Fantasmi d’amore

Chi cerca Guido Cavalcanti su Wikipedia, lo trova definito «un poeta e filosofo italiano del Duecento» (e più avanti, nella “voce”, viene ricordata la definizione che ne diede Boccaccio: «lo miglior loico che il mondo avesse»). Questo malgrado nessuna delle sue opere dottrinarie – se poi davvero ne compose – si sia in effetti tramandata sino a noi. Ma non ce n’è bisogno; a essere filosofica è la sostanza della sua poesia: a un livello che sarà raggiunto solo dal discepolo che lo «caccerà dal nido», Dante, e poi da Leopardi. Una “linea” che della nostra tradizione letteraria è la spina dorsale, come si vede, ma che in termini quantitativi, invece, è stata sempre assai minoritaria. Il guaio è che la koinè idealista (a partire, a ben vedere, dallo stesso Hegel poeta refoulé…) ha sempre tenuto in gran dispitto quello che Heidegger chiamerà il «pensiero poetante»: koinè da noi incarnata una volta per tutte dal «sindaco della letteratura italiana» (come lo ingiuriava Manganelli), il De Sanctis che pregiava Cavalcanti malgrado i suoi interessi filosofici. Ma, più o meno dichiarata, anche oggi a prevalere, per la poesia che si fa, è la concezione per cui autori come Guido siano «artisti e poeti senza volerlo e saperlo»: una tesi che, secondo Gianfranco Contini, va «press’a poco rovesciata».

A contraggenio dei neoidealisti d’oggidì – che infatti ostentano sufficienza, appena possono, per un magistero epocale come quello di Contini – ecco nella nostra lingua, traducendo quello uscito in Francia due anni fa, un luminoso libretto composto a quattro mani da Giorgio Agamben e dal grande arabista della Sorbona Jean-Baptiste Brenet, con la prefazione di uno dei massimi medievisti contemporanei, Alain de Libera. Nel corpus lirico di Cavalcanti, sprezzante nel suo elitarismo (come lo ritrarrà appunto Boccaccio, nella novella che farà sua Calvino nelle Lezioni americane), spicca per allusiva oscurità la canzone Donna me prega, dedicata alla definizione, appunto filosofica e poetica insieme, niente meno che dell’Amore: cioè della potenza agente principe dell’immaginario medievale (e non solo di quello). Un testo che a dispetto della sua impenetrabilità, o proprio per questa, fu tra i più commentati già dai suoi contemporanei. E che riverbera in modo più o meno esplicito, naturalmente, nell’opera di Dante: a partire dalla canzone della Vita nova che ne rappresenta insieme la celebrazione e il superamento, e che dà il titolo agli esegeti di oggi.

Si deve a Bruno Nardi il merito storico di aver ricondotto la canzone di Cavalcanti all’insegnamento di Averroè (come gli europei latini chiamavano Ahmad Muhammad ibn Rushd), che nel XII secolo commentò i trattati di Aristotele rilanciandone (e sottilmente modificandone) l’insegnamento; e come snodo-chiave fra il pensiero antico e quello moderno lo ritraggono – con una spregiudicatezza, in tempi di guerre di religione, che oggi possiamo solo invidiare – appunto Dante nel Limbo del suo Inferno («Averroìs che ’l gran comento feo») e Raffaello nella Scuola di Atene in Vaticano. Averroè era anche un medico, come lo era il fiorentino Dino del Garbo che di Donna me prega scrisse un commento organico; ed è proprio al sapere medico medievale che un non dimenticato saggio di Agamben, nel suo formidabile libro Stanze uscito nel 1977, si rivolgeva con spettacolare erudizione per sciogliere le non poche cruces del testo (e dunque della concezione che dell’amore avevano i poeti provenzali e stilnovisti: e che, loro tramite, resta in gran parte la nostra). Già allora Agamben correggeva Nardi, secondo il quale Cavalcanti – nel raffigurare in termini appunto patologici, di «scuritate» e «spesso morte», gli effetti dell’amore sull’intelletto – contrapponeva il pensiero all’esperienza amorosa (scisma che è, se vogliamo, all’origine di quello che ancora contrappone la tradizione filosofica a quella poetica). È vero il contrario: l’accecamento d’amore, la privazione feroce in cui ci getta il desiderio, sono non l’ostacolo bensì il vero quanto paradossale tramite del pensiero (in termini lacaniani, un vero e proprio «manque-à-être»). Nella stessa espressione dantesca intelletto d’amore (come nella Cognizione del dolore di Gadda), aggiunge oggi Agamben, il genitivo è tanto soggettivo che oggettivo: si conosce mediante l’amore, proprio quando malgrado tutto – come esemplarmente ha fatto Cavalcanti, appunto – si cerca di conoscere cosa sia amore.

