Illuminazioni profane. Controparola di Paul Celan (1920-1970-2020)

Il permanente déja vu è il déja vu di tutti.
ADORNO

In questi strange days prestiamo insolita attenzione alle coincidenze: a quelle che Jung chiamava sincronicità. E fra queste, con animo sospeso e confuso, andiamo soprattutto in cerca di profezie. Al nitore nero di un presente che mai avremmo immaginato – proprio perché troppe volte lo avevamo immaginato –, ri-vediamo immagini, ri-leggiamo parole che credevamo di conoscere bene; e d’un tratto vi scopriamo, crediamo di scoprirvi, pre-figurazioni delle immagini che il presente ci strofina sulla faccia, delle parole che il presente ci fa colare nelle orecchie. Tossiche come il veleno in quelle di Gonzago nella Trappola per topi: la claustrofobica scena-nella-scena, «scritta in italiano sceltissimo», nel terzo attodell’Amleto.

Cercando di mantenere un barlume di ragione, il paradosso della profezia ex post è che essa ci appare tanto più nitida, in misura persino insolente, quanto più – nel momento in cui immaginiamo sarebbe stata formulata – ci appariva di contro oscura, sfuggente, aperta alle più diverse interpretazioni. È quello che si potrebbe definire il paradosso di Nostradamus. È più o meno questa la critica che a Svendborg, incontratisi come relitti nella tempesta della storia nell’estate del 1934, oppone Bertolt Brecht all’amico Walter Benjamin: il quale ha appena finito di scrivere, col solito ammirevole fervore, il poi celebre saggio su Kafka da lui composto – come un atto di grazie – nel decimo anniversario della sua morte. Considerando che lo stesso anno (non so, però, se prima o dopo il suo incontro con Benjamin) Brecht comporrà una folgorante paginetta dal titolo Sulla moderna letteratura cecoslovacca (la si legge nella nuova edizione, uscita da Meltemi nel 2019 con postfazione di Marco Castellari, dei suoi Scritti sulla letteratura e sull’arte: che per il resto riproduce quella classica, ma da tempo introvabile, pubblicata da Einaudi nel 1973)nella quale scrive che «Kafka, con grandiosa fantasia, descrisse i campi di concentramento ancora di là da venire, la futura incertezza del diritto, il futuro assolutismo dell’apparato statale, la cupa vita di tanti singoli individui governata da forze inaccessibili», e aggiunge che «non vorrebbe veder messo all’indice questo autore, nonostante tutti i suoi difetti» (pp. 370-1), è soprattutto per spirito di contraddizione, forse, che all’esaltato Benjamin, a muso duro, Brecht sbotta infine in un reciso quanto clamoroso «io rifiuto Kafka».

Perché i suoi scritti sono come quel bosco di cui parla il solito allegorico «filosofo cinese», dove ci sono tronchi solidi, legni sottili e comunque utili, ma anche tutta una serie di rami storti che «sfuggono alle sofferenze dell’utilità»: «in quello che ha scritto Kafka bisogna orientarsi come in un tale bosco. Si troverà allora un buon numero di cose utili. Le immagini sono di certo buone. Ma il resto è proprio un gusto morboso del mistero. Sono scemenze. Bisogna lasciarlo da parte. Con la profondità non si va avanti, non si progredisce». Nella profondità, conclude liquidatorio Brecht, «non si vede proprio nulla» (cito dalla bella edizione degli Scritti autobiografici di Benjamin tradotti da Carlo Salzani, Neri Pozza 2019, pp. 377-8).

Già qualche giorno prima (ivi, pp. 375-6), del resto, a Benjamin (che trascrive sempre tutto, come si trovasse di fronte a un contro-oracolo) Brecht aveva detto, a ben vedere con non minore durezza: «in quanto visionario Kafka ha visto l’avvenire, senza vedere però ciò che è […]. Kafka avrebbe avuto un solo e unico problema, quello dell’organizzazione. Fu preda della paura dello Stato-formicaio: di come le persone si alienino da se stesse attraverso le forme della loro convivenza. E alcune forme di questa alienazione le ha previste, come per esempio i metodi della GPU. Ma non ha trovato alcuna soluzione e non si è svegliato dal suo incubo. Della precisione di Kafka», conclude un Benjamin in preda all’incertezza, «Brecht dice che è quella di un impreciso, di un sognatore». Per poi riportare il celebre slogan del tetragono amico: «Nello studio di Brecht, su una delle travi del soffitto sta scritto: “La verità è concreta”. Sul bordo di una finestra c’è un piccolo asino di legno che può muovere la testa avanti e indietro. Brecht gli ha appeso al collo un cartellino su cui sta scritto: “Devo capirlo anch’io”».

