era specialmente versato nella definizione del carattere, come nella sua opera più celebre, Gli esattori, in cui due contabili in ricche vesti diventano una natura morta Una icona d’incubo, una faccia grottesca, ripugnante, piena di ogni possibile difformità anatomica, al limite della celebrata disgrazia di Joseph Carey Merrick, alias Elephant man, segnato da una distruzione del corpo, trasformato in ammasso di carne contorta, dolente gloria dei crudeli freak show vittoriani, di cui David Lynch ha mirabilmente inciso l’epicedio.
L’immagine è stata spesso citata, parafrasata, echeggiata. La caricatura, arte spesso meno praticata di quanto meriterebbe come deposito di mostri della mente, ne ha saccheggiato i dettagli. Soprattutto continua è stata l’utilizzazione di questa rappresentazione nei territori anglosassoni, sempre specialmente attenti al cautionary tale, alla favola morale in cui ciò che conta è stabilire un legame certo tra la bruttezza memoranda del soggetto e censurabili aspetti del suo carattere.
Memorabile è l’uso che ne fece John Tenniel per individuare il personaggio omonimo di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, memorando catalogo di fisionomie leggendarie. La duchessa, padrona nominalmente del gatto del Cheshire, è antagonista della Regina di Cuori e un suo diretto sdoppiamento: il suo talento, la sua ossessione è quella di trovare, sgradevolmente, la morale di tutto, come Alice impara a sue spese. Il reverendo ebbe modo di osservare più volte il dipinto di cui ispirò il titolo con cui è noto, dato che la National Gallery, per tradizione, ha preferito una più generica dizione, di ispirazione leonardesca, Grotesque Old Woman.

Leon Feuchtwanger studiò a lungo l’opera e nel 1923 ne trasse ispirazione per il romanzo storico L’odiosa duchessa Margherita Maultasch; due anni dopo sarà la volta del celebrato L’ebreo Süss, grande successo tra le due guerre che verrà portato sullo schermo nel 1934 da Lothar Mendes, con protagonista un magnetico Conrad Veidt, per poi venire clamorosamente manipolato dall’ipernazista regista Veit Harlan nel film omonimo di propaganda antisemita del 1940. Paradigmatico il destino di Feuchtwanger, creatore di immagini scippato della sua creazione per diretta volontà dei vertici hitleriani, laddove il personaggio assai chiaroscurato da lui creato diventa una figura caricaturale, mostruosa e ributtante. Magistrale artefice di trame d’epoca, fu spesso attratto dal tema dell’arte come specchio di un’epoca, su cui esprime visioni assai originali, come nel bel romanzo Goya (1951) in cui disegna, in filigrana, il destino dell’artista al tempo della dittatura e del conflitto, scritto nell’esilio dorato di Pacific Palisades, dove il suo confortevole tenore di vita era permesso dalle collaborazioni con il mondo hollywoodiano.
Come narra assai bene Klaus Modick nel bel romanzo Sunset, in cui si ripercorre la sua amicizia con Bertolt Brecht, che ebbe il merito di rivelare al mondo (il libro è del 2015 ed è uscito in Italia da Keller), Feuchtwanger rischiò la vita a Monaco durante la repressione micidiale dei Freikorps alla Rivoluzione dei Consigli di Monaco. Simpatizzante del comunismo sovietico, ebreo, avverso al nazismo, prese la via della Francia e poi, romanzescamente, travestito in abiti femminili (non così lontano nel risultato estetico, si può immaginare, dalla Brutta duchessa di cui ha scritto) riuscì per tramite del Portogallo a raggiungere gli Stati Uniti. La brutta duchessa, uscito in Germania nel 1923, con nel titolo l’aggettivo «odiosa» è una riuscitissima, narrativa, ekfrasis moderna. Feuchtwanger parte dal quadro per rendere la corposa, ripugnante quanto sorprendente figura di Margarethe Maultasch, signora del Tirolo. Una donna segnata da un fisico infelice (la chiamavano «bocca di scimmia»), certo, ma anche da una ambizione smodata e da una sapienza politica rara, di cui dava conto in gesti insoliti. Sullo sfondo di un’epoca travagliata, alla fine del XIV secolo, mentre divampa la battaglia tra i troni per il predominio sul mondo germanico, tra Asburgo, Lussemburgo e Wittelsbach, ella sagacemente riesce a salvare il suo ducato, a garantire la propria indipendenza. Nel frattempo si dedica all’eros, alla sfrenatezza, dà fondo a un umore nero, che spesso la pervade, nella sua dimora senza specchi. Un magistrale ritratto in piedi, quindi, in cui la pittura del maestro fiammingo diventa un personaggio complesso, ambiguo, sgradevole, sempre guidato da un indomabile istinto vitale.
In copertina: Quentin Metsys, L’accordo tra gli amanti, 1520-1525, olio su tavola, National Gallery of Art, Washington.