«Al caffè Zum Kater Hiddigeigei [“Al gatto Hiddigeigei”], in piazza, luogo d’incontro serale dei tedeschi, buono e per nulla caro, birra alla spina, l’oste Morgano vende anche libri». Indicazioni come queste, tratte dalla guida Baedeker Italia in un volume (1899), e narrazioni leggendarie come quelle di Freiherr Gaudy, Jean Paul e Ferdinand Gregoroviuse Hans Barth fecero di Capri il rifugio mediterraneo degli intellettuali tedeschi, inglesi e russi di fine secolo. E all’ospitalità del rinomato caffè cosmopolita – «dove, eccetto il nome, non vi è nulla di sgradevole»[1] – al primo piano di un albergo nell’attuale via Vittorio Emanuele dovette cedere anche Walter Benjamin. Partito per Capri nell’aprile del 1924, finì per stabilirvisi, a dispetto di ogni proposito, sino ai primi di ottobre, cambiando due volte domicilio: «qui almeno», scrisse all’amico Scholem in una lettera del 10 maggio, «la vita è meno cara che a Berlino»[2]. Partì, tuttavia, non senza prima aver riordinato le citazioni e raccolto in un faldone tutti i materiali necessari per lavorare al libro sull’Origine del dramma barocco tedesco, di cui a Capri stilò la celebre Premessa gnoseologica.
L’incontro con la drammaturga lettone Asja Lacis, trasferitasi a Capri per curare la polmonite della figlioletta Daga, fu propiziato da una mandorla. Recatasi in drogheria per comperarne una manciata, ella finì, come nella fiaba del Basile, per guadagnare uno “Smalto Splendente”. Poiché ne ignorava il nome italiano, un uomo che si trovava nei pressi si accostò al banco e formulò l’apriti-sesamo. «Permetta che mi presenti», aggiunse, «Dottor Walter Benjamin». Ne frequentò subito la casa, fece amicizia con Daga – che ritrarrà in Einbahnstraße –, condivisero le feste capresi, discussero a lungo di Proust, teatro moscovita e comunismo.
Visitarono Napoli insieme: «Vedemmo», così la Lacis nelle sue memorie, «una grande miseria: intere famiglie vivevano in mezzo alla strada per risparmiare la pigione. Vidi in un cesto un lattante che succhiava da una grossa bottiglia piena di un liquido rosso; Walter mi spiegò che le madri davano il vino ai neonati perché si addormentassero in fretta e le lasciassero in pace. […] Poi Benjamin», continua, «mi propose di scrivere insieme un articolo su Napoli»[3]. […] Consegnato alla Frankfurter Zeitung in primavera, l’articolo sarà pubblicato solo il 19 agosto 1925.[4]
Walter Benjamin deve aver tenuto molto al saggio su Napoli, se è vero che in una lettera del 21 luglio 1925 ne lamenta il rinvio della pubblicazione. Egli poté, infatti, per la prima volta sperimentarvi quella ritmica del montaggio – un’idea centrale (la porosità) viene scandita in brevi e successive immagini tratte dal quotidiano – che finirà per caratterizzare il proprio, inconfondibile, stile letterario. Neapel non è soltanto la prima delle tante «immagini di città»[5] che Benjamin potrà col tempo archiviare, ma sembra altresì contenere la miniatura fedele dei celebri Passages parigini, l’opera che lo tenne occupato per ben tredici anni.
In modo analogo, anche Asja Lacis dovette affidare al saggio su Napoli il programma del proprio lavoro teatrale: «Una volta», trascrive nelle sue note, «osservai che le case di Napoli sembravano porose. Quando torno a casa, mi dissi, farò delle scenografie con un numero infinito di ribalte»[6]. Così, il teatro rivoluzionario di Mejerchol’d, fondato su gestualità e spazio a discapito della trama, cui la Lacis s’ispirava, esibiva, con le sue «porte girevoli, i balconcini … i piccoli pannelli, siparietti e velari»[7], quella stessa scenografia anarchica del centro che il saggio si era provato a ritrarre.
Il continuo transitare di un elemento architettonico nell’altro –portale cortile loggiato scalone ballatoio – assume il nome parlante di «porosità», un attributo che la Lacis cavò fuori direttamente dal tufo delle case partenopee. Quella pietra di cui a Napoli, secondo Erri De Luca, è costituita la stessa materia della voce[8].
