«Redimere» è l’anagramma del più antico termine latino per «rimediare» (rimedire). Di sostituzioni e spostamenti, muovendo gli stessi elementi per farsi tornare i conti, è pieno il mondo della filosofia, della psicanalisi, della critica… Insomma di chi gioca facilmente e volentieri coi significanti. Giacché il cinema racconta per significanti, non sorprende un regista come Yorgos Lanthimos – intriso, anche involontariamente, di cultura greca classica – fondi il suo cinema su un’interscambiabilità tra redenzione e rimedio. Se non altro questo pare avvenire nei suoi primi cinque lungometraggi, da egli stesso scritti assieme a Efthymis Filippou, e il medesimo atteggiamento si scorge – e anzi piuttosto sinteticamente, come fosse un approdo – anche nel più recente, di cui è pur soltanto regista e produttore. Regna, nei film di Lanthimos, un pertinace meccanismo di riparazione, di concetti accomunati tutti dal prefisso classico «re-»: redimere, rispondere, ristabilire, restaurare, recuperare, rifare… Rimediare.
Nelle trame da tragedia greca (forti soprattutto i riferimenti antigoneschi) tutto ciò che sbilancia è vietato e quindi ogni equilibrio rotto va ripristinato. Tra i simboli elementali più frequenti, a rappresentare il rimedio, c’è l’acqua (piscine, mare…) poiché appunto essa riprende sempre omeostaticamente la sua forma e perché cura, guarisce, lava le colpe (invece: l’aria spazza via, il fuoco distrugge, la terra radica). E anestetizza, non sterilizza: un erotismo attico, obliterato, appunto rimediato, caratterizza tutta la sessualità (sempre) presente in ogni film – compresi incesto e perversioni.

L’appiattimento totale inizia da una temporalità sospesa (ben definita e utilmente configurata solo nella Favorita) come nell’aurorale Kinetta. Complice una Grecia pre-crisi – una nazione che comunque certo non è mai stata all’avanguardia, se non ai tempi della scuola di Atene –, Lanthimos disallinea le epoche e gira nel 2005 un film che restituisce un mondo privo di digitale, con automobili degli anni Ottanta, il walkman e canzoni degli anni Sessanta. Il connotato morale del lavoro è molto evidente e rinforzato in un film quasi senza parola: in Kinetta si parla pochissimo, e per fortuna dacché lo specifico del cinema resta l’immagine (anzi, l’immagine in movimento, schicchera data alla fotografia). La frustrazione di tre velleitari, esibizione iconica del “vorrei ma non posso”, sta lì nell’assenza di parola e sorrisi. La violenza qui sarebbe scusata – ammessa – dalla finzione, elemento costante nella filmografia del greco. Ma la violenza non è mai finta, perché – come tutto ciò che concerne l’etica – non sta nell’atto bensì nell’intenzione.
E in Kinetta il rimedio che propone il regista è triplo. Ce n’è uno mediatico e tecnologico, di ri-mediazione intesa come meta-mediazione: il cinema che parla di sé stesso a livello fondamentale. Di un cinema scarno, allo stato brado, appunto essenziale, che va al nocciolo di ciò che il cinema è: uno che riprende un altro; punti di vista governati da un altro punto di vista. Poi c’è il rimedio dei protagonisti, che cercano nel cinema amatoriale la possibilità di un riscatto. Infine c’è quello – obbligato – di Lanthimos stesso che deve rinunciare alla grande macchina cinematografica – alla quale di lì a poco potrà accedere, ri-rimediando – per fare un film inevitabilmente povero, con gli stessi mezzi che avrebbero i suoi attori nella vicenda (ovviamente con la consapevolezza del regista di professione): la medesima relazione che c’è tra il go-kart, con l’obbligatorietà della pista, e la agognata BMW, con la relativa libertà di guida. Il regista è appunto il poliziotto, che sa guidare, mentre la ragazza – incapace di non farsi male – si schianterà subito dopo la partenza. A ripristinare, a premiare, a punire… A rimediare, insomma, ci pensano le possibilità (talenti, meriti, coincidenze ecc.) di cui si dispone.

