I.
In quel tempo ero una donna in fuga, in fuga da un assedio violento da parte di un amico al quale avevo regalato la mia totale fiducia.
La soluzione più immediata che avevo trovato era stata di aggirarmi nel boschetto di una casa colonica che Biancamaria e Brunello avevano comprato e stavano operosamente riadattando. Il boschetto, si trattava di ripulirlo da quella specie di sottobosco di sterpaglia che si forma nei luoghi abbandonati da tempo. Più che un boschetto, in realtà era una pinetina, posta in un declivio da cui si vedeva il mare e che scendeva dolcemente verso il confine della proprietà e verso un allevamento di mucche sottostante.
Io portavo la carriola dove Brunello depositava rami secchi, fogliame, erbaccia rastrellata, edera strappata, muschio, aghi di pino, i residui della pulizia alla base degli alberi, e intanto facevo fronte, come in apnea, a questa cosa che mi confondeva il cervello, cogliendomi impreparata, incredula e spaventata.
Mi sentivo al sicuro nella pineta, con Biancamaria appoggiata a un angolo soleggiato del muro, intenta a elaborare alcune varianti di una sua poesia, e poi l’uscita in macchina verso il paesello maremmano immobile nei secoli, qualche passeggiata, la cucina e il tavolo sotto la pergola. Anche il pomeriggio scorreva al sicuro, con Brunello che stentava al pianoforte la Sonata in do maggiore di Mozart, in quella casa imbiancata a calce, le scale fuori e le grandi foto in bianco e nero appese alle pareti – le case della bonifica mussoliniana, metà fra coloniche e operaie.
Ero protetta e condividevo il programma quotidiano, il film in dvd la sera, la spesa, gli amici a cena, i bagni nella riserva un po’ selvaggia – condividevo, come dire, la coppia: in quella coppia per qualche tempo c’ero anch’io, grazie alla intelligente largesse della mia amica, l’occhicerulea Bianca che capisce senza bisogno di indagare – e così facevo fronte allo spavento.
Fu così che partimmo, io un po’ come un automa.
E San Pietroburgo ci travolse come un’onda alta di quell’oceano che Brunello studiava – con la sua magnificenza nordica e settecentesca, gonfia di aria e di acqua del Baltico.

II.
Impreparata mi colsero dunque il provvidenziale viaggio e la straordinaria città. Non volendolo, col suo semplice esserci, la città soffiò un vento di fresca meraviglia sul mio animo, il vento della bellezza che tanto più colpisce quanto più è inaspettata. Come la tempestosa procellaria del sonetto di Hopkins dedicato alla musica d’angeli di Henry Purcell: l’uccello transoceanico, spiegando le grandi ali sulla marina purpurea di tuoni, mostra i suoi «segni» individuali e divini. E, volendo semplicemente spiccare il volo, rivela quei segni nel rovescio delle ali purpuree: è la frangia delle penne sovrapposte come piccole lune iridescenti che aprendosi si illuminano nel cielo.
O come, aggiungiamo in piccolo, l’upupa che quando si alza in volo all’improvviso dispiega la cresta e insieme la ruota delle ali rigate bianconere. O l’apparizione nel lampo dei fari dell’istrice notturno dietro una siepe, che da piccolo porcospino si trasforma in un alto totem arcaico, immobile nella raggiera dei lunghi aculei maculati. O ancora, la Madonna del Parto di Piero, che mi apparve anche lei inaspettata in una nicchia diroccata delle campagne aretine tanti anni fa, prima di venir sistemata fra le vetrate dell’itinerario turistico di Monterchi…
Così per me fu Pietroburgo, la Neva, i canali, le statue e i giardini, e le notti bianche con i ponti che si aprivano per far passare le navi in quella fine giugno 2004: le notti bianche dell’inizio dell’estate, quando, come scrive Dostoevskij all’inizio del romanzo breve che così si intitola, tutta Pietroburgo spiega le ali e se ne va improvvisamente in campagna.
III.
Si trattava di un importante convegno scientifico internazionale: invitati, Brunello in quanto scienziato illustre, e signora. Io al seguito come amica della signora, il che non avrebbe comportato problemi avendo Brunello optato per un appartamento e non per una stanza in albergo: dunque potevo tranquillamente entrarci anch’io, come disse con il suo allegro sguardo azzurro-verde. Il Convegno si teneva all’Istituto Eulero dell’Accademia russa delle Scienze di San Pietroburgo, la vecchia Accademia Imperiale delle Scienze, poi Accademia delle Scienze dell’URSS, l’istituto scientifico più importante della Russia fondato da Pietro il Grande a emulazione delle accademie scientifiche e letterarie parigine. Pietro chiamò i maggiori scienziati; e l’Imperatrice Caterina chiamò il matematico Eulero, padre della matematica e astronomo, ottico e scienziato navale. L’Istituto Eulero, o EIMI (Euler International Mathematical Institute), nella palladiana Accademia sulle rive della Fontan’ka, dal 1968 ospita ogni anno agli inizi dell’estate un seminario, i cosiddetti Days on Diffraction (dal 29 giugno al 2 luglio in quel 2004), con picnic tradizionale alla fine, nella vicina Petrovoretz, o Peterhof. In questi seminari, esperti da tutte le parti del mondo parlano di tutti i possibili fenomeni ondulatori: onde di mare, tsunami, maree, onde elettromagnetiche, meccanica quantistica.
