Signor Vogl, la crisi del coronavirus ha sconvolto le nostre vite. Si è già abituato alla nuova realtà del lockdown?
Questo è proprio quello che mi rifiuto di fare. Com’è possibile abituarsi alle pandemie e alle morti di massa? Inoltre si viene tempestati ogni giorno da notizie e da nuove sorprese.
Che cosa la sorprende?
Mi sorprende ad esempio la vivacità dell’intelligenza umana nella produzione del grottesco. Pensi ad esempio alla nuova passione per la carta igienica, poi per il lievito, per la farina, alle code davanti ai negozi di armi negli Stati Uniti, agli evangelici che invocano l’ira di Dio, alla divisione in base al sesso per fare la spesa. Si potrebbe anche pensare ai senatori statunitensi che vendono a gran velocità blocchi di azioni per poi negare l’epidemia. O a esempi come il presidente della Serbia, che ha raccomandato di bere alcolici come misura preventiva contro il virus, o il presidente turkmeno, un dentista che scrive poesie e vuole vietare di pronunciare in pubblico la parola corona.
E quindi?
Ogni cosiddetta crisi costringe a un’interpretazione, mettendo nello stesso tempo a dura prova ogni possibile interpretazione. Al momento ha luogo una produttività discorsiva frettolosa che attraversa in maniera trasversale il campo intellettuale e quello pubblicistico. Si lotta per anticipazioni ermeneutiche, e nella catastrofe si vogliono vedere confermate le posizioni e le verità a lungo auspicate. Tutto viene detto da tutti e poi ancora ripetuto, ribadito, modificato.
Lei non è un medico, ma un filosofo esperto di scienze culturali. Che cosa rende il virus a suo parere particolarmente interessante?
In modo probabilmente un po’ cinico, un virologo ha definito il Covid-19 l’“Ebola dei ricchi”. Ed effettivamente sembra che la trasmissione abbia preso il via inizialmente attraverso viaggi d’affari, vacanze sciistiche, crociere e turismo di lusso. Infezioni della classe media. I primi a esserne più fortemente colpiti sono stati i centri commerciali e industriali, le enclave ricche, alcuni paradisi turistici – l’Italia del nord, il Tirolo, la Baviera, il Baden-Württemberg…
Si dice che il virus tratti tutti allo stesso modo. Quando però alcune persone possono permettersi di ritirarsi in ville da dieci stanze e altre no, forse è proprio il momento in cui la diseguaglianza si mostra con più evidenza.
Si, la diseguaglianza economica, la distribuzione della ricchezza, le differenze di reddito sono aspetti decisivi non solo rispetto alla tollerabilità dello stato di eccezione: decidono anche sulla vita e sulla morte. Il sistema sanitario è diventato una cartina di tornasole per la logica di mercato, che perdura anche nella competizione riguardo ai malati gravi, ai posti nei reparti di terapia intensiva e all’aspettativa di vita. L’anno scorso la Bertelsmann Stiftung aveva consigliato la chiusura di 600 ospedali in Germania, per ragioni di costi e di efficienza. E ora gli esperti di etica della medicina discutono di triage, della gestione di “risorse limitate”, delle “prospettive di successo” di questo o quel paziente o anche della “allocazione” di cure mediche scarseggianti. Al limite ci si mostra un po’ contriti per via della mancanza di risorse nel sistema sanitario – conformemente al mercato –, per la riduzione dei posti letto e del personale, per il mercato sanitario, per la concorrenza nel settore privato tra gli ospedali. L’economia capitalistica non conosce pietà.
Lei ha scritto molto su temi economici, dalla prospettiva teorica dell’analisi del discorso. Che tipo di discorso domina in questo momento? I politici dicono sempre che la salute viene prima di tutto.
È difficile dirlo nella cacofonia generale. Ma l’economista americano Milton Friedman una volta ha detto che le crisi offrono una buona opportunità per realizzare ciò che è politicamente scomodo. Questa ha già dato luogo, qua e là, a un’escalation di bassezze politiche: consolidamento del potere, estensione delle misure emergenziali, distruzione dello stato di diritto come in Ungheria, in Polonia o in Israele. Altrettanto degna di nota è l’insistenza sull’egemonia economica. In una riunione dei ministri delle finanze europei, il collega olandese Wopke Hoekstra, precedentemente consulente aziendale, ha preteso che vengano controllati i conti dei Paesi meridionali e si verifichi se questi negli anni passati abbiano risparmiato in maniera sufficientemente brutale sui fondi pubblici. Nonostante questa dichiarazione sia subito stata riconosciuta come assai sgradevole, questo tipo di comunicati seguono i binari di dogmi finanziari ben comprovati. L’ultimo dibattito sui coronabonds (o eurobonds) è – in particolare in Germania – un esempio lampante di come, in un contesto di indurimento ideologico, non si riesca a riconoscere la serietà della situazione.