Proprio il tema del merito è invece il tipo di rimedio messo in campo da Kynodontas. La dinamica dell’inquietante famiglia raccontata è un gioco a premi. Chi, dei figli, colleziona più adesivi – i punti! – può scegliere l’intrattenimento della serata. La finzione è ancora al centro: guadagnare punteggio, assicurarsi vantaggi, è evidentemente un ideale tutto umano e inventato (la vita, fuori dalla casa, nel mondo “vero”, non è certo così: non è che i migliori vengano premiati e i peggiori puniti), che del resto è l’educazione illusoria che abbiamo ricevuto tutti: “se farai il bravo…”. I figli sono così addestrati come cani («il cane è come la creta», dicono, gli si può dare la forma che si vuole) e il ringraziamento avviene leccando. Il padre è un leader dispotico, un tipo di figura che è sempre presente nei vari film, appena tratteggiata nel poliziotto di Kinetta, poi calcata nei lavori successivi, per arrivare a una regina anche oltre il senno del suo potere nella Favorita.
Anche in questo film c’è una temporalità sospesa, difficilmente attuale nel 2009: televisore con tubo catodico, dischi in vinile, telefono a ghiera, VHS. Proprio la videocassetta, oggetto di una trasgressione, sarà il mezzo della punizione: hai visto ciò che non dovevi, con questo ti picchio. Così il padre punitore, aggiustatore, rimediatore, spaccherà in testa alla figlia le videocassette di Rocky, di Flashdance e dello Squalo (tutti film cardine della cultura di massa, non ammessi in famiglia) e il videoregistratore su quella della donna – proveniente dal mondo esterno – che ha scambiato i video per un favore sessuale. In generale, la punizione è sempre regolata sul contrappasso: chi ferisce l’altro, deve pagare con la stessa ferita, subire lo stesso danno; se si dice qualcosa che non si deve, il castigo è tenere il collutorio in bocca per il tempo deciso dai genitori.
La casa di Kynodontas è una moderna caverna platonica. Vigono una lingua inventata e un’educazione privata, segni sui generis. Tutto ciò che è altrove, che è altro, non esiste. Non c’è mondo fuori dal linguaggio, si potrebbe dire (il che metterebbe d’accordo Chomsky con Wittgenstein), e nel cielo l’aeroplano – che essendo fuori dal loro mondo linguistico e di fatti, difatti è inafferrabile – costituisce un problema.
Ma lo spirito della grecità, di Platone e di una coincidenza di etica ed estetica, aleggia costantemente. Non a caso è nelle Leggi che Platone si sofferma sul rhythmós, nozione motoria spaziotemporale che ordina, equilibra gli opposti, il chiaro e lo scuro che vanno armonizzati.
Appunto la ritmica, la ginnastica musicale, è al centro di Alps (2011). Il gesto e la ripetizione costituiscono il rimedio. Si tratta di prendere il posto dei morti per alleviare il dolore dei vedovi, degli orfani, di chi è rimasto senza il proprio caro, attraverso un’assurda finzione che conoscono tutti. Usando gli stessi oggetti, indossando gli stessi vestiti, incarnando le stesse abitudini, si attua un nuovo gioco, fatto di mimica e sostituzione per ripetere il non identico, recitare la differenza. Omeopatica sfida al motto “solo alla morte non c’è rimedio”, il rimpiazzo, palliativo dell’in-qualche-modo, è una specie di ibuprofene per il lutto. Non è la stessa cosa della vita, ma va bene così. Stavolta è la clavetta da ginnastica ritmica a fungere da strumento della punizione: è un elemento in dotazione a chi sa usarlo e che viene impiegato dal capo per stabilire chi va avanti e chi è fuori dal gruppo perché giudicato non all’altezza.

Nel frattempo, siamo a dieci anni da Kinetta, Lanthimos ha fatto il salto nella produzione internazionale: dalla Grecia al mondo, e anche da una ripresa alla Haneke a una mano e a un occhio che rimandano a Kubrick (sebbene già un’inquadratura delle due sorelle in Kynodontas ricordasse le gemelline dell’hotel di The Shining).
L’aritmetica binaria del rimedio è ben delineata in The Lobster (2015), già nella pari divisione del film in due atti. Nella lussuosa clinica-hotel dove i single devono trovare un partner entro un periodo stabilito (scotto: la trasformazione in un animale a scelta) si plasticizza una logica dell’equilibrio formale che dimostra quanto sia misinterpretato il concetto di natura dall’essere umano. La parità, giustappunto inesistente in natura, è procurata – rimediata, certo – attraverso somiglianze fisiche, esistenziali o curricolari. Giacché «un lupo e un pinguino non possono stare insieme», chi zoppica presumibilmente sarà compatibile con un altro individuo claudicante. L’allucinante equilibrio del curriculum (una donna è stata lasciata perché aveva solo una laurea in matematica e allora le è stata preferita una col dottorato) svela in maniera pornografica un modo di pensare piuttosto diffuso e che con l’attrazione e con l’amore non ha a che spartire: vediamo cosa si può mettere sui piatti della bilancia, siamo degni l’uno dell’altra?
E anche qui le punizioni sono legate allo strumento della trasgressione: ti sei masturbato? (l’atto è vietato) ® la tua mano va ustionata nel tostapane. Il film si snoda lungo bivî continui, atroci aut-aut: non esistono mezze misure (o calzi 44 o il 45); o sei omossessuale o eterosessuale (la bisessualità crea «problemi tecnici»). Dunque la parità è artificiale, assolutamente binaria, digitale, fredda, de-naturale: non uno, non tre, non mezzo: due (appunto l’equilibrio plurale di base). E che genere di due? Non certo il due (o più) in uno (la bisessualità, per esempio), ma l’1 + 1, una forzatura alchemica che non può produrre alcunché di felice. Così nella seconda parte la faccenda è ribaltata, perché per i dissidenti nascosti nel bosco, pena pesanti mutilazioni, è vietato accoppiarsi secondo un ugualmente travisato concetto di libertà: proteggere l’individualità dai legami. E nell’ennesimo gioco a punti escogitato da Lanthimos si è bersagli di chi invece dovrà guadagnarsi ore aggiuntive di permanenza nella clinica: ogni ribelle catturato fa ottenere un giorno in più per trovare il partner.
Sottoposti a prove continue, i clienti-degenti devono ovviamente dimostrare sempre il risultato. Dunque rispondere e corrispondere. Si deve risultare: Re-saltare, ossia rimbalzare, ripercuotersi. Tutto ha una conseguenza.

