Lorenzo Mari: Una cospicua sezione del tuo ultimo libro, Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura (Postmedia Books, 2020), è dedicata allo studio di alcune opere di Mary Ruefle, poeta e artista statunitense che da più di un decennio è un nome di punta nel catalogo della sempre sorprendente casa editrice Wave Books. Da una ricerca preliminare, risulta che, fino alla pubblicazione di Lightfossil, Mary Ruefle non abbia goduto di fortuna critica in Italia, mentre negli Stati Uniti l’autrice ha ricevuto, tra l’altro, vari riconoscimenti e premi (tra i quali, il William Carlos Williams Award per i suoi Selected Poems, nel 2011, e il Robert Creeley Award, nel 2014). Ciò che ti interessa nella sua produzione letteraria, artistica e saggistica è, in particolare, la sua pratica delle erasures, o cancellature, alla base di almeno 105 opere (secondo il censimento da lei stessa operato in un’intervista dell’ottobre 2019), tra le quali spicca il titolo A Little White Shadow, pubblicato nel 2006 dalla Wave Books e oggi esaurito. Il libro è costituito da una serie di erasures in bianco, materialmente applicate alle pagine di un’opera con lo stesso titolo, una novella del 1889 di Emily Malbone Morgan. Ne emerge un testo, se non nuovo, completamente diverso e divergente rispetto all’originale, dotato di una dislocazione grafica che rimanda a quella del testo poetico, forse diviso in singoli nuovi testi o forse facente parte di un più ampio flusso poematico. Impossibile a questo punto non pensare ad altre opere basate sulla tecnica della cancellatura, come quelle di Emilio Isgrò o di Tom Phillips – nome evocato dalla stessa Ruefle e che a sua volta ricollega il proprio lavoro al cut-up burroughsiano. Rispetto a questa tradizione, esiste una specificità del lavoro di Ruefle e qual è il suo collegamento con un’altra arte costantemente attraversata da ombra e luce, dunque anche dalla cancellatura di luce, come la fotografia?
Beatrice Seligardi: Come hai già anticipato, è la stessa Mary Ruefle a ricordare come certe di pratiche di azione fisica, epidermica, ma nondimeno testuale, su opere letterarie già esistenti facciano parte di una tradizione, più artistica che letteraria, che ha attraversato in varia misura l’arte contemporanea occidentale del secondo Novecento. Dal mio punto di vista, lo scarto rispetto a questa possibile ascendenza consiste proprio nella centralità assunta, nelle erasures di Mary Ruefle, dalla parola letteraria e poetica rispetto al gesto visuale. L’apparato iconico che costruisce – nel caso delle bianchettature o degli annerimenti – o che accompagna i componimenti poetici – nel caso di piccoli collage di illustrazioni e fotografie applicate alla pagina – non oblitera, ma anzi, dà nuova vita alla fonte primaria di senso che costituisce l’erasure, ovvero un testo oscuro, enigmatico, ma che proprio per questo ha la capacità di risuonare in modo sensibile all’orecchio di chi legge. È evidente, tenendo tra le mani ad esempio A Little White Shadow, che la relazione instauratasi tra i brevi componimenti poetici – che nelle parole di Ruefle devono essere considerati nel loro insieme, rispettando l’unità di senso data complessivamente dal volume – e la consistenza quasi materica del bianco applicato sulla maggior parte del testo originario è qualcosa di molto diverso dall’ironia già all’insegna del postmoderno apprezzabile, ad esempio, nelle cancellature di Isgrò. Ruefle mantiene intatta quella sensazione elegiaca del tempo passato che ci trasmettono, ad esempio, gli oggetti di inizio Novecento scoperti per caso in qualche mercatino antiquario. Ma le parole che l’hanno preceduta diventano per la poeta strumento di espressione di una voce – la propria – che può esistere in quanto parte o successione di e da altre voci. Si tratta di quello stesso sentimento di malinconia che Susan Sontag citava a proposito delle prime attestazioni fotografiche, i dagherrotipi. E coma la natura originaria della fotografia – non di quella digitale e compulsiva degli smartphone, ma di quella analogica e un po’ magica di metà Ottocento – era eminentemente fantasmatica, così lo è anche l’erasure di Mary Ruefle, che lavora a partire da testi essi stessi fantasmi – sconosciuti romanzi americani di fine Ottocento. E, d’altronde, quella “little white shadow” del titolo, al di là di intessere un raffinato gioco metatestuale con l’atto stesso della bianchettatura, non può che evocare immagini di piccole apparizioni fluorescenti, così simili ai soggetti delle prime lastre fotografiche.

