Ritratto di tutti

Non c’è discorso su ritratto e autoritratto che non evochi, più o meno détournandolo, il motto epocale di Rimbaud, Je est un autre. Il più sofisticato di questi cortocircuiti è quello operato da Jean-Luc Nancy, che nel 2013 intitolò L’altro ritratto una bellissima mostra al MART e, l’anno seguente con lo stesso titolo, un’acuminata riflessione pubblicata, da noi, da Castelvecchi. Proseguendo il discorso di un suo precedente saggio, Il ritratto e il suo sguardo, a interessare il filosofo – in una prospettiva che da Cartesio conduce a Lévinas – è lo sguardo di rimando che il volto indirizza a chi lo guarda: «nel ritratto si ritraccia […] la possibilità per noi di essere presenti».

Questa prospettiva è sempre implicita nell’indagine di Marco Delogu sul genere-ritratto in fotografia, da sempre core business del suo lavoro d’artista ma che, in qualità di curatore, data almeno dal 2014 della mostra Portrait, al Macro di Roma. Ed è infatti ben rappresentata, tanto nella prima “forma” di Facing the Camera pubblicata nel 2018, che in questa nuova che avete fra le mani: tappa ulteriore di un percorso, evidentemente, interminabile (all’ultima pagina della prima edizione figuravano il disegno di una spirale e la scritta «to be continued…ۚ). Lo si vede bene, intanto, nelle scelte del Delogu “curatore”, che tendenzioso esplora il panorama della fotografia italiana di oggi, e della sua tradizione recente.

Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (Mamma con Donatella),
Fonteblanda (Grosseto), 2004

L’“altro” è tale in senso psicoanalitico, per esempio, nel lavoro a sua volta in progress di Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04. (Mi piace cominciare da lei, perché è stato proprio grazie a Delogu – in occasione d’una sua piccola personale ospitata dall’Istituto italiano di cultura di Londra, da lui allora diretto – che ho potuto fare la conoscenza con questo che è fra i vertici assoluti, mi sento di dire, dell’arte italiana del nostro tempo.) Tanto tecnicamente semplici, realizzate come sono con Photoshop, quanto emotivamente sono non meno che lancinanti le foto di famiglia che Ricci ha ritoccato, inserendo la propria stessa figura al fianco della madre scomparsa (le date del titolo sono l’alfa e l’omega: quelle della sua nascita e della sua morte). Quello che può apparire un effetto Forrest Gump non ha proprio nulla di ludico, invece: se è forse inevitabile, da parte nostra, proiettare una certa ironia nei confronti dell’abuso patetizzante che troppo spesso delle foto di famiglia fanno gli artisti d’oggi, lo struggimento che si produce guardando le immagini di Moira Ricci mantiene sempre, viceversa, una sua evidente, tanto bizzarra quanto innegabile autenticità: proprio in virtù, paradossalmente, della falsificazione operata dall’autrice (non diverso il cortocircuito di suoi lavori più recenti che esplorano, o piuttosto “inventano”, le mitologie dell’heimat maremmana d’origine: come Da buio a buio, visto alla Quadriennale di Roma del 2016,o Dove il cielo è più vicino, presentato al Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia nel 2017). Ed è ineffabile il cortocircuito appunto psicoanalitico che produce in queste pagine Delogu, quando accosta il lavoro di Ricci a quello, di quarant’anni precedente, di Luigi Di Sarro: che fotografava il riflesso nello specchio appunto di sua madre, così includendo anche se stesso nella sua immagine. Non c’è trucco e non c’è inganno, stavolta: ma identico, e non meno perturbante, risulta l’effetto di sovrimpressione psichica così prodotto.  

Luigi Di Sarro, Autoscatto nel ritratto della madre allo specchio, 1969 (Courtesy Centro Luigi Di Sarro)

Più spesso l’“altro” che si affaccia da queste immagini è politico-sociale, cioè storico. Se Moira Ricci ha dichiarato che con 20.12.53-10.08.04 ha voluto realizzare «una sorta di collisione temporale tra presente e passato» – collisione, nel suo caso, privata per non dire solipsistica – ci espone a uno choc diverso ma non certo minore il rivedere, in questo contesto, i Nudi Pacifisti di Gianni Berengo Gardin (questa sorta di equivalente italico degli Uomini del Ventesimo Secolo di sanderiana memoria: dove però, spogliati degli indumenti-divisa che ciascuno di quei “tedeschi rappresentativi” subito identificava appunto socialmente, gli Italiani del Sessantotto si manifestano colle insegne e gli emblemi del loro vissuto “in comune”) o i ragazzi tecnicamente dolci di Tano D’Amico, nelle loro pose fiere e nei loro occhi sperduti, all’interno delle case occupate del Settantasette; o ancora, sebbene solo virtualmente, il ritratto di Gastone Novelli realizzato da Ugo Mulas a Venezia, di nuovo nel ’68 (dove, come sappiamo, tutt’intorno sta andando in scena la sovversione: materialmente agita, proprio da Novelli, girando le sue tele contro i muri della Biennale).

Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (fratelli ed un cugino),
Fonteblanda (Grosseto), 2004

In casi come questi non pare contare il volto in primo piano, quanto l’«Italia dell’ultimo mezzo secolo» che gli sta attorno, e che tutto è meno che il suo semplice “sfondo”: come scrive Giorgio Falco, queste immagini davvero «prelevano qualcosa dal flusso del tempo in cui ci è dato vivere, per proiettarci altrove, nel tempo parallelo dentro il quale, molto spesso, riconosciamo ancora qualcosa di noi». Una collisione temporale è anche il contrasto che si viene in tal modo a creare fra una storia, com’è andata effettivamente, e quella che, date altre circostanze, si sarebbe potuta produrre.

Ma nel libro, fra le altre, ci sono anche le foto dello stesso Delogu. Il quale non manca di confrontarsi – com’è impossibile non fare – con la tradizione pittorica, del ritratto (ivi compresa quella meta-tale di Paolini o di Ontani): dove, dopo l’emancipazione cinque-seicentesca del paesaggio – che in precedenza, di norma, faceva tutt’uno con le figure umane –, la specificità del genere consiste nel suo trattare appunto da “sfondo”, e così da “contrasto”, tutto quanto esuli dalla persona che è al centro – psichico, se non geometrico – dell’immagine. Nelle immagini realizzate da Delogu in prima persona, o in quelle ai suoi modi più prossime, sfondo e figura dicono invece, in fondo, esattamente la stessa cosa.

Nei Travestiti di Lisetta Carmi, per esempio, l’apparizione dell’“altro” – in questo caso, s’intende, quella più o meno spettrale dell’altro genere sessuale – vede trascolorare l’una ricerca nell’altra: la transizione psichica (psico-somatica) vi appare segno e funzione, altresì, di una transizione sociale e di costume; di una dimensione, cioè, di nuovo, storica. Ma alla medesima congiunzione si assiste pure nella serie dedicata da Delogu ai suoi Cardinali: se è impossibile non associarli, d’acchito, alla filiera pittorica velázquez-baconiana (il lampeggiare di sottecchi di Bafile se ne mostra degno erede), a ben vedere l’arcano che lasciano trasparire (e che Delogu non manca di evocare, allusivo, nel suo testo di oggi) è quello classicamente illustrato da Ernst Kantorowicz nei Due corpi del re: con la «persona» pubblica suddivisa fra un corpo mortale, biologico e anagrafico, e uno “politico” invece incorruttibile e, virtualmente, immortale. Sono uomini anziani: principi morituri che si vedono sfuggire tra le mani l’autorità spirituale, e forse soprattutto quella terrena, sino a quel momento compiaciutamente esercitata; eppure qualcosa, nei loro occhi, confida in un’ulteriorità che non è solo la trascendenza religiosa.

Oppure si guardino i carcerati di Cattività: come il cattivissimo ritratto dell’irriducibile fascio Concutelli, che in camicia nera emerge dall’ombra più bituminosa, la più caravaggesca possibile. Anche in questo caso è difficile sottrarsi, appunto, all’eco della tradizione pittorica (alla quale si potrà magari aggiungere la sintonia, così congeniale, col «vecchio malvissuto» dei Promessi Sposi); eppure, se è vero che Delogu – come scrive – in queste immagini, sue e altrui, ricerca l’«appartenenza» («a un gruppo, a un luogo, a un periodo storico, a narrazioni molto vicine»), c’è da chiedersi come mai la condizione di questi reclusi ci appaia, come appare, così vicina alla nostra: per non dire fraterna (anche intollerabilmente tale, nel caso di ceffi come Concutelli). Facile evocare la metafora, topicamente esistenzialista, dell’esistenza come “prigione”; ma qui si tocca, mi pare, qualcosa di più profondo.

Chi lo spiega nel modo più evocativo è Emanuele Trevi, in un estratto dal suo Sogni e favole (che all’epoca della prima edizione del libro di Delogu era un’anticipazione dal bellissimo «qualcosa di scritto» poi pubblicato, nel ’19, da Ponte alle Grazie). Qui il personaggio-chiave è appunto un fotografo, Arturo Patten: il quale – americano per nascita, ma italiano e siciliano per scelta – si suicidò ad Agrigento, sessantenne, nel 1999. La «forma particolare di saggezza» del ritratto, dice Trevi, è «la stessa che aveva ispirato a Tolstoj la pagina in cui Ivan Il’ic ragiona sull’abissale differenza tra imparare a scuola che tutti gli uomini sono mortali e capire che, in quel dato momento, a tirare le cuoia è proprio lui, e non c’è più niente come “tutti gli uomini” che lo possa riparare o consolare».

