Poco meno di un anno fa appariva nelle sale cinematografiche l’ultimo film di Jim Jarmusch, The Dead don’t Die («I morti non muoiono»). Probabilmente non è il miglior risultato di un cineasta coerentissimo nella sua estetica; ma certo è un film che in queste settimane non può non interrogarci.
La trama è semplice: a causa di un danneggiamento irreversibile dell’equilibrio terrestre (l’inclinazione dell’asse del pianeta), i morti si sono risvegliati, con la loro proverbiale fame di vita. Nessuno è destinato a sopravvivere, salvo i pochissimi che si sono sottratti (per ragioni idiosincratiche e quindi incomprensibili e non generalizzabili) alle abituali regole del consorzio umano. Tutti gli altri – semmai simpatici, semmai in apparenza incolpevoli – finiranno divorati da questi strani zombi nel cui istinto risuona innanzitutto il legame con la dipendenza che li ha condotti a morte, sia pure una morte undead.
Un film ecologista e distopico, forse vegetariano o vegano, quest’ultimo di Jarmusch, col quale possiamo o meno solidarizzare, ma che non manca di farci ridere e meditare. Certo, in fin dei conti non c’è nulla di nuovo nel fare dei non-morti una allegoria della configurazione capitalistica odierna: è questa la lezione del capostipite George A. Romero.

Ma affianco al discorso sulla “natura” dei non-morti (che sono consumatori compulsivi anche dopo morti), il regista di Permanent Vacation ne propone anche un altro. Quel che infatti colpisce nel suo film è che gli umani non mostrano nessuno stupore nel trovarsi faccia a faccia coi “morti viventi” (morti che non sono né dei risorti né, propriamente, dei ritornanti). E non si stupiscono perché conoscono benissimo gli zombi: li hanno visti in tantissimi film, e serie TV e fanzine e copertine di dischi e fascicoli a fumetti. In altri termini, nella storia raccontata da Jarmusch gli esseri umani muoiono mangiati dagli zombi perché sanno che l’incontro coi non-morti è il segnale della Fine, dell’Ecatombe, del Giorno del Giudizio. Lo sanno in quanto quella scena appartiene all’immaginario culturale di cui si sono nutriti, junk food o haute cuisine che sia.
Ma questo sapere non li aiuta a vedere che cosa sta succedendo: non li aiuta a contrastare i non-morti, non li aiuta a organizzare una difesa efficace o anche solo a cercare scampo in un luogo ben protetto. Gli esseri umani, in altre parole, sono vittima degli zombi perché sono saturi di situazioni narrative in cui gli zombi mangiano gli esseri umani. E allora non possono che lasciarsi mangiare, in quanto la sequenza corrisponde con ciò che hanno introiettato.

In termini semiotici, sembrerebbe insomma una questione di enciclopedia culturale: la competenza narrativa degli umani li fa agire in maniera conforme allo schema che credono di avere innanzi. Se occorre colpire lo zombi alla testa, allora si potranno usare anche delle gigantesche forbici da giardinaggio; se chi è morso, o anche solo graffiato da una di quelle creature è destinato a trasformarsi in un loro simile, allora non resterà che entrare nella comunità degli zombi. Come del resto aveva immaginato Richard Matheson nel suo folgorante I am Legend («Sono leggenda», 1954) raccontando la storia di Robert Neville, ultimo sopravvissuto destinato a diventare una leggenda per la futura civiltà zombi, in cui si narrerà di un antico essere mitologico, spietato persecutore dei non-morti abituato a nutrirsi di ributtante carne morta cotta.

Matheson e Jarmusch sono in effetti collegati non tanto dalla critica del consumismo capitalista, quanto da una più profonda critica del legame sociale in quanto narrazione (lo story-telling, si dice oggi). Una specie di blanda sociologia della religione, quella dello scrittore, una esplicita sociologia dell’immaginario, ispirata da un principio ascetico e neopauperista, quella del cineasta. Una sociologia che esibisce il sistema di regolamentazione (attivo a livello sia individuale sia intersoggettivo) e ne propone al contempo il principio di base: l’accecamento per via di saturazione.
I personaggi di The Dead don’t Die restano certo attoniti innanzi all’Avvento degli Zombi, ma non ne sono colpiti. Ne sono a volte comprensibilmente terrorizzati, ma sembrano non coglierne la realtà. Questo perché ne hanno viste troppe di storie dove i non-morti, mangiando tutti, fanno vendetta della stupidità umana, e di conseguenza, innanzi al pericolo effettivo non possono che restarne accecati e dirsi, stupiti e al tempo stesso compiaciuti: «Ma allora era tutto vero!». E se anche sussurrano a se stessi la formula opposta («Non può essere vero, non può essere proprio come nei film…»), restano comunque ingabbiati nella dialettica senza uscita dell’immaginario corrente.
A prima vista, l’idea formulata da Jarmush nel suo film potrebbe essere facilmente sistemata nel paradigma fornito dal fiorente filone degli odierni disaster studies. La storia dell’immaginazione catastrofica insegna infatti che in tutte le epoche l’evento disastroso che colpisce una determinata società in un dato momento attuale viene ritrascritto sulla base della “idea di catastrofe” circolante in quel determinato spazio-tempo culturale, di solito riciclando i materiali nobili a disposizione. A Firenze la peste di metà Trecento si raccontò avendo in mente un’epidemia rurale di sei o sette secoli prima; i terremoti napoletani dei primi del Seicento vennero rappresentati riattivando sequenze telluriche che incrociavano la mitologia dei Titani con la memoria classicistica della lettera di Plinio sulla eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

