Intelligenza e barbarie

01/05/2020

Nell’antichità greca e latina le più gravi pestilenze (così venivano chiamate tutte le malattie ad alto tasso di contagiosità e mortalità, invisibili, imprevedibili e incurabili) hanno come conseguenza, nella tradizione letteraria, il tracollo delle norme religiose, sociali e politiche, e un azzeramento delle sovrastrutture create dagli uomini nel tempo. Le epidemie sono insieme causa ed effetto di barbarie, vale a dire di una colpa morale, di una violazione dell’ordine religioso e naturale (che erano, semplifico, la stessa cosa). La spiegazione religiosa si accompagnava spesso a quella razionale senza soluzione di continuità. Anche oggi molti credono che questa pandemia sia la punizione per gli oltraggi inflitti dall’uomo alla natura, che da tempo ha assunto i contorni di un idolo, una religione con i suoi dogmi e i suoi riti, e si può immaginare che ancora di più lo sarà da qui in avanti. La scienza a sua volta (intesa come vulgata scientifica banalizzata e indiscutibile) dimostra la violazione della natura e guida gli uomini nel cammino di risanamento del mondo, e alla scienza dunque occorre inchinarsi, a maggior ragione oggi. Infatti i progressisti (termine vago, ma non saprei in che altro modo chiamarli) apprezzano il fatto che la maggior parte dei governi abbia avuto il buon senso di obbedire alla scienza anziché al mercato (o vi sia stata costretta): vi intravedono la possibilità di un nuovo ordine, più giusto e più rispettoso dei diritti dell’uomo e dell’ambiente.

Per Giorgio Agamben invece con questa pestilenza si è oltrepassata la soglia che separa l’umanità dalla barbarie. Utilizza in parte, per dimostrarlo, stilemi tucididei (anche se il riferimento esplicito è ad Antigone): i corpi bruciati senza un funerale e i funerali senza corteo, l’eclissi dei più nobili tra i sentimenti umani, come l’amicizia, l’amore, la pietà, l’abdicazione della religione tradizionale (i cadaveri ammassati nei templi, nei quali gli uomini si rifugiavano cercando aiuto dal cielo, corrispondono oggi al silenzio di Dio nelle chiese deserte). Nella Fase due si può fare visita solo ai congiunti, nei quali vanno inclusi anche gli «affetti stabili»: chi si vuole bene, ma non ha una relazione documentabile o dimostrabile in qualche modo, non rientra nelle deroghe al confinamento. Anche in Tucidide e in Lucrezio muoiono del resto per primi i buoni, che non si astengono dal soccorrere i malati e i bisognosi, e così facendo portano la pestilenza di casa in casa.

È difficile non vedere in provvedimenti come questo e in quelli che nei giorni scorsi hanno delimitato il campo delle libertà individuali e collettive, con glosse bizantine cresciute le une sulle altre, un segno di degrado sociale, se proprio non si vuole chiamarla barbarie; perché quella che stiamo vivendo è oggettivamente una forma sofisticata di barbarie, e il fatto che nasca da una necessità non la fa diventare un’altra cosa. Anche gli antichi, e i romani in particolare, la conoscevano bene: era il decadimento prodotto da un eccesso di civiltà, che si esprimeva in primo luogo nella sovrabbondanza di legislazione che noi diremmo speciale e andava a colpire soprattutto la sfera dei comportamenti individuali. La perdita della libertà esteriore era specchio della schiavitù interiore (incapacità di autogovernarsi), in un circolo vizioso: il principato era causa ed effetto della crisi morale dei cittadini. Allo stesso modo, per proseguire con i circoli viziosi, la logica prima dell’etica dovrebbe far nutrire qualche dubbio sulla propaganda della comunità che fa quadrato per proteggere i più deboli, considerando lo sterminio degli anziani nelle Rsa (una retorica giustificazionista di questo genere si trova ad esempio in un articolo di Tiziano Scarpa, esemplare per densità di luoghi comuni, nel quale si spiega, contro Agamben, che tutto quello che stiamo vivendo non è barbarie, ma squisitissima civiltà). Quegli anziani, ammassati in lager legalizzati, sono invisibili e quasi non fanno statistica.