Ricordo, per arrivarci, balenanti impressioni di ponti guardati da possenti leoni marmorei, e noi, zaino in spalla sotto il sole, alla ricerca dell’appartamento con la guida di Brunello che decifra a modo suo i caratteri cirillici. Biancamaria, e io, l’amica al seguito: che per niente impressionate dalla Scienza, attraversando la celebre Prospettiva Nevskij, protagonista di tanta grande letteratura, avevamo in mente gli scrittori.
IV.
Allontanandoci dal fiume percorremmo larghe strade rettilinee di edifici sovietici, fino a svoltare in un vasto cortile fatiscente segnato dall’umidità, dall’incuria e dall’odore di gatti bagnati. Come in un film in bianco e nero, salimmo vari piani fino alla porta del nostro appartamento: una stanza e mezzo, dice Brodskij nel racconto così intitolato che parla della sua vita a Leningrado e dei vecchi appartamenti divisi in kommunalka (9 mq per cittadino), bagno e cucina in comune. Subito dopo la seconda guerra, scrive, «eravamo in tre in quella nostra stanza e mezzo: mio padre, mia madre e io. Una famiglia, una tipica famiglia di quel tempo».
In quel suo pudico, intimo racconto dove rivivono i genitori sopravvissuti non solo alla guerra ma anche ai terribili anni Trenta, che oggi m’ispira tutt’altri pensieri, mi aveva colpito dieci anni prima la descrizione umoristica dei tentativi di Iosif di ostruire gli archi divisori della sua stanza da quella dei suoi, moltiplicando scaffali libri e armadi e tendaggi a strati, fino a ottenere un suo spazio privato, dove stare e, volendo, amoreggiare.
Ero andata a sentirlo in una domenica primaverile, il 19 marzo del 1995, quando Firenze gli consegnò il Fiorino d’Oro a Palazzo Vecchio. Brodskij ha sempre sostenuto che non sono le idee, ma gli schemi metrici e le rime a dare a una poesia il sigillo dell’inevitabilità, e di quel pomeriggio è rimasto indelebile il ricordo della sua lettura in russo: nessuno capiva, tutti capivano, come una volta scrisse Montale per Eliot. Erano poesie al trotto e al galoppo, ma anche ritmi quasi liturgici da testo sacro. Accolsi dunque come lieta sorpresa l’itinerario di Bianca, meno sprovveduta di me anzi per niente sprovveduta, che era riuscita a rintracciare la casa di Brodskij. Ci fermammo a osservarla da fuori, assorte pellegrine.
Nelle sue pagine avrei poi trovato conferma della immediata e netta percezione dell’anima nordica della città imperiale, costruita nel Golfo di Finlandia come finestra (o porta) sull’Occidente. «Sono nato e cresciuto – così apre il discorso di Brodskij di accettazione del Nobel a Stoccolma – sull’altra sponda del Baltico, in pratica sull’altra pagina di uno stesso giornale grigio e frusciante. A volte, nei giorni limpidi, specialmente in autunno, mentre stavamo su una spiaggia dalle parti di Kellomäki, un amico tendeva il dito in direzione nord-ovest, al di là di questa lastra d’acqua, e diceva: “vedi quella striscia azzurra di terra? È la Svezia”».
Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde grigie di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste s’arriccia, come un capello umido …
E ancora, Baltico:
Quando una tempesta di neve incipria il porto,
quando lo scricchiolante pino
lascia nell’aria una più fonda impronta
dei pattini d’acciaio di una slitta,
qual grado di azzurrità
può essere raggiunto dallo sguardo?
Ma anche in un’altra infanzia pietroburghese degli anni Venti splende la luce nitida del grande Nord, ed è nella lingua di Mandel’štam, metafisica e concreta, del Rumore del tempo (La Finlandia): «Ho sempre sentito confusamente il significato particolare che la Finlandia ha per i pietroburghesi, ho sentito che qui venivano a concludere i pensieri rimasti incompiuti a Pietroburgo, calcandosi fino alle sopracciglia il basso cielo nevoso e addormentandosi nei piccoli alberghi, dove l’acqua della brocca era ghiacciata». Con le parole di Mandel’štam sentiamo l’odore dei negozi finlandesi di catrame, di cuoio e di grano, e il candore della biancheria, fresca come la neve fresca.
V.
Eccoci dunque nella nostra stanza e mezzo, bagno compreso, da dividere in tre. Come fare, in tempi di ormai religiosa osservanza della privacy? Non lo so più, come facemmo: ma, passato il panico iniziale, una forma di allegria che non ci avrebbe più abbandonati sbaragliò la stretta osservanza alla regola della privatezza, e la risolse. Finimmo quasi per apprezzare questo straniamento rispetto ai nostri usi e costumi, questa ostranenie direbbero i Formalisti russi, come segnale di un’aura “sovietica” nel nostro soggiorno a Leningrado.
