Non l’essere, non la cosa, non la verità, non lo spirito, non la terra, non il mondo – nulla si dà nell’opera. O meglio: quasi nulla, come vedremo. Qualsiasi tentativo di dire comunque, alludere o indicare nell’opera e oltre l’opera l’aggiunta, il di più, è smarrirla, sprecarla. Saremo mai all’altezza di pensare ciò senza barattare ogni volta il nulla con qualcosa? Certo, come non vedere che l’arte compendia le epoche, riassume le civiltà, esprime una cultura e una visione del mondo? Questo va da sé, e tuttavia è innegabile che, al tempo stesso, vi sia anche il sentimento di un’irrimediabile perdita di quelle epoche di quella civiltà di quel mondo a cui le opere sono designate a farci accedere. Non di questo si tratta. Piuttosto, noi entriamo necessariamente in ciò che gravita attorno a un’opera – e non ci limitiamo a fruirla, ma la analizziamo e la studiamo – unicamente, forse, per giungere a sperimentare il darsi di nulla che la caratterizza come tale. Questa, almeno, sarà la nostra ipotesi.
Innanzitutto, come salvaguardare il «quasi nulla» di cui è questione nell’opera? Compito paradossale, senz’altro; e pressoché impossibile. Tutto, infatti, sembra congiurare contro di esso. Si potrebbe mostrare che vi è un horror vacui al cuore di ogni estetica che invano il discorso filosofico tenta di colmare. L’opera resta in un algido distacco, sottraendosi nel gesto stesso in cui si presenta. Eppure, è bene ribadirlo, nell’opera non c’è che l’opera – e nient’altro.
Quasi nulla, dunque. Partiamo dall’avverbio: il «quasi» in questo sintagma compendia tutto ciò che l’artista può fare con il suo sapere, la sua sensibilità, la sua abilità unitamente alle tecniche che ha appreso, agli strumenti che utilizza e al saper fare che gli compete (non importa in che misura o a quale livello di maestria). E ancora: le sue influenze e i distinguo, il gusto, i richiami, le riprese, le novità, i rilanci, le relazioni che intrattiene con quanto è stato e la tensione verso ciò che verrà. Dunque, tutto quanto pertiene alla pratica dell’arte in senso lato: dal pensiero in gioco in ogni opera all’idea che la muove, le strategie messe in campo, la sua storia, le letture, l’ekphrasis, i raffronti, le genealogie e le interpretazioni.
D’altro canto – non esattamente coincidente con tutto ciò, pur nell’impossibilità di darsi senza – il «nulla» riguarda in qualche modo l’opera nella sua solitudine, direi, vale a dire l’opera riuscita, il realizzarsi, l’accadere dell’opera, la sorpresa che porta con sé. Insomma, ciò che ci coglie sempre alle spalle, il farsi opera dell’opera. La sua lontananza e inafferrabilità. Perché “nulla”? Perché non siamo, a rigore, di fronte a un ente – niente qui è dato se non, appunto, l’opera – anche se in un certo qual modo vedremo che vi è una tangenza con l’essere (da qui l’espressione “quasi nulla”). D’altronde, rimane fermo che al nulla non ci si può riferire e che nemmeno lo si può dire, esprimere, significare o indicare. Dunque, con “quasi nulla” s’intende semplicemente l’evento dell’opera o l’opera come evento. L’opera compiuta e/o abbandonata dal lavoro necessario a produrla o anche l’opera mentre si fa come nel caso, ad esempio, della musica improvvisata o del paesaggio sonoro, della performance o del Walkscape. Ciò che non cessa di accadere ogni volta che se ne fa esperienza.

Ora, sosterremo qui che quel “quasi nulla” se, per un verso, abbisogna di tutto, dall’altro, non dipende in ultima analisi da alcunché. In questo consisterà la peculiare intrattabilità di tale nozione. Il suo non essere manipolabile, controllabile o gestibile. E dunque l’inevitabile sfuggire a ogni sistema e categoria. Sarà questione, dunque, dell’accadere e basta dell’opera. Che un’opera si realizzi, infatti, nessuno lo può prevedere. Quando succede, è come se essa s’imponesse con un’assoluta necessità e, nel contempo, risultasse priva di una causa precisamente individuabile. Dissonanza costitutiva e inaggirabile dell’opera. Per tentare di circoscriverla in qualche modo, senza alcuna volontà di determinarla, prendo a prestito l’analisi aristotelica della nozione di essere per accidente (on kata symbebêkos) – uno dei quattro significati dell’essere –, che presenta singolari affinità con ciò che è qui in questione. Vediamole per brevi punti.
Questo genere di essere, prima di tutto, si riferisce a ciò che «non esiste né sempre né perlopiù» (Metaph., E 2, 1026b 32-33), in quanto non necessario, ma casuale e fortuito. Di esso non può quindi esservi scienza (perché riottoso a ogni tentativo di comprensione). In più, non può sussistere per sé, ma solo connesso ad altro; e ha come principio e causa (insieme al caso e alla fortuna, ossia a una non ben determinabile causa efficiente, cfr. Phys., II 6, 198a 2-3) la materia (hylê). Questi sono requisiti che ben s’adattano, fatte salve le differenze, all’opera nel suo accadere. Inoltre, prosegue Aristotele – e sono i passi per noi particolarmente rilevanti – l’accidente tanto è elusivo e sfuggente da risultare ontologicamente inconsistente: un «puro nome (onoma ti monon)» e, parimenti, «qualcosa di vicino al non essere (engys ti tou mê ontos)» (cfr. Metaph., 1026b13 e 21). In questo modo, dell’essere per accidente non vi è né «generazione (genesis)» né «corruzione (phtora)» (cfr. ivi, 1026b 23-24). Ecco, vi è un non, un «puro nome» evanescente, un “quasi nulla” nel darsi di ciascuna opera. L’opera d’arte sembra venire da un altrove a cui, tuttavia, non dà accesso. Tutto, in essa, sembra rimescolarsi; non basta la causalità efficiente a renderne ragione, e – beninteso – nessun’altra causa può essere qui disponibile. Al culmine del fare, allora, vi è un sottrarsi, un’imprendibilità, un venir meno. Un’interruzione che apre, un’apertura che chiude. Vuoto, nulla, ma nella pienezza di un operare e di un fruire in cui ne va di noi, del durare, della vita e della morte, dell’esistere e del resistere.
Immagini: Joan Mitchell, Champs, olio su tela, 1990, Musée des beaux-arts, Caen (particolari).