Abbiamo tutti osservato con orrore le immagini delle fosse comuni per i morti di Covid-19, provenienti da ogni parte del mondo. Nell’epicentro della civiltà occidentale, nella avanzatissima New York, file di bare vengono velocemente sotterrate in una ordinata buca, scavata in un terreno urbano desolato.
La barbarie! – è stato il primo pensiero. La perdita di quelle regole minime della pietà che fanno dell’uomo qualcosa che va oltre l’animale. L’umano è, infatti, colui che seppellisce i propri morti, inserendo la morte in un sistema simbolico che amplifica i confini della vita, spingendola oltre se stessa. Non si dà trascendenza se non a partire da una liturgia della morte.
Quelle immagini, come comprensibile, hanno scatenato indignazione, sgomento, paura. Molti vi hanno visto la fine di una civiltà, la riduzione della vita a semplice funzione all’interno di un processo disumanizzante, nel quale il dispositivo tecno-economico-politico starebbe esprimendo la propria hybris ormai insensibile a tutto, anche alla pietà verso i morti. Ed è certo che tali analisi colgano aspetti inquietanti del nostro mondo e possibili derive che, come sempre nella storia, sono incombenti. Se tutto questo divenisse prassi quotidiana, l’umanità starebbe, senza dubbio, trasformandosi in altro da sé. Staremmo diventando post-umani.
Eppure non credo che quelle fosse siano davvero il segno di un futuro distopico che starebbe per realizzarsi davanti a noi, inghiottendoci senza che nessuno ne abbia davvero avuto coscienza. Quelle fosse sono antiche quanto la stessa umanità e non sono indice dell’orrore. Nulla di nuovo, nessuna inedita mostruosità. Basti leggere l’ormai abusato Alessandro Manzoni, nel capitolo XXXII dei Promessi sposi.
“Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.”
Sono probabilmente ancora lì, in via Settala, in via Casati, a pochi metri da dove scrivo, le migliaia e migliaia di morti, gettati nelle fosse comuni, per permettere ad altri milioni di vivi di prolungare la propria esistenza. Senza quelle fosse, senza il gesto “disumano” di padre Michele, forse io, come molti di voi, non saremmo qui ora. E senza quel gesto “disumano” non vi sarebbero poi stati secoli di storia assai meno barbarici (ogni epoca della storia porta, inscindibilmente in sé, grandezza e bassezza). Nella sua brutalità, quel gesto secentesco ha permesso – come ben sapeva Manzoni – l’illuminato Settecento. Cosa sia umano e cosa sia disumano, non si giudica sul metro dell’istante, ma sull’onda lunghissima della vita e della storia.
Piangere i morti è il senso stesso dell’umano. Certo. Ma i morti si piangono, dando loro sepoltura, in nome della vita, per consentire alla vita, nella sua straordinaria insubordinazione alla morte, di prolungarsi.
Io, come tutti noi, piango quei morti. Ma molto più piango la solitudine della loro morte rispetto alla comunione della loro sepoltura.
Verrà il tempo per non dimenticare, per ricordare, per riportare alla luce e ai nostri cuori ognuno di coloro che, in nome della vita, non ha avuto l’estremo saluto che i vivi riservano a quelli che li abbandonano.
Verrà il tempo.
In copertina: Beato Angelico, La sepoltura dei Santi Cosma e Damiano (predella della Pala di San Marco, 1440 ca.)