Ma il film di Jarmusch, davvero post-storico, ci invita a rovesciare la questione: non è vero che il racconto più antico configura il racconto più recente, e così aiuta a comprenderlo. I racconti precedenti sembrano invece disarmare la percezione stessa dell’evento attuale, rendendolo così letteralmente incomprensibile. In gioco è la logica stessa del percepire qualcosa come attuale, cioè del coglierlo come essere-in-corso, come “essere-evento”. La nutrizione ipercalorica realizzata a base di situazioni narrative analoghe a quelle che adesso sono innanzi ai miei occhi mi impedisce di prendere atto di quel che innanzi ai miei occhi adesso è. Di conseguenza non riesco a trascrivere ciò che adesso-è dentro nessuno dei racconti a mia disposizione, proprio perché ne conosco troppi di racconti che, assomigliando a quel che adesso-è, lo vanificano in una pura entità narrativa.
Il che spiega perché la politica sia così dipendente dalla medicina e dalla biologia. Al di là delle necessità di regolare l’emergenza sulla base di protocolli razionali e condivisi, ciò che spinge i governanti in questa direzione è la necessità di ravvivare un “senso di realtà” consumato dalla inerzia dei paradigmi narrativi disponibili ricorrendo in loro sostituzione a sistemi metaforici che possano riattivare una base interpretativa condivisa. Incidentalmente, lo stato di eccezione si trasforma in consenso quando fornisce alla popolazione un modo per aggirare lo choc cognitivo prodotto dal disastro.
Allo stesso tempo, questa medesima saturazione mostra anche perché non stia funzionando uno dei principali strumenti comunicativi dei nostri anni, quella grafica statistica che permette di trascrivere la probabilità in suggestivi sintesi visive. Se fatichiamo ad affidarci alle varie curve statistiche per conoscere quel che ci sta accadendo è perché vi abbiamo riconosciuto un raddoppiamento del gioco immaginario (immagine tecnica di una immaginazione matematica) che ci allontana ancor più da quanto sta accadendo.
Vacuità gnoseologica della grafica statistica che si spiega non tanto col fatto che la serie degli eventi (tamponi, ricoveri, morti) è continuamente agitata dal flusso di accadimenti, ma con la loro impossibilità di render conto della compiutezza dell’evento: l’angosciosa attesa del risultato del test, la convulsione dell’arrivo del 118, la degenza sempre più marginale dentro le frenetiche emergenze del servizio sanitario. Al pari dell’immaginario catastrofista, quello statistico non ci permette di capire quel che sta accadendo perché non riesce a dare conto del trauma.
All’inizio di questo decennio, Daniele Giglioli ha provato a ragionare di «scritture dell’estremo» nell’epoca in cui si vive «senza trauma», cioè lontani da quel trauma propriamente novecentesco che è stata la guerra (Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet 2011). Alla fine di questo decennio l’abuso della metafora della “guerra” per parlare di una terribile crisi, che “guerra” non è, mostra con chiarezza quanto del trauma non si possa mai parlare se non abbracciando la morte, e provando da lì a costruire il sistema della coazione a ripetere, della ricorrenza sintomale, della chiusura rappresentativa. Il che però non può avvenire se si resta dentro le maglie dell’immaginario corrente, di quella costellazione di figure di catastrofe con le quali ci siamo familiarizzati sin dalla metà del Novecento e che adesso sembra essersi completamente consumata. Per vedere quel che stiamo vivendo, per immaginare il trauma che sta già dando forma al nostro avvenire, occorre insomma abbandonare ogni pretesa di avere già visto, di averlo già da sempre saputo.