Un fuoco con la legna bagnata. Arriva Frédéric Pajak

Con la pubblicazione del primo volume del ciclo Manifesto incerto, intitolato Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, anche i lettori italiani potranno finalmente tributare la giusta ammirazione a una delle imprese artistiche più originali e illuminanti del nostro tempo, come sta avvenendo in tutta Europa. Nato in Francia nel 1955, da padre polacco e madre alsaziana, ma cresciuto in una delle più sordide periferie di Parigi, Frédéric Pajak è uno di quegli individui che, pungolati dalla necessità, hanno fatto letteralmente di tutto (non escluso, quando non c’era altra scelta, chiedere l’elemosina): dall’inserviente in un macello industriale al cuccettista sui treni notturni. È proprio dopo una notte passata a conversare con un anonimo passeggero sulla tratta Parigi-Roma (sì, proprio quella della Modificazione di Butor !) che Pajak si ritrova nella testa un titolo, Manifesto incerto, al quale non sa ancora attribuire la più vaga idea di una forma o di un contenuto. Pajak ha lungamente allenato i suoi due talenti complementari di scrittore e disegnatore, un po’ come un pianista lavora sulla mano destra e sulla sinistra, fino a che è diventato capace di far suonare a entrambi la stessa musica. Il Pajak scrittore è dotato di uno stile incisivo e sorprendente, capace di evocare vari generi narrativi senza mai identificarsi con nessuno. Il disegnatore a china, abilissimo nei chiaroscuri, mi ricorda un po’ due giganti dell’illustrazione italiana, Dino Battaglia e Sergio Toppi.

Quando nel 2002 è uscita questa parte iniziale del Manifesto incerto, dedicata a un pensatore certamente complesso e a volte vertiginosamente sibillino come Benjamin, l’«incertezza» evocata dal titolo si trasferì fatalmente alla critica, che non sapeva definire esattamente l’opera che si trovava per le mani. Essendo ormai consolidato e abbastanza trasparente il concetto di «graphic novel», si pensò a qualcosa come «saggio grafico». Ma a parte il fatto che Pajak contamina molti registri, uscendo dal seminato e rientrandovi imprevedibilmente con digressioni personali e squarci di memoria, cosa che certamente mina l’affidabilità di un qualunque discorso saggistico, la sua novità artistica mi sembra decisamente da cercare altrove. Ovvero, nel particolarissimo tipo di rapporto che l’autore istituisce tra testo e immagine. Tale rapporto non tende mai né a rendere più evidente il significato della scrittura, come nel concetto più classico e scolastico di «illustrazione», né a spiegare in qualche modo l’immagine, subordinandole il testo in veste di didascalia. È verosimile che, come è capitato anche a W.G. Sebald, Pajak abbia tratto una decisiva ispirazione dalle sperimentazioni grafiche surrealiste e in particolare da Nadja di Breton, piegandole alle proprie esigenze.

Quello che si realizza con questa scelta è un equilibrio rischioso e sorprendente. Tanto più che la vita del grande filosofo berlinese e la propria esperienza personale sono due livelli della narrazione talmente contigui che il racconto slitta continuamente dall’una all’altra. Molto raramente nei disegni appare l’immagine consueta di Benjamin, con i suoi baffi e i suoi occhiali tondi, immortalati in tanti ritratti fotografici. Che senso avrebbe disegnare un filosofo seduto alla sua scrivania o al tavolino di un bar, mentre pensa o scrive? L’ambizione di Pajak è incomparabilmente più grande: quello che le parole scritte e le immagini vogliono rappresentare è né più né meno che l’essere-nel-mondo di un individuo che non solo è un grande filosofo, ma ha votato, un po’ per scelta un po’ per necessità, la sua vita a un perenne nomadismo. È come se Pajak, facendo tesoro della tecnica della ripresa soggettiva nel cinema e trasferendola sull’immobilità della pagina, riuscisse a farci entrare nel centro più riposto e inimitabile della soggettività di un individuo, che è il suo sguardo, la sua maniera di creare una relazione con i paesaggi umani e naturali che attraversa. Pajak ne è sicuro e noi, mentre lo seguiamo, non possiamo che dargli ragione: il fatto che il formidabile edificio del pensiero di Benjamin sia stato edificato in camere d’albergo di terz’ordine o in alloggi casuali e provvisori, da un ebreo comunista in fuga dalla Germania nazista, povero in canna e senza nessuna professione ufficiale, non può essere considerato una semplice circostanza esteriore. Come sapevano perfettamente i Greci, che elaborarono il concetto di «sapiente», non esiste un pensiero separabile dalla vita di chi lo pensa, la filosofia non essendo altro, in fin dei conti, che una forma di vita più rara e impervia delle altre. È stato lo specialismo accademico, che considera la biografia un sapere ancillare e rinunciabile, a costruire dei sistemi di pensiero del tutto astratti, fatti solo di parole e di sistemi di concetti di cui noi profani non comprendiamo quasi mai l’utilità. La storia della filosofia, così come è insegnata nelle scuole e nelle università, è una colossale censura delle condizioni stesse in cui un pensiero prende forma e sostanza. Così i concetti (le «idee platoniche», l’«empirismo», la «dialettica»…) viaggiano nel tempo reagendo l’uno all’altro e creando l’illusione che si riproducano da soli, senza bisogno di nessuna esistenza reale, immuni dalla pressione delle contingenze. Una volta infranta l’unità della sapienza, incarnata nella vita dei singoli sapienti, rimane solo un gergo più o meno affascinante, un formulario pronto a dissolversi di fronte alla prima emergenza reale che si presenti.