Ma non andammo a vedere – per via di quel mio stato di distrazione da me stessa – la casa di Nabokov, che tanto avevo amato leggendo Speak, Memory in un lungo viaggio aereo di ritorno da Montréal. Fino al 1917, per i suoi primi diciannove anni, la ricca famiglia aristocratica dei Nabokov abitava un imponente palazzo in Bol’šaja Morskaja Ulica 47 (ora museo): tre piani di granito finnico rosa, costruiti verso il 1885 dal nonno di Vladimir, con affreschi all’ultimo piano (la nursery, il piano dei bambini) e un grande bovindo al secondo. I bambini nel piano alto vivono con la candida Mademoiselle, che nella camera accanto alla loro legge «La Revue des Deux Mondes» la sera prima di spengere la candela, ignara degli spaventi notturni del piccolo Vladimir. E dalle alte finestre trascorrono le brillanti e gelide notti bianche primaverili, col rumore del ghiaccio che si frange nella vicina Neva.
Ecco come Mandel’štam ricorda questa strada ai primi del secolo: «Nel Giardino d’Estate i bambini si comportavano molto cerimoniosamente […]. Accadde così che la mia prima infanzia pietroburghese trascorresse sotto il segno del più autentico militarismo, e per la verità non era colpa mia, ma della mia bambinaia e della vita pietroburghese di quei tempi. Andavamo a passeggiare per via Bol’šaja Morskaja, nel suo tratto deserto […]. Dirò anche adesso, senza ambagi, che a sette otto anni io consideravo sacro e solenne tutto il nucleo fondamentale di Pietroburgo, i quartieri di granito e di cubetti di legno, tutto quel tenero cuore della città, con lo slargo delle piazze, con i giardini frondosi, le isole dei monumenti, le cariatidi dell’Ermitage…».
Perché dunque, mi chiedo, non proposi di andare in pellegrinaggio alla casa di Nabokov nella vecchia Pietroburgo, ma solo, grazie a Biancamaria, alla stanza e mezzo dei Brodskij a Leningrado? Forse una ragione c’è. Se quegli anni infantili di Nabokov letti in un Penguin tascabile comprato a Londra dalla mia prima figlia Livia, che in quella città aspettava anche lei la sua prima figlia, con la bella foto in copertina del giovane Nabokov, snello ventenne biancovestito in barca, ormai a Cambridge; se quei suoi anni russi di prima del ’17 erano così vividi nella mia memoria, non avevo invece veramente localizzato la città, per una mia assurda e insensata distrazione sui dati reali. Semplicemente, non avevo capito che era proprio lì, non avevo realizzato che era proprio lì.

VI.
Per andare a scuola – l’Istituto Tenišev dove aveva studiato anche il piccolo Osip Mandel’štam fino al 1907, due anni prima – dalla grande casa di granito, a undici anni Vladimir oltrepassava la casa del Principe Oginski (il numero 45), poi l’ambasciata italiana (il numero 43) e quella tedesca (il numero 41), fino all’ampia piazza Maria, al piccolo parco pubblico e fino alla Prospettiva Nevskij percorsa dalle slitte, attraversata la quale passava davanti al negozio di giocattoli della Caravannaya (o Strada delle Carovane), e al grande Circo Ciniselli, il primo circo esistente in mattoni: che costituì per me una delle prime meraviglie della città. Il Circo, costruito nel 1877 presso la Fontan’ka con un palco di tredici metri di diametro e stalle per 150 cavalli fu poi usato anche come teatro: registi come Max Reinhardt, attori come Moissi, cantanti come Chaliapin.
Avevamo mosso i nostri primi passi fuori dalla nostra stanza e mezzo e dal grande cortile umido avviandoci in direzione della Fontan’ka, dei ponti, e della Prospettiva Nevskij. Ero pronta a girovagare nella città senza mappe né guide, stile flâneur, ma Bianca fortunatamente seguiva un suo intelligente itinerario spingendomi con allegra determinazione verso la sua prima mèta: la casa di Anna Achmatova. Tuttavia una volta incontrato senza volere il Circo, qualcuno (noi? io stessa forse? o l’organizzazione dei Diffracion Days?) prese i biglietti. Lo spettacolo consisteva nei giochi aerei delicati e spirituali del Cirque du Soleil che non avevo ancora mai visto: niente giraffe né elefanti né pagliacci, ma solo aerei acrobati, luci, e metamorfosi di suoni e colori. Pensai che questo fosse lo spirito nuovo del Circo di Stato Bol’šoj, il vecchio Circo Ciniselli: ma sbagliavo. Il Circo si regge ancora oggi soprattutto sulla presenza di orsi, zingari, e animali esotici dei paesi ex-sovietici. Tuttavia, tale rimarrà ormai la mia impressione del contenuto spirituale di quella incredibile costruzione massiccia, senza teloni mobili né ruote, ottocentesca e positivista come l’intravista infanzia di mio padre: che per tutta la sua vita ha continuato a amare il Circo.