Mi permetto una considerazione personale. Sono orgoglioso di pubblicare quel poco che scrivo per Quodlibet, che in un momento come questo sta dando spazio ad Agamben sul suo sito web (e senza premettere esergo farisaici come “La casa editrice non si riconosce…” o simili). Mi disgusta che si imputi ad Agamben, non si sa da quali altezze, l’aver pubblicato anche in un giornale come «La Verità», quando non è libero di farlo in luoghi formalmente più rispettabili per l’autocensura dei medesimi. Lo sono per principio e perché penso che in quello che scrive si trovino spunti e argomenti rispetto ai quali, tra chi si considera e viene considerato un intellettuale (il mio Facebook ne trabocca), dovrebbe aprirsi una discussione libera e di merito, cosa che non è avvenuta salvo in modalità sommerse o irrilevanti (distruttive, supponenti etc.).

Io ad esempio, nel mio piccolo, non sono convinto che quanto sta accadendo prefiguri un nuovo totalitarismo, un ritorno allo Stato onnipotente e onnipresente; che cioè questa sia un’occasione che i governi stanno cogliendo o addirittura inventando (esasperando a bella posta) per imporre un sistema di controllo e la limitazione delle libertà individuali. Mi sembra che le reazioni di molti governi, in apparenza vigorose, dimostrino invece la debolezza strutturale dei rispettivi Stati, l’incapacità o l’impossibilità di fare scelte davvero politiche, che subordinino il qui e ora a una valutazione di sistema, e siano dunque un’ulteriore testimonianza di una crisi che prelude a una metamorfosi radicale, autodistruttiva della forma Stato novecentesca.

Allo spettacolo di questa emergenza gestita in maniera confusa e contraddittoria assistono in silenzio le più grandi aziende che governano le frontiere del web, che questa pandemia non solo non scalfisce ma rafforza, e che già adesso hanno un potere economico assimilabile a quello di Stati veri e propri (ma in salute) e un potere di controllo e indirizzamento delle scelte collettive infinitamente superiore. Questi feudatari del web saranno gli unici in grado di trarre un vantaggio concreto dalla deriva economica e sociale che si preannuncia, dallo screditamento e indebolimento delle istituzioni democratiche fondamentali (parlo in termini fattuali, non giuridici) e dalla progressiva omologazione delle coscienze, cioè della riduzione dello spazio dell’intelligenza critica, osservabile proprio nei luoghi del web dove si svolgono più fitte le conversazioni.

Qualcosa si può rilevare già da adesso: in queste settimane si sta compiendo (nell’indifferenza generale, se non vedo male) la colonizzazione della scuola nella sua modalità emergenziale, da parte di Google e in percentuale molto inferiore di Microsoft, che hanno offerto le loro efficienti piattaforme per la didattica a distanza (con molti ossequi da parte del governo, incapace di fornire strumenti e linee guida) e stanno garantendo dunque una forma di continuità alla maggior parte delle scuole italiane; ma questo significa aprire ad aziende private uno spazio che dovrebbe essere protetto da ogni intrusione esterna, peraltro senza una reale possibilità di controllo sui dati raccolti. Un altro tema riguarda i sistemi di contact tracing per contenere i contagi: di fronte al proliferare di applicazioni annunciate dai diversi governi, Apple e Google hanno avviato una collaborazione per introdurre funzionalità di tracciamento direttamente all’interno dei sistemi operativi iOs e Android (vale a dire in tutti gli smartphone in commercio). Al di là del tema della tutela dei dati personali (formalmente garantita, ma occorre allargare lo sguardo), si tratta in entrambi i casi di una sovrapposizione e progressiva sostituzione di prerogative e funzioni che i settori pubblici, ormai estenuati, non sono più in grado di garantire in maniera adeguata: gli Stati dovranno affidarsi in misura sempre maggiore a chi ha le forze e gli strumenti per prendersene carico, cedendo progressivamente spazi di sovranità fino a diventare la parodia di sé stessi.