Roman de la Rose, Narciso

Un altro punto chiave è il ruolo svolto, in questo sofferto atto di conoscenza, dalle immagini: quelle che Averroè con Aristotele chiama phantasmata, e che nella poesia di Cavalcanti e del giovane Dante sono gli onnipresenti «spiriti» e «spiritelli» (e che Agamben, appunto psicoanaliticamente, traduce senz’altro come «fantasmi»). Immagini come quelle viste allo specchio nel Roman de la Rose, e in tanta iconografia dell’autunno del Medioevo fiammingo: infatti il «miroir périlleux» di Narciso non è, per quella cultura, «il simbolo dell’amore di sé, ma dell’amore per un’immagine».  

A far problema è la metafora, insistita in Guido, dell’oscurità. Com’è possibile che questo «carattere fantasmatico» dell’amore, cioè questa sua sfrenata iconofilia, produca l’accecamento che Cavalcanti rende coi versi «E’ non si pò conoscer per lo viso / compriso: bianco in tale obietto cade»? Questa crux ora Agamben la scioglie col commento di Averroè al De anima che in quel punto lamenta una lacuna del testo di Aristotele che il dotto arabo sta leggendo: «cecidit albedo». Così Cavalcanti avrebbe alluso ironicamente alla sua fonte: per far capire (si fa per dire), ai suoi lettori, il paradosso di una «comprensione per privazione». Davvero un gioco di specchi.   

Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini (dettaglio)

Più in generale, interviene nella discussione Brenet, Averroè aveva spiegato come nel circuito dell’intellezione l’immagine abbia una duplice valenza (e si capisce quanto il passaggio fosse delicato, in un contesto religioso segnato dall’iconoclastia): in un primo momento è il nostro tramite alla comprensione, ma in seguito viene meno (viene proprio «distrutta», scrive il filosofo). Il cortocircuito fra cecità e visione, a sua volta caro ai poeti sino a oggi, si origina qui. Con acutezza che solo un uso accorto dell’anacronismo consente, Brenet evoca una celebre pagina in cui Freud paragona la psiche al «notes magico»: uno strumento che consente di aggiornare la nostra memoria di volta in volta conservando, o appunto distruggendo, le annotazioni precedenti. È una profezia straordinaria della nostra mens informatica; ma anche una traduzione dell’habitus per cui – come spiegava congedandosi dal «gran comento» di Stanze, nella riedizione già del ’93 – Agamben concludeva che «la vita dell’autore coincide con la vita dell’opera»: sicché «giudicare le proprie opere passate è l’impossibile che solo l’opera ulteriore immancabilmente compie e differisce».

Giorgio Agamben e Jean-Baptiste Brenet
Intelletto d’amore
traduzione di Giuseppe Lucchesini, prefazione di Alain de Libera
Quodlibet, 2020, pp. 76, € 12,50

Una versione più breve di questo articolo è uscita su Il Sole 24 ore-Domenica del 29 marzo 2020.

In copertina: miniatura dal Roman de la Rose, manoscritto trecentesco

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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