Il ritratto fotografa dunque, è il caso di dire, un arcano che una volta, in uno dei frammenti di Profanazioni, ha sondato Giorgio Agamben analizzando la parola-concetto «speciale»: «essere speciale non significa l’individuo, identificato da questa o quella qualità che gli appartengono in modo esclusivo. Significa, al contrario, essere qualunque, cioè un essere tale che è indifferentemente e genericamente ciascuna delle sue qualità, aderisce ad esse senza lasciare che nessuna lo identifichi». È speciale, insomma, ciò che riconduce ciascuno di noi alla specie cui appartiene: dove l’ontogenesi, davvero, ricapitola la filogenesi. «Speciale è, infatti, un essere – che, non somigliando ad alcuno, somiglia a tutti gli altri» (ancora Agamben). Qualcosa del genere diceva pure Leonardo Sciascia commentando i volti di Antonello da Messina (riferimento-chiave, questo, tanto per Nancy che per Patten): «“somigliano”; sono l’idea stessa, l’archè, della somiglianza», proprio perché pirandellianamente rinviano a «uno, nessuno e centomila volti».

Pensiamo a un’altra etimologia come quella di specioso: la parola latina vale semplicemente “bello” (anche se in seguito ha preso in italiano una sfumatura peggiorativa, di “bello solo in apparenza”, connessa appunto all’etimo da species: “vista”, “apparenza”); e nell’accezione originaria risuona nel Salmo 45 («Speciosus forma es præ filiis hominum»), riferita infatti a Cristo. Tanto è vero che, nella sua icona archetipica d’Occidente – quella di Jan Van Eyck detta Vera Icon, con ogni probabilità dipinta in due versioni (entrambe perdute, e a noi note solo da copie coeve conservate a Monaco di Baviera, Berlino, Newcastle upon Tyne e nella madrepatria Bruges) dall’archimandrita della pittura fiamminga, e di lì diffusa in tutta l’episteme rinascimentale –, sulla cornice della versione di Bruges, si legge appunto il passo dei Salmi specios[vs] forma p[ræ] filiis ho[m]i[nv]m. Quella di Cristo è icona vera in quanto non solo rappresenta un modello di “bellezza” (umana e artistica insieme: distinguere fra le due dimensioni, in questo caso, è davvero impossibile) ma soprattutto perché “rappresenta”, nel suo complesso, il genere umano: ci rappresenta. (Per questo, aggiungo, ci guarda direttamente negli occhi: con frontalità che si faticherebbe a trovare, altrove, nella ritrattistica del periodo; il Cristo del Vangelo pasoliniano mutuerà la medesima frontalità.) Non diversamente, al culmine del Paradiso dantesco, al cospetto della «luce etterna» al centro dei «tre giri / di tre colori e d’una contenenza», e subito prima che la sua «mente» venga «percossa» dal «fulgore» che lo accecherà, il Pellegrino contempla un’ultima immagine – non più astratta, non più geometrica, non più assoluta – in cui si riassume tutto «ciò che per l’universo si squaderna». E questa vera icona è l’incarnazione del Figlio, cioè «la nostra effige». Questa è l’ultima immagine che ci è dato vedere: Dio non è che il nostro Specchio.      

Se ritraggo qualcuno, in fondo, è sempre perché mi pare un essere speciale. Non in quanto personaggio famoso o rappresentativo, cioè un’icona nel senso principesco-cardinalizio del termine (come nella declinazione seriale del Warhol tardo che, del genere-ritratto, rappresenta insieme il culmine e la negazione). Ma perché io, qui e ora, lo prescelgo, lo incornicio, in qualche modo (anche nei modi che più si vogliano denotativi e antiretorici, come quelli di Guido Guidi o Sabrina Ragucci) lo monumentalizzo. Quell’essere speciale che è irriducibilmente individuo, contingente e inconfondibile, è allo stesso tempo anche, e misteriosamente, un perfetto rappresentante dell’umanità. È sempre «un altro» ma anche, allo stesso tempo, «io». Davvero, come scrive Falco (chissà se parafrasando il Demonio – l’Anticristo – dei Vangeli: «Mi chiamo Legione, perché siamo in molti»: Mc 5, 1-20), «Io sono una moltitudine»: perché ciascuno di noi si sente speciale, crede di possedere qualità uniche e incomparabili. Ma proprio questo nostro senso di unicità, a ben vedere, è il primo, il più sottile e il più indissolubile legame che ci unisca a tutti gli altri.

In copertina: Tano D’Amico, Ragazza del movimento, Montalto di Castro, 1977

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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