Più del totalitarismo nella sua forma classica, io temo dunque in prospettiva una forma di totalitarismo apolitico e libertario, dove la libertà non è quella del cittadino, sancita dalla costituzione, ma quella strumentale ed eterodiretta del consumatore, al quale deve essere garantito tutto il margine di manovra necessario a generare profitto e i dati necessari ad accrescerlo (purché rimanga all’interno dell’ecosistema dal quale, del resto, lui per primo non ha nessuna voglia di uscire: in rete l’equivalente del lockdown è il lock-in, la prigione dorata dove proliferano i surrogati della felicità). In questo contesto, il sovranismo mi sembra un’appendice tristemente patetica del Novecento, che potrà ulteriormente prosperare, per qualche anno, sulle macerie dell’Europa (forse l’istituzione più colpita da questa pandemia) e che potrà ritardare ma non impedire sviluppi completamente diversi.

Non credo neppure che nell’insieme si possa parlare di “complotto”, di una strategia elaborata nelle segrete stanze per approfittare dell’emergenza sanitaria e imporre una qualche forma di dittatura (tranne eccezioni da manuale come quella ungherese). Prima di tutto perché mi pare che il lessico tradizionale del potere non sia più adeguato o sufficiente a descrivere in mondo in cui viviamo, e in secondo luogo perché sono convinto che le cose vadano in parte come si vuole che vadano, e in gran parte come non possono non andare, una volta presa una direzione che è semplice e naturale assecondare, anche solo per mancanza di immaginazione o per conformismo (un esempio è la “Netflix della cultura” di cui ha parlato il ministro Franceschini).

L’emergenza sanitaria esiste e richiede scelte radicali: il discutere puntualmente il merito di queste decisioni, le cause, le criticità, le alternative mi interessa meno del fatto che queste decisioni nel loro complesso, anche se prese in perfetta buona fede o addirittura controvoglia, costituiscano un punto di svolta, un’inclinazione del piano che accelera un processo di ridefinizione degli equilibri economici e politici che si sta svolgendo da almeno venti anni. Per questo, la convinzione che si possa tornare allo status quo ante senza conseguenze sostanziali mi sembra piuttosto ingenua, e trovo anche semplicistica, seppure comprensibile, la giustificazione di questi provvedimenti come temporanea: nella sostanza, il danno prodotto a tutti i livelli è di lunga durata se non permanente.

Non ho affatto chiaro, naturalmente, quale possa essere l’esito di questo processo, né dei tempi in cui potrà avvenire. Dipende anche dal modo in cui vi reagiremo, lo comprenderemo, vi ci adatteremo o lo rifiuteremo. Quello che vedo, dal mio limitato punto di osservazione (e anche osservando me stesso), non è particolarmente incoraggiante. Il controllo dei comportamenti per decreto è senz’altro meno efficace di quello che giorno dopo giorno ognuno ha sviluppato nel chiuso della propria coscienza: alla quarantena imposta dall’alto si accompagna una quarantena autoimposta del pensiero, un confinamento nelle zone più tranquillizzanti del buon senso, in una gara a farsi di volta in volta poliziotti, propagandisti o puntuali chiosatori delle norme restrittive, dei comportamenti e dei pensieri altrui. La ninna nanna della responsabilità individuale è comprensibile ed è un’altra delle strategie messe in atto per accettare e farci accettare un’esperienza altrimenti inaccettabile; ma ha come effetto collaterale l’atrofizzazione della disciplina del dubbio critico, che dovrebbe far mettere in discussione ogni provvedimento calato dall’alto, fino alla disobbedienza se necessario, e ogni idea vulgata: questa per quanto mi riguarda è la competenza più preziosa nel difficile mestiere della cittadinanza.