Il ritorno dell’azione compiuta, la re-azione manifestata molto più prosaicamente e volgarmente che nella dottrina karmica, è ormai esplicita nel Sacrificio del cervo sacro (2017).
Nell’impossibile cercare di rimettere a posto le cose, l’idea di un rimedio alla morte è svolta in maniera diversa da Alps. Ed è doppia. Un cardiochirurgo, sposato a un’oftalmologa, accoglie nella sua famiglia un ragazzo il cui padre non è riuscito a salvare durante un intervento al cuore. Qui gioca il senso di colpa. Il giovane chiede al medico di rimediare uccidendo un membro della sua famiglia, secondo la più tipica legge del taglione. Qui gioca la sete di vendetta. Una vendetta che intanto inizia perché strane patologie cominciano ad affliggere uno a uno i membri della famiglia, a partire dal figlio più piccolo: le si potrà fermare solo dopo il sacrificio di uno di loro. Coerentemente, trattandosi di una coppia medici, la graduale punizione ha termini sanitari (paralisi degli arti inferiori, totale inappetenza, sanguinamento oculare). Ora il rimediare è strettamente connesso all’etimologia: medicare, curare. Ancora nella dinamica dell’equilibrio, poi, anche le due specializzazioni (oftalmologia e cardiologia) sono altamente simboliche: gli occhi (la ragione) e il cuore (l’emotività). Ma per evitare che “tutte le vacche siano nere”, è creato il contrasto – il rhythmós – ed è prima lei ad accettare la possibilità metafisica e magica della faccenda, mentre lui razionalmente la rifiuta. Poi però la donna stessa – che guarda bene, e si guarda bene dal volersi immolare – propone una soluzione “di ragione” («possiamo sacrificare un figlio perché abbiamo modo di farne un altro»), dopodiché, alla fine, il marito affiderà l’esito al “caso” – bendandosi.
I figli stessi tentano di mettere in campo una forma di recupero e di preservazione della vita. Per rimediare, per evitare che sia lui a essere sacrificato, il bambino si taglia i capelli come aveva promesso al padre e afferma di voler fare da grande la stessa sua professione e non quella della madre, come aveva dichiarato inizialmente. Il capo, il responsabile, va blandito (adulato come l’allenatore di Alps, leccato come il padre di Kynodontas o la regina della Favorita, accontentato come il single da conquistare in The Lobster…).
Intanto, nell’orrore del sangue e della malattia, le immagini si fanno belle, perché si ri-fanno (anch’esse come tributo) all’arte pittorica, proponendo per esempio un’iconografia degli sdraiati: da una Kidman stesa à la Füssli al Cristo deposto di tradizione manierista (il piccolo Bob inerme, morituro, sul letto). Posizioni, occupazioni dello spazio dunque, che dicono molto sulla condizione dei personaggi ma soprattutto sullo spirito del film, e questo è ciò che il buon cinema – fatto di inquadrature e quindi di posizionamenti in una cornice – deve saper fare.

Del (ri)prendere posto parla certamente La favorita, una partita di scacchi, con la tipica dinamica del causa-effetto, propriamente un gioco di ruolo, una metafora del riposizionarsi. Qui è tutto un percorso vòlto a rimediare alla perdita di un privilegio che va riguadagnato a ogni costo. Restano alcuni caratteri precipui di talione – tale e tale – come colpire con i libri chi si era appropriata inopportunamente di un volume. Anche la sostituzione – sublimazione regredita allo stato animale – è procurata: la regina ha 17 conigli, tanti quanti sono i figli che ha perduto, nominati allo stesso modo.
In un finale in cui tutto poi torna al proprio posto – hegelianamente, altrimenti non ci sarebbe storia – si compie una vicenda cinematografica che rivela una cifra registica ben precisa e omogenea. Questa estetica del rimedio, una logica della morale fatta di “se-allora”, di “sicché”, di “altrettanto” e di “affinché”, in cui tutto deve tornare, traduce l’ergonomia dall’antropologia all’etica, congiungendo il greco al latino: una ergo-nomia, una amministrazione del quindi. Si tratta cioè di sbugiardare l’illusione di una possibilità algoritmica di regolare la naturalità delle cose, di formalizzare il sentimento e di legiferare un’umanità che si distingue dall’animale, ancor più che per il linguaggio, poiché ha inventato la giustizia. Escogitazione fallace. Non si spiegherebbe altrimenti perché tutti gli equilibri così logicamente ripristinati nel cinema di Lanthimos ci sembrino infine assurdi e paradossalmente ingiusti.
In copertina: una scena del film La favorita, 2018