LM: Fotografia, dunque, non soltanto disegno – aggirando così il nesso maggiormente prevedibile, in presenza di una realizzazione grafica, per quanto in bianco, applicata su un’opera pre-esistente… La convocazione di un’altra arte mi sembra particolarmente significativa anche per un altro motivo: l’associazione delle erasures con le piccole apparizioni fluorescenti dei dagherrotipi ci porta lontano dal principio di distruzione creativa che regola altri procedimenti artistici basati sulla cancellatura (con il risultato, talora, di passare acriticamente da una produzione di immagini all’altra) per andare, invece, a indagare il procedimento artistico nella sua storia, nel suo farsi (e disfarsi). A questo corrisponde un nesso del tutto interno alle erasures di Mary Ruefle con una “temporalità complessa e anacronistica”, come la definisci tu, rispetto alla quale l’opera di Ruefle svolge una funzione indicale.
BS: Nel caso di A Little White Shadow è il titolo stesso a suggerire un possibile intendimento “indicale” dell’opera. L’ombra, infatti, rientra a pieno titolo in quella categoria che, da Peirce in poi, viene definita “indice”, cioè segno che indica l’esistenza di un oggetto secondo un rapporto di modificazione e di contiguità fisica. Di nuovo torna la somiglianza con la fotografia, altro esempio di indice comune a tutti i manuali di semiotica, e, d’altronde, il noema fotografico individuato da Roland Barthes – è stato – cos’è se non la suprema sintesi verbale dell’indice stesso? Ecco, secondo me potrebbe essere interessante interpretare la parola poetica che scaturisce dall’erasure anche e soprattutto alla luce dell’indice, lasciando da parte da un lato un’idea di testo-ombra in senso maggiormente cannibalico e parodico, e dall’altro, però, anche una sovrapposizione, per noi occidentali quasi inevitabile, tra “indice” e “indizio”. Se l’indice, semplicemente, attesta che qualcosa è stato, l’indizio, all’opposto, ci induce a voler ricostruire la fisionomia, l’intendimento e la ragione di ciò che è stato. Il paradigma indiziario, come ha detto una volta per tutte Carlo Ginzburg, ha permeato gran parte dell’evolversi delle discipline a partire, soprattutto, dall’Ottocento – e l’impressione è che oggi non ce ne siamo certo allontanati. Io stessa credo di essere caduta nel tranello: dopo aver letto e riletto A Little White Shadow, a un certo punto ho pensato che, per risolvere l’enigma dal quale la sua struttura mi pareva avvolta, dovevo recuperare il testo originale. Non è stata un’operazione semplice, ma nemmeno eccessivamente complessa. Ruefle non nasconde mai i nomi delle autrici e degli autori dei testi sui quali lavora, e d’altronde il nome di Emily Malbone Morgan è apparso anche in alcune delle interviste o delle recensioni al libro. Grazie alla digitalizzazione e condivisione di testi liberati dai diritti d’autore ad opera delle biblioteche statunitensi, recuperare il testo della novella originaria è possibile. Ma una volta terminata la lettura, ho capito che, almeno dal mio punto di vista, non era quello il punto. A Little White Shadow di Mary Ruefle non è un invito alla riscoperta di titoli dimenticati, e non è nemmeno un raffinato gioco di cancellazioni per indurci a riflettere sulla perdita di senso delle parole. È, piuttosto, un’elegiaca e bizzarra attestazione del tempo che scorre e delle sue incongruità, fatte di tracce che hanno la capacità di evocare nostalgia per qualcosa che non ci appartiene, per un passato che non è il nostro – e qui mi sembra che si possa vedere nuovamente un parallelismo con quello che scriveva Susan Sontag a proposito della malinconia che proviamo nel riguardare i dagherrotipi o le vecchie fotografie –, e che tuttavia ci risulta appetibile perché ce ne attira il suo segreto, la sua inspiegabilità. Il senso ultimo dell’erasure, almeno in questa raccolta, è l’enigma.