Pajak si muove in direzione del tutto opposta: non astrae, tanto meno divulga. Ma quando arriviamo alle pagine dedicate ai due soggiorni di Benjamin a Ibiza nei primi anni Trenta, è come se per magia ci trasportasse non in questo o in quel contenuto dell’opera di Benjamin, ma nel processo stesso del pensiero nel suo farsi. E così, le splendide immagini dei villaggi contadini e delle scogliere di Ibiza e le rivoluzionarie, attualissime idee di Benjamin sul romanzo come causa della morte dell’arte narrativa acquistano una congruenza davvero inaspettata, che deriva dallo sforzo costante di Pajak di dare un luogo, un corpo, una particolare e irripetibile tonalità affettiva a un’idea o a un complesso di idee. Se Benjamin fosse stato un intellettuale più protetto socialmente, un professore asserragliato in qualche biblioteca, avrebbe scritto e pensato in maniera diversa? E se per converso Martin Heidegger avesse vissuto come uno sradicato ramingo di città in città, si sarebbe risparmiato tante nefandezze ispirate al sangue germanico e al suolo natio? Ipotesi indimostrabili, ma il libro di Pajak mi conforta in questa convinzione.

Ad ogni modo, conosco solo una scrittrice che è riuscita a produrre un’immagine di Benjamin così vivida ed empatica come quella di Pajak: Hannah Arendt. Ma lei aveva, rievocando il caro amico, tutti i vantaggi e tutti gli svantaggi della prossimità. La posta in gioco di Pajak è ancora più difficile e preziosa, perché si tratta di capire in che modo ognuno di noi è in grado di farsi carico del passato, che per definizione è composto di ombre di sconosciuti. È come «accendere un fuoco con la legna bagnata», confida a un certo punto ai suoi lettori l’autore di Manifesto incerto. Ma è proprio ciò che un artista degno di questo nome non deve mai smettere di fare: perché l’arte, la poesia, la musica, la filosofia non sono altro che maschere e sinonimi dell’unico gioco che veramente valga la candela, che è vivere la propria vita fino in fondo.

Frédéric Pajak
Manifesto incerto. Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio
traduzione di Nicolò Petruzzella
L’Orma, 2020, pp. 192, € 28

Questo articolo è apparso su «La Lettura» il 19 aprile 2020

(Roma, 1964) Critico e scrittore, collabora al «Corriere della Sera» e al «manifesto» e fa parte del comitato di redazione di «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato libri di critica (“Istruzioni per l’uso del lupo”, 1994; “Musica distante”, 1997; “Il viaggio iniziatico”, 2014), romanzi (“I cani del nulla”, 2003; “Il libro della gioia perpetua”, 2010; “Il popolo di legno”, 2015), memorie (“Senza verso”, 2004; “Qualcosa di scritto”, 2012; “Sogni e favole”, 2019), libri di viaggio (“L’onda del porto”, 2005; “Ontani a Bali”, 2015). Il suo prossimo libro, “Due vite”, uscirà da Neri Pozza a fine maggio.

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