Quanto a Nabokov, la famiglia, lasciata San Pietroburgo, rimase quasi ancora due anni in Crimea, fino alla fuga nella primavera del ’19 sul mare immobile della baia di Sebastopoli, zigzagando sotto il fuoco delle Guardie Rosse, a bordo di una modesta imbarcazione greca con un carico di frutta secca, la Nadežda – che vuol dire Speranza, in russo. Sul battello, Vladimir e suo padre erano impegnati in una partita a scacchi.
Nadežda: è il nome della amatissima moglie (per poco tempo) e vedova (a lungo) di Osip Mandel’štam, autrice di due volumi di memorie e cara amica di Anna Achmatova. Un suo vivissimo ritratto lo ha scritto Brodskij in Fuga da Bisanzio. Lo stile di Nadežda, la sua prosa, dice Brodskij, era foggiata dall’uso che il marito Osip e l’amica Anna avevano fatto del linguaggio. Lei era stata plasmata da quella cultura e soprattutto dalle poesie di suo marito, i migliori prodotti della cultura russa dell’epoca: «Era vedova di quelle poesie, non di lui, e ne rimase vedova per quarantadue anni».
Leggiamo allora una nota poesia di Mandel’štam da Tristia (1922). Osip aveva fatto parte del gruppo acmeista con Achmatova e la poesia fu ispirata dalla fucilazione nel 1921 del primo marito di lei, Nikolaj Gumilëv. Questa è la versione di Antonella Anedda, passata attraverso la versione di Philippe Jaccottet ne La Parola Russia:
Mi sono lavato, di notte, nel cortile.
Il cielo scintillava rozze stelle.
Il loro lume è come sale sull’ascia,
la botte, colma fino all’orlo, gela.
La catena è tirata sul portale.
La terra, in coscienza, è rude.
La verità non troverà trame più pure
di questa grezza tela.
Nella botte, la stella fonde come sale
l’acqua ghiacciata si fa nera,
più pura la morte, più salata la sventura,
e la terra più tremenda e vera.
Perché, racconta Nadežda Mandel’stam, «nella poesia s’infilò pure l’asciugamano di tela grezza, tessuto in casa, che ci eravamo portati dall’Ucraina».
Secondo Brodskij se, dopo lo spaventoso quindicennio precedente la seconda guerra, la fucilazione del primo marito, l’arresto del figlio Lev prigioniero in carcere per 18 anni per il fatto di essere suo figlio, la morte in prigione del terzo marito Nikolaj Punin, e poi il rifugio a Taškent durante i novecento giorni dell’assedio di Leningrado che tra i bombardamenti e la fame fecero quasi un milione di vittime, se dunque Anna Achmatova, continuò a scrivere (ma non a pubblicare), «è perché la prosodia assorbe la morte e perché lei si sentiva in colpa per essersi salvata. Le liriche che compongono Ghirlanda per i morti non sono che tentativi di ristabilire un rapporto con le persone cui era sopravvissuta: attraverso la prosodia, di cui esse diventano parte».
Uscite alla fermata Mayakovskaja della Metropolitana, entrammo da una cancellata in ferro battuto nel piccolo giardino della casa della Fontan’ka di Anna Achmatova, al secondo piano del numero 51 del Litenyi Prospekt. Pochi mobili primo ottocento, una scrivania e un piccolo tavolo intarsiato – i suoi occhiali – una borsa – una carta scritta – un cappellino. È la casa dove visse una convivenza molto difficile con il terzo marito Punin e, insieme, con la precedente moglie di lui e il piccolo Lev Gumilëv, nella penuria delle case sovietiche. Eppure il settecentesco palazzo Šeremetev contiene ancora vive le tracce del suo passaggio, come il chiudersi del ventaglio sul braccialetto di Mademoiselle Mallarmé nella nota poesia…
Accompagnavo in silenzio le curiosità, la commozione, le soste di Bianca, conoscendo poco le poesie di Achmatova, ma sì piuttosto il famoso ritratto quasi cubista, con i verdi e gli azzurri attraversati dallo scialle giallo, che le fece nel 1914 il pittore Nathan Alt’man, e che si trova al Museo Russo di San Pietroburgo. Qui la poeta è molto bella, come lo è nel segno inconfondibile del suo corpo flessuoso tracciato nell’aria a matita da Amedeo Modigliani, a Parigi: quanto basta a volte per svegliare in un lettore la curiosità, e spingerlo alla conoscenza. E se non riuscivo a appassionarmi alle sue prime liriche amorose e ribelli, tuttavia ricordavo una sua terribile poesia del 1934, Ultimo brindisi:
Bevo a una casa distrutta
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradiscono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
a un mondo crudele e rozzo,
a un Dio che non ci ha salvato
Il poemetto Requiem racconta la sorte di Anna, in fila per diciotto anni di fronte al carcere di Kresty dove a intervalli il figlio Lev fu rinchiuso nonostante le sue continue petizioni: in fila nella neve, senza risposta, con le altre madri di altri figli, in questo eterno ritorno di un destino di attesa, il destino delle madri. Finché, con un tipico paradosso della Russia sovietica, finalmente scarcerato dopo la morte di Stalin, il valore di Lev – per i suoi studi come geografo, storico e antropologo degli antichi popoli turanici e degli altri popoli delle steppe, nonché di storia dell’arte tibetana medievale – venne riconosciuto: tanto da intitolare a lui l’Università di Astana, la capitale del Kazakhstan.