Un politico come Horst Seehofer ha sottolineato con decisione che, nel dubbio, la salute ha la precedenza sull’economia. È un pretesto?
Penso di no. Ma naturalmente i politici non possono nascondere il fatto che, quando si tratta della questione della priorità della politica sanitaria, si trovano presi tra diverse opzioni o poli che dettano il carattere dei loro processi decisionali. La tensione sussiste da un lato tra il bene comune e gli interessi particolari, dall’altro tra le misure straordinarie e lo Stato di diritto democratico. Questo quadrilatero – costituito da bene comune, interessi particolari, misure straordinarie e garanzie dello Stato di diritto – rende inevitabilmente ogni procedura decisionale un precario atto di funambolismo.
È arrivato il momento in cui certi stati e governi si svelano per quello che sono?
Si. Il mondo è caduto in un “bagno di sviluppo” e ci vorrà un po’ di tempo prima che si possa vedere esattamente quali contrasti e contorni emergeranno per questo o quello Stato o governo, immagini spaventose o di speranza.
Come le sembra che si posizioni la Germania in questa situazione?
È il caso fortunato di una economia ricca, che può contare sui residui del welfare, su una elevata affidabilità creditizia e anche su una pratica consolidata di compromessi tra i partiti. Non è il luogo peggiore per ammalarsi, in questo momento. Il lato oscuro: una politica europea misera. In Italia, i primi aiuti medici sono arrivati da Cuba, la Germania aveva imposto provvisoriamente un divieto di esportazione di ausili medici in Italia. La Cina e la Russia sono intervenute, facendosi pubblicità presso l’opinione pubblica. La Cancelliera, nei suoi discorsi pieni di ammonizioni e di incoraggiamenti, ha menzionato l’Europa per la prima volta sei settimane dopo il lockdown italiano. Si guarda “con preoccupazione” all’imposizione di regimi dittatoriali all’interno dell’UE, e la politica economica e finanziaria tedesca si rivelerà essere un propulsore per le forze centrifughe europee. Fino al rifiuto degli eurobonds, la Germania ha fatto finora tutto il possibile per far avverare la frase beffarda di Matteo Salvini: “Fra Berlino e Bruxelles, l’Europa è morta”. L’attuale governo tedesco avrà avuto un ruolo importante nel crollo dell’Europa.
In un’Italia malconcia si è fatta udire la voce del filosofo Giorgio Agamben. Agamben ha raggiunto la notorietà negli anni Novanta con saggi sul potere, sul diritto e sulla privazione dei diritti. Ha scritto molto sui profughi, sui campi di confinamento e sullo stato d’eccezione. Quest’ultimo è per Agamben una sospensione legalizzata della validità del diritto, il sovrano regna direttamente sulla “nuda vita”. Recentemente Agamben, in un testo piuttosto polemico a proposito delle restrizioni in Italia, ha scritto che ora lo stato d’eccezione è in vigore e che tutte le libertà sono state sacrificate. Questo forse rivela anche un certo desiderio che finalmente accada ciò che da sempre si era annunciato?
Come ho già detto, l’attuale catastrofe unita a dinamiche politiche ed economiche necessita di spiegazioni e di un’interpretazione. E lo stato d’eccezione costituisce uno strumento di interpretazione assolutamente lampante. Nonostante ciò non penso in linea di principio che si possano proseguire discorsi teorici come se non fosse accaduto nulla.
Agamben, ma anche molti altri, hanno spesso fatto ricorso al concetto di biopolitica coniato da Michel Foucault, nel senso cioè di una forma di dominio che mira alla vita e al corpo dei cittadini e che favorisce e produce determinati modi di comportamento, ostacolandone altri. Si tratta di un concetto che ora viene usato frequentemente in relazione alla crisi del coronavirus.