Nell’asinello di Brecht, si capisce, s’immedesima Benjamin: per parte sua incapace delle certezze così percussive, così concrete dell’amico. Che nell’occasione era stato oltretutto in grado di guardare – con nettezza, e risolutezza, non sempre replicate in futuro – ai metodi della GPU stalinista, oltre che ai campi di concentramento nazisti. Ma che aveva pure anticipato la sentenza dei comunisti francesi di «Action» i quali, nel ’46, si proporranno addirittura di «bruciarlo», Kafka: secondo loro colpevole di averli prefigurati con spietata esattezza, quei Lager, ma di non aver mosso un dito per ribellarvisi, incitando appunto all’action. Cortocircuito da brivido: quello che dal “profeta” esige che materialmente si opponga a una situazione, ai suoi tempi, non ancora prodottasi. E che intanto i suoi libri sottopone a un rogo, ancorché simbolico, alla cui versione materiale i nazisti non li avevano acclusi solo perché quei rari esemplari, usciti dal tornio a sua volta profetico di Kurt Wolff, non erano riusciti a procurarseli…    

A questi paradossi, relativi al maggior narratore del Novecento, viene da pensare ricordando – a cinquant’anni dal gesto col quale mise fine ai suoi giorni: lasciandosi cadere nelle acque della Senna dal ponte Mirabeau, con ogni probabilità nella notte fra il 19 e il 20 aprile 1970 (anche se il suo cadavere verrà ripescato dalla Senna solo il 1° maggio seguente) – il maggior poeta del Novecento: Paul Celan. Anche lui – non diversamente da quanto farà, due anni dopo di lui, Pier Paolo Pasolini in Una disperata vitalità – aveva prefigurato, infatti, la propria sorte di quella notte maledetta: nel componimento della Rosa di nessuno, E con il libro di Tarussa, scritto nel 1962, dove si parla dei «conci / di quel ponte da cui egli / andò a schiantarsi / contro la vita, reso alato / dalle ferite – del / ponte Mirabeau» (Poesie, Mondadori 1998, p. 499). Come spiega il traduttore di questi versi, Giuseppe Bevilacqua (e sia questa l’occasione per ricordare pure la scomparsa – a 93 anni, lo scorso 3 dicembre – del memorabile passeur che la poesia di Celan introdusse in Italia già nei primi anni Cinquanta), quel «ponte» fu da Celan tragicamente prescelto ricordando la poesia omonima di Apollinaire, da lui tradotta in tedesco; ma il testo della Rosa di nessuno si apre con l’esergo di un’altra suicida, Marina Cvetaeva, «Tutti i poeti sono ebrei». E si conclude con una «paroletta» enigmatica inabissata in clausola – precipitata in fondo ai versi, come spesso avviene in quelli del suo autore –: la parola «Colchide». Con questo semplice toponimo Celan allude al destino d’esilio di Ovidio nel quale riflette il proprio a Parigi, nonché i Tristia nei quali Mandel’štam aveva proiettato il suo, d’esilio, a Voronež (altra proiettiva figura sacrificale, Mandel’štam, per Celan: il quale era convinto che fosse anche lui stato vittima delle SS – quando lo era stato, invece, proprio della GPU…): nella fuga disperata – lui come l’amica Cvetaeva, Celan come il maestro Kafka – dal «secolo-cane lupo». Una fuga alla quale, inascoltata Cassandra, aveva esortato i suoi genitori – con previsione tanto meno oscura, quella volta – prima della notte fatale, tra il 27 e il 28 giugno 1942, in cui vennero prelevati da casa e deportati dai nazisti rumeni. S’era presa tutta una vita, quella che nel proprio componimento più celebre Celan aveva – ancora una volta profeticamente, in Papavero e memoria – chiamato Todesfuge: la sua fuga, musicale, di morte (dalla morte – nella morte).