Però no, non c’è paragone fra la meraviglia che destano in me le poesie di Mandel’štam e i testi di Achmatova. Se è vero come dicevano i barocchi che – è del poeta il fin – la meraviglia, Osip rinnova la meraviglia a ogni rilettura, con la sua incredibile capacità di «seguire il secolo» e il rumore del tempo: «Su di me, come su molti miei contemporanei, pesa la balbuzie della nascita. Abbiamo imparato non a parlare, ma a balbettare, e soltanto prestando ascolto al crescente fragore del secolo e imbiancati dalla spuma della sua cresta, abbiamo acquistato una lingua».
Imbiancati dalla spuma della cresta del fragore del secolo… le immagini di Mandel’stam hanno il nitore e la forza delle campiture dipinte di Malevič, il cui Quadrato nero è anche lui al Museo Russo. E pur avendo tentato di scrollarsi di dosso Pietroburgo, Mandel’štam non ci riuscì mai completamente: «Pensava che Pietroburgo era la sua malattia infantile e che sarebbe bastato soltanto riaversi, risvegliarsi e l’allucinazione si sarebbe disfatta: egli sarebbe guarito e sarebbe diventato come tutti; magari si sarebbe anche sposato…» scrive nel Francobollo egiziano: «È terribile pensare che la nostra vita è un romanzo senza intreccio, fatto di vuoto e di vetro, dell’ardente balbettio di sole digressioni, del delirio dell’influenza pietroburghese». Il vuoto, il vetro, le digressioni e il balbettio: le cose che fanno la sua scrittura si toccano con mano.
Eccolo invece dopo il famoso viaggio in Armenia:
Nell’anno trentunesimo del secolo
sono tornato – no, mi hanno costretto
a ritornare nella Mosca buddhista.
Ma prima ho avuto il tempo di vedere
il Monte Ararat, la sua biblica tovaglia,
e di trascorrere duecento giorni
nel paese sabbatico: l’Armenia.
Se hai sete, lì c’è l’acqua
di Arzni, la fonte curda:
è buona, secca, punge:
è l’acqua più veritiera.

VII.
Una sorpresa mia personale mi attendeva, in quella sorprendente e straordinaria città, dove meno me lo sarei aspettato: nella sala 34 al pianterreno del Museo Russo nel Palazzo Michajlovskij, visita obbligata insieme al Palazzo d’Inverno e all’Ermitage. Si trattava del magnifico ritratto a grandezza naturale del vecchio Tolstoj scalzo, che fu esposto nel gennaio 2008 alla Royal Academy di Londra in una memorabile mostra, i piedi nudi sul terreno, le mani infilate nella cintura marrone che regge la camicia bianca da mugiko sui pantaloni scuri, la lunga barba degli ultimi anni, una tasca da cui spunta un libro.
Era il quadro che avevo visto nell’infanzia in Alessandria d’Egitto, e poi per anni nel salotto di mia madre! Sapevo per sentito dire che questo ritratto era “una copia”, assai imponente per altro, a grandezza naturale, con una spessa e larga cornice di quercia chiara.
Il quadro, scoprii dunque, è di Il’ja Repin, il maggior pittore e scultore russo (ma nato in Ucraina) della seconda metà dell’Ottocento, autore del celebre dipinto I battellieri del Volga, convinto assertore degli ideali del repubblicanesimo cosacco, libertà uguaglianza fraternità: vedi il grande dipinto I cosacchi della Zaporodž’e scrivono una lettera al sultano di Turchia che lo impegnò fra gli anni 1870 e i 1890. Il suo nome è stato dato a un asteroide, e la località nei pressi di Leningrado in Carelia, sulla costa settentrionale del Golfo di Finlandia, dove si era costruito una dacia (che chiamò I Penati), da Kuokkala, suo vecchio nome, è stata ribattezzata Repina. Come si vede Il’ja Repin condivideva gli ideali democratici e morali del conte Tolstoj, autore fra l’altro dell’indimenticabile racconto I cosacchi: e lo ritrasse nel 1901 vestito da contadino.
Curiosamente questo quadro, anzi la copia di questo quadro, ha avuto un po’ la funzione di Penate anche nella diaspora familiare di mia madre. Acquistato da suo padre, ebreo spagnolo nato a Salonicco e poi commerciante in Alessandria d’Egitto, democratico di ideali tolstojani e suddito inglese estimatore di Disraeli, alla sua morte passò in casa di una delle cinque figlie, mia zia Noemi detta Mema, grazie alla quale il quadro arrivò in Italia al momento della cacciata degli ebrei da parte di Nasser, dall’Egitto e dalla R.A.U.: per infine approdare miracolosamente incolume in casa nostra.