Ma la porosità non concerne esclusivamente la roccia o l’architettura. Qui nulla sembra chiuso, stabilito, congelato, ma il giorno feriale è anch’esso spugnoso, e finisce per assorbire il festivo; la miseria si mescola col lusso, il Cristo alla parete s’infiltra nelle bambole del Pallonetto di Santa Lucia, e la chioma dei pini della riviera è una mimesi dei fuochi pirotecnici sul mare. Dall’abitazione alla fede, dal lavoro alla festa, dai commerci alla ristorazione, la porosità costituisce, cioè, l’idea mediante cui Napoli si lascia contemplare in tutte le sue (mai isolate) componenti. «Essa significa», scriverà Ernst Bloch a distanza di un decennio, «nient’altro che una mescolanza del basso con l’alto e dell’alto col basso»[9]. […]
Ma il concetto di porosità non sembra affatto nuovo alla filosofia. Su di esso, anzi, proprio a Napoli è tramandata un’antichissima dottrina. Furono Leucippo e Democrito i primi a concepire l’intera materia come porosa. I corpi sono infatti costituiti da corpuscoli (gli atomi) che, venendo a contatto, si compenetrano attraverso degli interstizi vuoti (i pori). Degli atomi, tuttavia, l’uomo percepisce solamente un’immagine in miniatura (eídōlon), la quale penetra attraverso i pori comunicandosi al senso e all’intelletto. «Le affezioni», sostiene Leucippo, «avvengono attraverso i pori (páschein dià pórōn)»[10]; e a seconda della loro forma (se siano larghi o stretti, triangolari o quadrati) ciascun organismo assorbe immagini diverse, che corrispondo a sensazioni divergenti (al contrario dei pori felini, i pori degli uomini sono ad esempio conformi al simulacro dell’uva, da cui il piacere dell’uomo per il vino)[11].
Quello degli atomisti è un mondo-spugna, o un mondo-tufo, poroso e permeabile, ove il sole è paragonato alla pietra pomice[12], e la lingua – la stessa che a Napoli fa conoscenza dei succhi aromatici – costituisce la parte più porosa del corpo umano, in grado di accogliere una gran varietà di figure[13]. In esso non trovano spazio sostanze isolate, ma continue aggregazioni di atomi, le cui immagini penetrano l’anima producendo il pensiero.
Così, anche per Benjamin la porosità non descrive una caratteristica qualunque dell’oggetto. Essa definisce, piuttosto, una precisa «ottica dialettica». Porosa è, in altre parole, la stessa materia del pensiero – ove gli opposti (segreto/quotidiano; contadino/marinaio; vita/poesia) vengono a compenetrarsi in un’unica immagine, il Denkbild.
Il pensiero può, cioè, secondo Benjamin, cogliere la verità del fenomeno non attraverso un processo di trasformazione dal prima al dopo, da una forma all’altra, né passando per una qualche sintesi del molteplice. Le forme sensibili sono, piuttosto, solamente comprese l’una attraverso l’immagine dell’altra. Esse non si legano e fondono, ma si contengono come scatole cinesi in sequenza.
Così, se l’attributo essenziale di Napoli è la porosità – se in questa città sacro e profano, lutto e gioco, sonno e veglia lasciano inesorabilmente cadere ogni loro differenza, tracimando ogni confine e permeandosi –, nella sua immagine deve allora essere custodita qualcosa come un’esemplarità tanto del pensiero quanto della stessa comunità. Costituire poroso il mondo – nel costante esercizio di compresenza e permeazione degli elementi che il potere tiene separati – rappresenta un compito rivoluzionario.
Se il fenomeno è vero – si rende, cioè, conoscibile – quando è poroso, Napoli è allora la forma della città conoscibile per eccellenza. A Napoli, anzi, la conoscibilità è essa stessa una forma del mistero, e il mistero una ribalta del conoscibile. Quante immagini possono abitare in una sola città, e quante Napoli devono esserci in ogni singola immagine!