In rumeno aveva tradotto Kafka, Celan, nel 1946; arrivato a Parigi gli aveva dedicato la sua licence en lettres; e lo cita più volte, cripticamente come sempre, nella sua opera. Come sintetizza Camilla Miglio nel suo fondamentale libro Vita a fronte (Quodlibet 2005, 20102, p. 94), al pari di Mandel’štam Kafka fa dunque parte delle «grandi figure di riferimento “relazionale” di Celan, cercate e interrogate per tutta la vita». Cercato e interrogato, già, come un oracolo. Nel suo saggio Miglio riporta le sottolineature e le postille (fortunatamente conservatesi, a differenza della tesi parigina) apportate da Celan non solo ai libri di Kafka, ma soprattutto ai saggi dedicatigli da due grandi critici ebrei, Benjamin e Adorno (il primo, suicidatosi trent’anni prima di lui, non aveva fatto in tempo a conoscerlo; col secondo, invece, Celan ebbe rapporti intensi ma piuttosto ambivalenti). Negli Appunti su Kafka (iniziati nel ’42 e rivisti nel ’53) dei Prismi appunto di Adorno (traduzione qui di Enrico Filippini, Einaudi 1972, p. 257), sottolinea Celan: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Adorno contrapponeva lo stoicismo di Kafka all’illuminismo di Freud; ma più avanti, nel suo saggio, si confronta esplicitamente col tema – inaggirabile, nel ’53 – della «somiglianza del regno di Kafka col Terzo Reich» (p. 266). E avvisa: «la sua opera è stata spesso comparata alla Cabala» ma di essa quello che vi permane, semmai, è un residuo rovesciato. Quella che Adorno definisce, cioè, «mistica antinomica»: in cui «il Dio completamente astratto, indeterminato, depurato di ogni qualità antropomorfico-mitologica, si trasforma in un Dio fatalmente ambiguo e minaccioso» (p. 278).

Come Benjamin – con ciò contrapponendosi sempre a Brecht – aveva definito quella dei surrealisti un’illuminazione profana (Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei [1929], in Ombre corte, a cura di Giorgio Agamben, Einaudi 1993, p. 255), tanto per Kafka che per Celan (i cui debiti col surrealismo sono noti, e che infatti concede che «nel surrealismo c’era già qualcosa») si può allora parlare (lo ha fatto Miglio in Vita a fronte, p. 108) di «cabalismo laico»: «lo pensa Celan di Mandel’štam. Lo scrivono Benjamin e Adorno, di Kafka. Lo pensa anche Scholem di Benjamin». Il «Kafka della plurivalenza dei significati, della resistenza all’interpretazione univoca» è quello che nel 1951, in Kafka, pro e contro (a cura di Barbara Maj, Quodlibet 2006), Günther Anders – esplicitamente opponendosi, da marxista a sua volta, agli anatemi di «Action» – esortava, anziché a bruciarlo, a «comprendere a morte» (cfr. Michele Sisto, Dell’inutilità di Kafka, 2008). Così facendo lo si prosegue, Kafka, l’incompiuto per eccellenza: perché, aggiungeva Anders, «proprio questa esclusione di ogni messaggio univoco, l’eterno “forse, forse anche no” dà alle sue affermazioni ancora la disperata forma di opera d’arte». (Non si può non pensare a Celan quando scrive, in Di soglia in soglia: «Parla anche tu, / parla per ultimo / dì il tuo pensiero. // Parla. – Ma non dividere / il sì dal no. / Dà anche un senso al tuo pensiero: / dagli ombra […] / Dice il vero, chi parla di ombre»; formulazione, questa, che rovescia il dettato evangelico di Mt 5, 17-37: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno».)

È per questo che il «suggello ermetico» di Kafka (Prismi, p. 264) diventa l’unica promesse de bonheur che, nel secolo di Auschwitz, si possa concepire. Finirà per dirlo esplicitamente, Adorno, nella Teoria estetica: «“Promesse de bonheur” non significa semplicemente che la prassi fin qui esercitata preclude la felicità: significa che la felicità è al di là della prassi», in quanto «la forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità». Sicché – per venire alle note che così dolevano, alla cultura marxista d’immediata dopoguerra – «certamente Kafka non risveglia la facoltà di desiderare»; ma è in effetti la stessa negatività della sua rappresentazione a indurre una «nausea che sconvolge fisicamente il lettore» (traduzione di Enrico De Angelis, Einaudi 1975, p. 22).