Quién es ese hombre? chiedeva mia madre ogni volta che entrava in salotto e lo vedeva, avvicinandosi ai cento anni, nel suo idioma della primissima infanzia, il più antico riemerso da una infinità di tempo, dopo un lungo periodo in francese, al posto dell’italiano che prima usava con noi. Tolstoj, rispondevamo pazienti, il grande scrittore russo (l’écrivain, el escritor …). Finché attaccammo sulla cornice un cartellino con scritto in grande: LEV TOLSTOIJ.

VIII.
L’eleganza dei leoni di marmo a guardia dei ponti e la magnificenza infantile del circo di pietra si coniugano anche nelle luminose stazioni sotterranee della Metropolitana di Leningrado, che destarono in me un analogo stupore. La prima linea, la Linea Rossa inaugurata a metà degli anni ’50, univa le cinque stazioni ferroviarie della città: la Stazione Mosca con la Stazione Finlandia sulla Neva, dove nel ’17 giunse Lenin dall’esilio (monumento in pietra nella piazza, su una autoblindo essa pure in pietra), accolto trionfalmente come si vede nel grande mosaico a colori della Metro; e con quelle di Vitebsk, quella del Baltico e quella di Varsavia.
Le stazioni sotterranee sono decorate in granito, marmi politi di vario colore, acciaio inox e vetro, bronzo e alluminio, ognuna con un tema. La nascita della flotta russa creata da Pietro il Grande nella Admiralteyskaya; la cannonata a salve sparata nell’ottobre dal cannone di prua dell’Incrociatore Aurora nell’estuario della Neva, che diede inizio alla Rivoluzione del ’17, in un mosaico di marmo alla Baltiyskaja; la Puškinskaja con la statua di Puškin seduto davanti a un giardino verde dipinto…
Visitato, come d’obbligo, al seguito di Brunello, l’Incrociatore Aurora, finimmo anche sotto la statua dello zar Pietro il Grande, il Cavaliere di bronzo (titolo del celebre poema di Puškin), che s’inarca sulla gigantesca roccia di granito nella Piazza dei Decabristi sullo sfondo del delta della Neva e della Fortezza di San Pietro e Paolo, dalla quale ancora oggi tuona il cannone di mezzodì.

La poesia di Puškin, secondo Brodskij nello scritto su Nadežda Mandel’štam, è la sorgente di tutto, anche della grande prosa russa della seconda metà dell’ottocento. Questa prosa infatti, che può sembrare nata dal nulla, «in realtà era semplicemente un prolungamento, una meteora staccatasi dalla poesia russa dell’ottocento […] e la migliore opera narrativa può essere considerata un’eco lontana e un’elaborazione meticolosa della sottigliezza psicologica e lessicale dispiegata dalla poesia russa nel primo quarto di quel secolo». E cita Achmatova: «Quasi tutti i personaggi di Dostoevskij sono eroi puškiniani invecchiati, sono degli Onegin e via dicendo».
Già, Dostoevskij: e in particolare, a Pietroburgo, ovviamente Delitto e castigo. Oggi nella via Grajdanskaya del quartiere povero e malfamato di Piazza Sennaya, dove visse lo scrittore, i turisti vanno a vedere la casa di Raskol’nikov, e la grotta che il protagonista attraversa per prendere l’ascia con cui ucciderà la vecchia usuraia e sua sorella: che viveva, scrive Dostevskij, a 730 passi dalla casa. Ricordo perfettamente, non so perché, il piccolo ponte che attraversa un canale sulla sinistra, e Biancamaria che ricostruisce la location, come oggi si usa dire, del delitto. La nettezza del ricordo forse è dovuta a un rimosso: cioè la percezione di un’altra San Pietroburgo, il risvolto della prima, con i suoi sotterranei segreti, i maleodoranti sottoscala, le fetide abitazioni.
E ricordo la mia perplessità.
Perché perplessa?
Forse perché, devo avere il coraggio di dirlo, a me Dostoevskij non ha mai finito di convincermi: cioè, non l’ho mai letto con fremito e affanno, ma sempre con fatica e lentezza, corrugando la fronte nello sforzo di capire. Neanche Delitto e castigo, per la verità: non ho mai capito davvero la necessità di quel gesto di libertà, l’uccisione gratuita della vecchia (però usuraia), con il connesso tema teorico del libero arbitrio (dei superuomini) … Non lo sento, non mi sembra che ciò mi riguardi, diciamo. Fu dunque con stupore e sollievo che lessi al loro apparire le Lezioni di letteratura russa di Nabokov, scoprendovi una reazione analoga, se posso permettermi: la delusione per la mancanza dello sfondo naturale del paesaggio con i suoi dettagli, in favore di un paesaggio morale; l’estraneità nei confronti di personaggi caratterizzati da epilessia, isteria, demenza senile, psicopatia. Infine, per dirla con lui, non mi sono assolutamente affini le generalizzazioni, e nemmeno tutta «la famiglia dostoevskiana dei personaggi che si torcono le mani» e che «non aprono mai bocca senza impallidire, arrossire o barcollare».