LM: Se il senso ultimo delle erasures di Mary Ruefle è l’enigma, si potrebbe forse pensare che questo renda estremamente difficile, se non impossibile, tradurne l’opera e portarla così alla conoscenza di un pubblico diverso da quello di partenza: la difficoltà non risiederebbe tanto nell’enigmaticità dell’opera all’atto della sua fruizione, ma nel tentativo di restituire un simile senso dell’enigma. Esistono molti casi simili – anche se in ultima istanza diversi, per appartenenza di genere e possibilità traduttive – nella traduzione della poesia visiva o della poesia concreta, con esiti che variano dalla riproposizione letterale del testo in un nuovo contesto – secondo una pratica che appare intimamente legata alla pratica artistica dell’installazione – alla consapevole creazione di “nuove versioni” o “nuove opere”. Penso ad esempio il caso di Guy Bennett e alla sua traduzione dell’opera di Giovanna Sandri per il pubblico americano, dove il contatto tra autore e traduttore può portare a una manipolazione del testo da parte dell’autore – Giovanna Sandri, in quel caso – che può mettere definitivamente in crisi la possibilità di un’autorialità dal lato della traduzione. (E non che questo sia necessariamente un male, in sé.) In Lightfossil, procedi invece alla traduzione di alcuni testi o frammenti di testo di Ruefle – in primo luogo, si può facilmente immaginare, per un’esigenza pragmatica connessa alla tua analisi critica – accostandoli alla riproduzione fotografica di alcune pagine da A Little White Shadow – non solo per un interesse documentario, ma a ribadire anche la capacità di resistenza dell’opera originale ad una sua normalizzazione. Qual è stata, dunque, la tua esperienza di traduzione?
BS: Mi sono trovata un po’ “costretta” a tradurre i versi di Mary Ruefle per uniformare il mio libro alle norme editoriali della casa editrice, ma questa costrizione si è rivelata per me estremamente preziosa, perché mi ha obbligata a interrogarmi proprio su questo punto, anche se il risultato rimane comunque confinato alla traduzione di servizio. Nell’economia di Lightfossil, in cui la presenza della traduzione – che segue, nel corpo del testo, la citazione in originale, che resta, dunque, centrale – è legata esclusivamente a ragioni di miglior comprensibilità linguistica da parte di chi legge, ho proposto brani che corrispondessero alla misura di una singola pagina di A Little White Shadow. E qui si pone il primo quesito: siamo proprio sicuri che in ciascuna pagina vi sia effettivamente un singolo componimento? Difficile dirlo: in alcuni casi sembrerebbe così, ma per altri sembra piuttosto che siano due pagine prospicenti a esaurire il senso di una poesia unitaria. E non dimentichiamoci che Ruefle stessa ha indicato, per le sue erasures, la misura unitaria dell’intero libro. Nel riportare tanto la versione originale quanto la traduzione corrispettiva, mi sono limitata, graficamente, a seguire gli a capo suggeriti dalla disposizione delle parole presenti nell’originale rispetto alle righe del testo primario, cioè di A Little White Shadow di Emily Malbone Morgan: al cambiare della riga, sono andata a capo, lasciando nel medesimo verso parole che invece, sulla pagina di Ruefle, erano state separate da una bianchettatura. Questa è la scelta arbitraria forse più rilevante che ho dovuto adottare per ragioni eminentemente grafiche, e proprio per questo mi è premuto poter inserire almeno tre immagini (in Lightfossil sono in bianco e nero, ma sono a colori nella pubblicazione di Ruefle), in modo che chi legge possa farsi un’idea non solo del processo di cancellatura, ma anche della sua finale resa estetica. Se dovessimo pensare a una traduzione letteraria e integrale di A Little White Shadow di Mary Ruefle, e più in generale dei suoi libri di erasures, i dubbi da dissodare sarebbero moltissimi: come rendere la materialità del testo su cui sono state effettuate le cancellature? Quella pubblicata da Wave Books è una fedele riproduzione scannerizzata dell’edizione del 1889 in possesso di Ruefle, su cui la poeta ha agito. Come poter “tradurre”, dunque, la grana della carta o il carattere tipografico del testo di Malbone Morgan, elementi indispensabili per “esperire” le erasures? Ma se questi aspetti di carattere visivo possono essere in qualche modo aggirati o “simulati” da parte di qualche grafico in gamba, come comportarsi allora, da un punto di vista semantico, con la novella del 1889? Dovremmo limitarci a tradurne gli affioramenti che costituiscono i componimenti di Ruefle? O dovremmo provare a tradurre non solo il testo, ma anche il processo dell’erasure, e dunque prima tradurre il racconto di Malbone Morgan, e poi individuare sul testo tradotto quanto individuato da Ruefle? Forse arriveremmo ad avere gli stessi testi, o forse il secondo metodo ci porterebbe ad avere qualcosa di più lontano dal significato delle parole di Ruefle, ma di più vicino, magari, alla sua idea di poesia. Non lo so davvero, e forse, nuovamente, non dobbiamo risolvere l’enigma, ma lasciarlo così, come traccia visibile del limite del nostro linguaggio, e forse anche del nostro senso del tempo.
Beatrice Seligardi
Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura
Postmedia Books, 2020
150 pp. 12 ill. bn e colore
€ 16,90
In copertina: Mary Ruefle, Melody: The Story of a Child, 2012