Il buon senso, quel positivismo grossolano nel quale ci esercitiamo quotidianamente, non basta a spiegare quanto sta accadendo, se mai è stato sufficiente a spiegare qualcosa, né tantomeno può servire a indicare una strada, se non altro perché ha la vista troppo corta e troppo spesso non si distingue dal senso comune. Il buon senso serve oggi a ricondurre ogni esperienza alla dimensione del ragionevole, nella quale l’inquietudine e l’angoscia diventano fatti personali (e dunque dilagano, soprattutto fra i letterati, i resoconti autoreferenziali, nonostante ci sia ben poco da raccontare). La preoccupazione maggiore, accanto a quella di aggiungere lievito al proprio ego, è quella di non dire qualcosa che possa essere qualificato come una sciocchezza, di non farsi cogliere in fallo, e specularmente di cogliere in fallo ed esporre alla berlina chi è meno cauto o più ingenuo o meno allineato; mi sembra che almeno in parte sia un effetto della campagna contro la disinformazione (le fake news), talmente interiorizzata da essere diventata l’unica missione, la più alta e civile (perché la più semplice) alla quale si sentono chiamati molti liberi pensatori, che prendono a modello la sguaiata ragionevolezza degli esperti e degli scienziati più alla moda, ed esercitano il proprio brillante conformismo con un’arroganza proporzionata alla convinzione di possedere strumenti di comprensione del mondo superiori a quelli dei propri simili; ma sempre senza allontanarsi troppo, nella sostanza, dalla strada più battuta. In psicologia sociale esiste una teoria che mi sembra si adatti bene a queste forme di individualità di massa, quella della «distintività ottimale», per la quale ognuno di noi cerca di trovare un equilibrio tra il bisogno di essere come tutti e quello di distinguersi muovendosi «fra le piante dai nomi poco usati». In questi giorni, di equilibrismi del genere si possono osservare esempi luminosi.

Un corollario dei meccanismi di autolimitazione dell’intelligenza è il culto nefasto e quasi superstizioso della specializzazione, del “parli solo chi ha i titoli per farlo”, come se un titolo bastasse a rendere vera un’idea, e come se in questo momento non fossero necessari sguardi il più possibile estesi e non vincolati, anche al prezzo di leggere qualche sciocchezza (nella critica del testo esiste la «congettura diagnostica»: una proposta di emendazione che, anche se alla fine si dimostra sbagliata, serve comunque a segnalare che in quel punto c’è un problema, attirando su di esso l’attenzione degli studiosi). È interessante, dal mio punto di vista, che i più bravi in questo esercizio di compartimentazione del pensiero siano i più colti ed eterodossi, quelli che leggono Céline, Bernhard, Gadda, Manganelli e tutta la schiera degli irregolari: il loro anticonformismo è confinato nella dimensione della letteratura (nella quale includerei anche la saggistica più in voga, dei vari Harari, Byung-chul Han, Sloterdijk, Žižek), che si riduce a un irrilevante svago decorativo, compensando, in tutto il resto, un cervello perfettamente in riga.

Secondo le logiche del buon senso ad esempio la tutela della privacy è solo un intralcio, un feticcio che limita la possibilità di tenere sotto controllo i percorsi del virus e quindi di difendere la comunità dall’egoismo e dall’irresponsabilità dei singoli; ma la privacy è sempre più obsoleta e sempre meno considerata dalla maggioranza un valore da proteggere perché ostacola il percorso verso quei paradisi di felicità artificiale di cui ho parlato sopra: l’emergenza che stiamo vivendo è un’occasione per fare un passo avanti decisivo in questa direzione, soprattutto in termini di percezione individuale (il principio correlato è quello del “non ho niente da nascondere”). Basterebbe aver letto uno dei tanti distopici in maniera meno letteraria e più curiosa per rendersi conto che la questione è più spinosa di come può apparire alla luce, ancora una volta, di quella miope assennatezza che è l’unico criterio per valutare quello che sta accadendo, e che porta a contrassegnare come falso o inappropriato o pericoloso tutto ciò che non ha il carattere dell’evidenza assoluta e immediata (l’eikòs di Aristotele: quanto accade di solito o è appropriato, molto diverso dal vero necessario). Anche per questi motivi dovremmo a mio parere riconsiderare la stucchevole vulgata dei libri e delle librerie come presìdi di civiltà. Per quanto mi riguarda è tutto il contrario.

In copertina: Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007

Dino Baldi

Giuseppe Dino Baldi, filologo classico e scrittore, ha pubblicato per Quodlibet “Morti favolose degli antichi” (2010) e “Vite efferate di papi” (2015); ha tradotto e curato l’“Anabasi” di Senofonte (“La spedizione verso l’interno”, 2012) e la “Germania” di Tacito (2019). Tra i suoi saggi, Filologi ed antifilologi” (Le Lettere 2006) e “La filologia, il metodo e la scuola di Enea Piccolomini” (Gonnelli 2012). Con altri, dirige la collana digitale Quodlibet «Note Azzurre», per la quale ha curato “L’isola dei ciechi” di Giuseppe Fraccaroli.

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