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[1] W. Benjamin, Lettera a G. Scholem del 13 giugno 1924, Briefe, vol. I, ed. G. Scholem/Th. Adorno, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1966, p. 347. La famiglia Morgano aveva ridenominato il caffè in onore del gatto Hiddigeigei, personaggio del poemetto scritto a Capri nel 1853 da August von Scheffel Der Trompeter von Säckingen (Il trombettiere di Säckingen). Voce narrante, il gatto nero pontifica dalla cima di una torre: «L’uomo è tutto un trafficare/ L’uomo un gran batti e ribatti/ Ben cosciente del suo fare/ Siede il gatto sopra i tetti! […] O Napoli, paese d’ogni bene / Terra degli dèi banchetto/ Sorrento, a te si viene / Sorrento, dei tetti il Tetto!». Una deliziosa descrizione del caffè in Osteria, di Hans Barth: «Kater Hiddigeigei – che è tutto: cioè salone artistico, bazar, agenzia di cambio e birreria […] Don Peppino, il padrone diventato storico, […] è poco visibile, ma si vede il figlio Mariano, che padroneggia la lingua di Goethe come se l’avesse imparata da un germanico sergente dei pretoriani di Tiberio. La birra vi è sempre eccellente. Ultimamente don Peppino, facendo gli scavi di una cantina, trovò delle anfore antiche e una testa di somaro. Quale cliente degli antenati di don Peppino ve l’avrà lasciata? O che sia quella dell’asinello di Sileno? Forse qualche Professore tedesco può farne oggetto di una memoria o di un contributo» (Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane, Enrico Voghera Editore, Roma 1909, p. 232).
[2] W. Benjamin, Lettera a G. Scholem del 10 maggio 1924, Briefe, I, p. 345.
[3] A. Lacis, Revolutionär im Beruf. Berichte über proletarisches Theater, über Meyerhold, Brecht, Benjamin und Piscator, Rogner und Bernhard, München 1971, tr. it. di E. Casini-Ropa, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1976, p. 102.
[4] Benjamin e Lacis continuarono a frequentarsi a Berlino nei mesi invernali del ’24. Poi a Riga nel ’25 e ancora a Mosca nell’inverno ’26/27 (dai materiali raccolti, Benjamin elaborò Mosca,pubblicato nel ‘27). Nel ’28 scrisse un programma peril teatro dei bambini da lei fondato a Orël. Il saggio su Napoli fu rielaborato per una trasmissione radiofonica della Sudwestdeutsche Rundfunk (Radio Germania Sudovest), andata in onda il 9 maggio 1931, dal titolo: “Radio per le scuole – Un viaggio in Italia: Napoli”.
[5] “Städtebilder”: così Peter Szondi volle intitolare la raccolta in un solo volume (Suhrkamp 1963) dei saggi di Benjamin sulle città visitate, di cui Neapel costituisce il primo brano.
[6] A. Lacis, cit., p. 102.
[7] V. E. Meyerhold, La rivoluzione teatrale, tr. it. G. Crino, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 242, 282.
[8] E. De Luca, Tufo, Libreria Dante & Descartes, Napoli 1999. La questione ha ispirato anche la raccolta La città porosa. Conversazioni su Napoli, a cura di C. Velardi, Cronopio, Napoli 1992.
[9] E. Bloch, Aprile italiano, «Frankfurter Zeitung», 20.4.1932. I coniugi Bloch soggiornarono a Capri nel settembre del ’24, dove s’intrattennero a lungo con Benjamin e Lacis. In Italien und die Porosität, pubblicato nel 1926 sul periodico Weltbühne, Bloch preleverà il concetto di porosità estendendolo a cifra dell’intera penisola: «Dalla Piazza di Capri a Piazza San Marco a Venezia, l’Italia è cosparsa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In queste piazze è mescolata – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il caldo riparo degli interni. Ma se si pensa che la porosità abbia solamente a che fare col semplice rovescio di dentro e fuori, la strada di Napoli allora insegna come una città italiana possa uscire alla scoperta anche senza piazza; come sia la stessa caoticità della stanza a costruire una piazza nell’immagine della città». Cfr. C. Ujma, Zweierlei Porosität. Walter Benjamin und Ernst Bloch beschreiben italienische Städte, in «Links. Rivista di letteratura e cultura tedesca/Zeitschrift für deutsche Literatur und Kulturwissenschaft», vol. VII, Fabrizio Serra Editore, Roma/Pisa 2007, pp. 57-64.
[10] Aristotele, De generatione et corruptione, 325a 23–b 11.
[11] Lucrezio, De rerum natura, IV, 649-57.
[12] Diogene di Apollonia, 64 A 13 Diels-Kranz.
[13] Teofrasto, De sensu, 65; Lucrezio, IV, 618-21: «come spugna intrisa d’acqua […] il succo permea i curvi pori della lingua (per flexa foramina linguae).