Pubblicata postuma proprio nel ’70, la Teoria estetica non poté essere letta da Celan. Altrimenti avrebbe potuto trovarvi un parallelo, tra lui e Kafka appunto, proprio in nome della negatività (pp. 537-8). Se nella «società altamente industrializzata […] l’arte può ancora raggiungere gli uomini esclusivamente attraverso lo choc che assesta un colpo a ciò che l’ideologia pseudoscientifica chiama comunicazione», ed «è integra unicamente lì dove non contribuisce alla comunicazione», le poesie di Celan – le quali «vogliono dire col silenzio l’estremo orrore» – sono quelle in cui, per eccellenza, il «contenuto di verità diventa un fatto negativo»: «esse imitano la morta lingua della pietra e della stella».  

È quella che Celan aveva definito la propria «controparola» (Gegenwort):dieci anni prima, nella celebre conferenza Il meridiano, pronunciata a Darmstadt il 22 ottobre 1960 in occasione del conferimento del premio Büchner (La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi 1993, p. 5). Collegandola appunto all’«oscurità», connotato «proprio della Poesia, in vista di un incontro che muove da una distanza o estraneità che essa stessa, forse, ha inteso progettare» (p. 13); ma, significativamente, aggiungendo pure che tale oscurità deriva, altresì, dalla «forte inclinazione ad ammutolire» della poesia (p. 15). La scrittura del Meridiano è tipica dello stile saggistico “ufficiale” di Celan – tanto esiguo per quantità, quanto esemplare per qualità –, che combina un massimo di allusività con un’assertività, come si vede, non meno che perentoria. A quella prosa così oscura e luminosa, però, Celan era giunto attraverso una riflessione tortuosa, frammentaria, quasi disperata: nell’immediatezza con cui trascrive le proprie esitazioni, i propri brancolamenti.

L’iceberg di note sulla poesia (pubblicate nel 1999, presso Suhrkamp, a cura di Jürgen Wertheimer, Bernhard Böschenstein e Heino Schmull, col titolo Der Meridian. Vorstufen Textgenese Endfassung. Tübinger Ausgabe), di cui si riportano qui i frammenti relativi appunto all’Oscurità nella traduzione di Domenico Brancale e Anna Ruchat (anticipati, lo scorso settembre, sul numero 21 della rivista «Versodove»), è tesoro ancora in gran parte sconosciuto al lettore italiano (se non per le ampie citazioni contenute nel citato libro di Camilla Miglio nonché in quello, a sua volta di notevole interesse, di Marcella Biasi: Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan, Quodlibet 2014). Ma, da quanto man mano se ne viene a conoscere, emerge uno dei monumenti di pensiero più straordinari del Novecento (accostabile solo ad altri grandi lasciti postumi quali le Ricerche filosofiche di Wittgenstein o il Passagen-Werk di Benjamin): che si spera possa presto vedere la luce, anche nella nostra lingua, nella sua forma integrale. Un pensiero la cui potenza non è affatto inficiata dalla sua tentatività; sintomatico il ricorrere – in questo giacimento, assai più di frequente che nel testo d’arrivo – dell’avverbio forse: che ogni volta corregge, e insieme rilancia in avanti, quelli che di questo pensiero sono gli assunti più abissali. (È lo stesso forse, forse anche no che – si ricorderà – Anders attribuiva a Kafka.)

Neppure Adorno, dunque, poté leggere questi frammenti lampeggianti del Nachlass celaniano. Altrimenti avrebbe certo potuto concordare con frasi come queste: «non so rispondere alla domanda: verso quale mattino si sta muovendo la poesia? se la poesia rasenta quel mattino, allora possiede una sua oscurità. L’ora in cui nasce la poesia, Signore e Signori, si trova al buio. Molti dicono di sapere che si tratta del buio dell’alba; io non condivido questa consapevolezza». Ovvero: «il Dio della poesia è incontestabilmente un Deus absconditus». Quest’ultima definizione è ripresa in uno dei magnifici aforismi (se il termine è adeguato) di Microliti (§ 14 nella serie Ermetismo, del 1959: a cura di Dario Borso, Zandonai 2010), dove si legge anche: «viviamo in un’epoca luminosa, un’epoca che illustra tutto» (§ 12, ibidem). È proprio per questo che la controparola della poesia vive, invece, nel lato oscuro dell’epoca: «la poesia è in quanto poesia oscura, è oscura perché è poesia». Ma l’oscurità reclamata da Celan non è esoterismo fine a se stesso («nessun trobar clus»: § 22, p.75): non si propone l’ammutolimento; semmai risponde, s’è detto, alla sua forte inclinazione ad ammutolire. E infatti il § 6 di questa sezione dei Microliti prosegue: «la poesia vuol essere compresa, vuole proprio perché è oscura essere compresa: come poesia, come “buio poetico”. Ogni poesia reclama dunque comprensione, voler comprendere, imparare a comprendere» (p. 69). Cioè «nella poesia viene detto qualcosa, ma di fatto in modo che il detto rimane non detto finché chi lo legge non se lo lascia dire. In altre parole: la poesia non è attuale, bensì attualizzabile» (§ 45, pp. 81-3; cfr. Marcella Biasi, Potenza della lirica, pp. 138 sgg.). Il senso della poesia è la sua potenza, il suo dire è il suo voler dire.