Ammetto, ok, ammetto tuttavia l’incredibile, quasi insopportabile alterigia e intransigenza dei commenti nabokoviani… ma non posso tacere la mia relativa freddezza nei luoghi di Crime et châtiment, come titolava l’edizione francese, la prima a circolare in Italia.
Tuttavia pensandoci oggi mi è più chiaro che la nettezza del mio ricordo di quel piccolo ponte e della stradella che svolta sulla sinistra indica proprio l’attimo della mia intuizione del lato oscuro di San Pietroburgo. La San Pietroburgo reale, Peter, Pietrogrado, Leningrado (secondo la Guida a una città che ha cambiato nome di Brodskij) è davvero lo specchio della San Pietroburgo raccontata nei romanzi e nelle poesie: questa città eretta sopra un terreno torbido e paludoso di 101 isole è stata fondamentale per la grande letteratura russa dell’ottocento. Per questo fu allora possibile che mi sfiorasse il rovescio della medaglia, il lato oscuro, dostoevskiano appunto, del reale: subito rimosso, come è nel mio carattere. Intuii il rovescio di questa città, «prodigio architettonico issato su vacillanti paludi», come scriveva il grande Ripellino presentando Pietroburgo di Andrej Belyj, città «scaturita come un miraggio dal fango degli acquitrini per il caparbio volere di un despota», che sotto le sue apparenze fastose nasconde «misere spoglie sofferenti» e «un querulo mondo di pena».
IX.
Nelle nostre lunghe passeggiate, – con le larghe prospettive, i ponti e il selciato di granito che corre accanto al grande fiume che si biforca nel centro della città, dove sorgono i palazzi imperiali, strani figli dei palazzi europei, – e nei geometrici incroci delle architetture, avevo adocchiato un vecchio tram bianco sempre vuoto che spariva in una piccola strada obliqua e nitida, forse un’attrazione turistica, che mi attraeva inspiegabilmente. (Le portiere a vuoto spalancate sulla sera di nebbia nessuno che salga o scenda se non una folata di smog la voce dello strillone…)
Ma non sappiamo dove va, si rifiutava di salire Bianca. Che importa, rispondevo sinceramente, e ogni volta l’impulso di salire era sempre più forte, finché lo assecondai saltandoci sopra all’improvviso e salutando Bianca fra risate un po’ allarmate e promesse di ritrovarci prima possibile. Eppure è strano, ricordo il piacere di lasciarmi portare dal caso, ma non ricordo dove effettivamente il tram fantasma, un po’ alla Bergman, arrivasse al capolinea: e scesi nell’ignoto. Mi ero guadagnata un tempo sospeso, una pausa. Di quella pausa, come forse è giusto che sia, non ricordo quasi niente, in quale parte della città mi trovassi, e nemmeno la sosta dei miei pensieri: al bianco del tram corrisponde un bianco della mente.
Forse non fu difficile ritrovare la Neva, e verso sera anche gli amici già un poco preoccupati. Nel mio ricordo Bianca scrisse poi una poesia che da questo episodio prendeva spunto, ma anche qui la memoria non mi aiuta. Mi pare che lo spazio bianco del piccolo tram vuoto, nella poesia di Bianca fosse collegato a un episodio decisivo nella mia esistenza, al quale però non avevo mai attribuito molta importanza: trentasei ore in cui ero stata in coma dopo un grave incidente, da giovane. Insomma, una visita nell’aldilà, dal quale, come sappiamo, non è permesso riportare notizie. Anche se prima della poesia di Bianca non avevo mai pensato di esser stata nell’aldilà, ma semplicemente in un coma di cui ricordavo solo un lampo di dolore fortissimo, una iniezione nel midollo spinale.

X.
La virtù esilarante della vodka l’avevamo provata vent’anni prima, alla fine di novembre del 1982, quando stavamo nella città degli amori in salita, Genova di tutta la vita, vicino all’Ascensore e al belvedere dove si sta in vestaglia (rima: ragazzaglia). Uno da Mosca e uno da Varsavia erano arrivati nell’Aula Magna dell’Università per un convegno internazionale sul grande Eugenio da poco scomparso altri due Eugeni, suoi studiosi e traduttori: Evgenij Solonovič e Eugeniusz Kabatc.
Erano in tre dunque, e in tre lingue, gli Eugeni a cena nella casetta rossa tutta scale (Genova verticale, vertigine, aria, scale), – e tre bambini già a letto nella loro grande stanza sospesa sulle luci del porto, dal quale giungeva a tratti il gemito di una nave in entrata o in uscita.