Lo storico svizzero Philipp Sarasin ha appena pubblicato un saggio in cui esamina in maniera precisa e approfondita in che modo il concetto di biopolitica di Michel Foucault possa essere applicato alla situazione attuale – tra l’altro, si tratta di un concetto che Foucault aveva messo velocemente tra parentesi. A parte il fatto che la preoccupazione biopolitica per la vita della popolazione non è sufficiente a rendere conto dell’intero spettro degli gli interventi governativi attuali, la questione principale è in che modo le epidemie e le pratiche governative vadano di pari passo l’una con l’altra. Lo stesso Foucault descrive tre diversi scenari. In primo luogo, il modello della lebbra durante il medioevo: il potere governativo reagisce bandendo, segregando e marginalizzando i malati. In secondo luogo, il modello della peste nella prima età moderna. A partire dalla sorveglianza e dalla reclusione dei malati di peste vengono sviluppati dei meccanismi disciplinari, delle reti di controllo e di osservazione meticolosa degli individui. Infine, a partire dalla fine del Settecento, il vaiolo, una malattia infettiva che portò alle prime misure di vaccinazione, alle strategie di immunità, alle indagini statistiche e alle valutazioni del rischio. Questo è per Foucault, al di là dell’esilio e della quarantena, un esempio di governamentalità liberale, connesso alla questione di come si possano regolare gli ambienti aperti: attraverso la raccolta di dati, la compilazione di statistiche, l’organizzazione di campagne mediche.
Questo ci porta alle strategie attuali.
Si, da qui effettivamente si può tracciare un collegamento fino alla situazione attuale e intuire lo schema di un nuovo patto sociale: il tracking consente un guadagno in termini di libertà di movimento ‒ in cambio di informazioni. Tuttavia, questa triade [lebbra, peste e vaiolo, N.d.T.] ancora non tiene conto dell’esperienza medica e politica dell’epidemia di AIDS degli anni ‘80. Tenendone conto, forse si possono mettere nuovi parametri in gioco. Dopo l’iniziale persecuzione degli omosessuali e la denuncia dei “gruppi a rischio” si è manifestata una sorta di deistituzionalizzazione dell’epidemia. La sua gestione è uscita dal campo chiuso dell’osservazione medica ed è stata delegata, almeno in parte, ad altre strutture statali, semigovernative e private: a scuole, associazioni, gruppi di autoaiuto, famiglie, media – fino alla nascita di nuove alleanze politiche come l’ACT UP. Penso che oggi tutte queste diverse alternative siano ancora in gioco e che vengano combinate in misura diversa tra loro: isolamento, sorveglianza, nuove forme di solidarietà, tracking…
La libertà in futuro verrà determinata da come si può essere tracciati?
In questo momento non è possibile prevederlo. Ma già ora il tracking si è dimostrato essere un modello di business redditizio per le piattaforme internet e i social media, ed è difficile immaginare che ci si lascerà sfuggire il business dell’epidemia digitale. Almeno questi vincitori sono certi.
Nella crisi del coronavirus bisogna continuamente ponderare i propri interessi prendendo in considerazione anche quelli della collettività. Si è divenuti in parte molto più consapevoli dell’enorme macchina della società.
Questo disintegrarsi della realtà a cui stiamo assistendo viene accompagnato da un intensificarsi dell’attenzione con cui si osservano le cose: si passeggia con i sensi in allerta. Le maniglie delle porte, i cesti della spesa, i gomiti o le caviglie, le mani con o senza guanti, le zone di allarme tattili, i movimenti minimi, la direzioni degli sguardi, i segnali acustici come la tosse, gli starnuti o gli schiarimenti di gola – tutto ciò ormai fa parte della scheda segnaletica di un nuovo mondo sociale. A ogni passeggiata corrispondono coreografie complicate. E sì, questi mondi sensoriali e queste danze sono esperimenti per testare una nova collettività.
Il filosofo Slavoj Žižek ha detto che vivremo una rivoluzione filosofica. La grande domanda ora sembra essere: quanta continuità ci sarà e quante rotture?
Žižek annuncia un nuovo pensiero filosofico dell’infezione, una sorta di virologia per un contagio di affetti, modelli culturali o scarti di pensiero di ogni tipo. Ovunque virus. Ma già a partire dall’Ottocento il contagio e l’infezione sono diventati modelli seducenti per spiegare la comunicazione sociale e la circolazione dell’irrazionalità. E certo, l’attuale diffusione dell’agente patogeno sars-CoV-2 è una caricatura raccapricciante della viralità degli agitatori sui social network. In ogni caso io diffiderei dell’attuale ebbrezza da svolta epocale e punterei lo sguardo su problemi concreti: quali conseguenze si possono trarre per l’organizzazione del sistema sanitario? Sono state testate nuove procedure di distribuzione degli oneri sociali ed economici? Com’è cambiato il rapporto tra economia e stato? In Europa, quali saranno i punti di rottura? Avrà luogo una fine o un nuovo inizio? Quali sono le priorità di un programma di ricostruzione?
Per adesso è meglio non chiedere pronostici?
Probabilmente sarà cambiato qualcosa. Ma le cose vanno sempre diversamente da come si pensa.
Questa intervista a Joseph Vogl è stata realizzata da Elke Buhr e pubblicata il 9 aprile 2020 sul sito della rivista Monopol.
E’ stata tradotta per Antinomie da Maddalena Casarini.