Nell’epoca che illustra tutto – che dice tutto – la poesia è dunque invisibile. È l’invisibile, anzi: il suo posto, nel corpo sociale della visibilità («un’epoca dove ci si legittima ovunque all’esterno per non doversi giudicare davanti a se stessi»: Microliti, § 17, p. 73), non può che essere sommerso. Nel pieno giorno della comunicazione, non ha diritto di cittadinanza. Essa però rivela la sua esistenza – o almeno la sua possibilità, la potenza del suo senso – nell’oscurità che precede l’alba: nell’attimo, cioè, che precede la sua comprensione. Celan non poteva conoscerla, ma aveva scritto in una lettera (a Otto Runge, alla fine del 1923) il giovane Benjamin: «le idee sono stelle, in contrasto col sole della rivelazione. Non brillano nel giorno della storia, operano solo invisibilmente in esso» (Lettere 1913-1940, a cura di Gershom Scholem e Theodor W. Adorno, Einaudi 1978, p. 72).

In un altro passo fondamentale dell’avantesto del Meridiano, dice Celan che la poesia «viene fuori dalla lingua, e si pone a fronte della lingua. Questo stare a fronte [Gegenüber] non è superabile» (ed. 1999, p. 104; cit. in Camilla Miglio, Vita a fronte, p. 64). La particella Gegen è usata, nella sua opera, in un caleidoscopio di accezioni assai diverse (e ha dato adito, infatti, a derive interpretative fra loro ramificatissime); ma quello che pare di capire è che la controparola della poesia necessariamente è insieme figlia, della lingua del giorno – quella che dice sì, sì; no, no –, ma anche sua antitesi: derivazione-contrapposizione, davvero, non superabile (e, dunque, non dialettica)[1].

Non è un caso che l’atto della traduzione abbia finito per prendere, nella vita di Celan prima che nella sua opera, una presenza che trascende per crucialità, oltre che per semplice misura, quella che di norma si riscontra in un poeta. L’esercizio di trascrizione a fronte – da suoi componimenti assai poco vulgati – qui offerto da quelli che sono oggi, da noi, il maggior traduttore e la maggiore studiosa di Celan è dunque più che un semplice atto ermeneutico, od omaggio di circostanza. Come disse una volta Primo Levi di Todesfuge, è invece «un innesto». Ma se tale è, per loro, l’atto che compiono oggi finisce per trasmetterlo, questo innesto, anche a noi.

Non so se Borso e Miglio concorderebbero con la mia lettura ma tanto il «sasso» che «nell’acqua» produce «un cerchio» (in Sentii dire), quanto il «tavolo ieri annegato» (in Ricercar), paiono evocare – rispettivamente diciotto e nove anni prima – il gesto dell’aprile 1970. L’ennesima profezia, per definizione oscura, della propria fuga di morte.

Questo discorso, si capirà, non si può concludere. Voglio allora interromperlo con le frasi con cui Camilla Miglio concludeva l’introduzione al suo Vita a fronte (p. 24): «nella sua scrittura non cerchiamo Paul Antschel nato a Czernowitz il 23 novembre 1920 e morto a Parigi, suicida nella Senna, forse il 19 aprile 1970. Cerchiamo invece una voce, un io che è figura. Qualcuno che ha acceso una lampada nel buio assoluto. Qualcuno che legge nella propria mano aperta una carta geografica che non è inscritta in alcun altro luogo se non nel suo corpo. […] La vita, la speranza, di cui parla Paul Celan nonostante la fine tragica di Paul Antschel, sta nella pagina. La vita, la forza generatrice della lingua, è nel testo: a fronte. Tocca a noi decifrarla, a noi che a nostra volta ci troviamo da un’altra parte, lontani. Con la sua pagina aperta nel palmo della nostra mano».


[1] Devo il suggerimento a Camilla Miglio, che ringrazio.

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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