Tre Eugeni, in quella Genova mia tradita, rimorso di tutta la vita. Due vivi e uno, amante degli scherzi, dall’al-di là: già oltre il gorgo, il mulinello della sorte dove si era da poco imbucato, e che da quello straordinario virtuoso che era si limitò quella sera a qualche facile esercizio, scale e vocalizzi sulla tastiera. I due sovietici in libertà provvisoria erano giunti con due bottiglie di purissima vodka, con cui pasteggiammo sempre più allegri, di citazione in citazione fino a quelli che sono fra i più bei versi del nostro Novecento: Lo sai debbo riperderti e non posso: come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido, e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa…
Gli Eugeni slavi volevano sentirli recitati ad alta voce da noi in italiano, come squisiti dolci da rigirarsi in bocca fra la lingua e il palato, finché uno dei due, forse Eugeniusz, si alzò infiammandosi a declamare la traduzione polacca, subito imitato da Evgenij, anche lui in piedi, ma in russo (e nessuno capiva ma tutti capivamo). Finché alzati tutti in piedi qualcuno scoppiò a ridere, e un liberatorio fou-rire affratellò poeti e prosatori, ospiti e ospitanti, slavi e occidentali, in una amicizia, una felicità raggiunta che si sarebbe riverberata, durante i frequenti viaggi a Mosca del padre dei bambini, negli inviti a cena all’Unione Scrittori da parte di Evgenij.

XI.
Di nuovo dunque, inaspettatamente, vodka: nel famoso Picnic conclusivo del convegno degli scienziati di Brunello a Petrovoretz, la residenza estiva degli zar così ribattezzata nel 1944 (Palazzo di Pietro), ma che in seguito ha ripreso il suo nome originario: Peterhof, a 29 chilometri da San Pietroburgo. Il magnifico palazzo voluto da Pietro I per sorpassare Versailles, con 600 ettari di parchi, mirabolanti fontane nonché un elegantissimo châlet più intimo e prediletto, il Monplaisir sul mare nel Golfo di Finlandia, fu occupato dai nazisti dal 1941 al 1944. Ma, stranezze e ironie della grande Storia, se fu quasi completamente distrutto (e poi ricostruito) non lo fu dai nazi, bensì da Stalin che avendo avuto sentore attraverso il NKGB che Hitler intendeva festeggiare proprio lì il suo compleanno, decise di bombardarlo e farlo radere al suolo.
Scesi dall’autobus come in una gita scolastica, ci addentrammo con gli scienziati venuti da tutto il mondo in una lunghissima passeggiata lungo i sentieri immersi in boschi di betulle. Forse nel Parco inferiore che scende fino al mare, dove prevale il bosco? O forse più verosimilmente nel Parco di Alessandra, ancora più boscoso e meno frequentato? Non lo so più, ma so soltanto che, cammina cammina, quando alcuni cominciano a dar segni di impazienza e stanchezza, finalmente una sosta. Lì, come per miracolo, le sorridenti segretarie tirano fuori da certi piccolissimi zainetti, come il vestito d’oro e d’argento delle fiabe racchiuso in una noce, alcune grandi tovaglie che stendono al suolo e che immediatamente si riempiono da sole delle migliori leccornie russe, dalle aringhe affumicate al burro salato a certi pani neri e morbidi, alle torte dolci e salate, al salmone, al pregiatissimo caviale grigio a grani grossi, e naturalmente, alla purissima vodka.
Certo non eravamo nella fiaba dei fratelli Grimm Tovaglietta apparecchiati! (molto tedesca e militarista rileggendola), ma nemmeno in una fiaba russa. Al contrario, eravamo in piena tradizione contadina russa, come la descrive Tolstoj nel meraviglioso racconto Padrone e servo, nella prima sosta di Vasilij Andrejč e del suo contadino Nikita nella bufera di neve: «I contadini avevano già avuto vodka e cibo. Ora stavano per bere il tè e il samovar stava già bollendo sul piano rialzato vicino alla stufa…».
E man mano che quelle squisite leccornie ci spingono a bere, un’espressione di incredula allegria spunta negli occhi degli scienziati. Incrocio lo sguardo con un giovane sudamericano che è lì con tutta la famiglia e scoppiamo a ridere insieme, coinvolgendo gli altri. Un ronzio tenace accompagna la nube di zanzare che ci avvolge, ma la vodka fa anche questo miracolo: le allontana. Cerco senza successo di convincere Biancamaria a bere la pozione miracolosa, e ancora oggi mi rammarico di non esserci riuscita: non ci credeva.
Ci accorgiamo all’improvviso della presenza di una enorme pentola nera posta dalle segretarie sopra uno stentato focherello di legna secca, che sta cominciando a bollire: cos’altro vorranno fare? Ma è il tè!, il chai, il famoso tè russo, čaj nero e forte, distribuito con lunghi mestoli per farci digerire e tornare alla ragione. Infatti, secondo gli orologi sono già le dieci di sera, e il sole traluce attraverso il fogliame. È ora di rientrare, stanchi ma felici, per assembrarci nel pulmino che verso mezzanotte ci depositerà nella Admiralteskaya, sulla Neva.
Qui aspetteremo, nella incredibile luce finitima di un giorno ancora persistente nel cuore della notte, allo spettacolo dei ponti che a turno si alzano fra le una e mezzo e le tre per permettere il passaggio delle navi.
Del tutto svegli, scambio un sorriso riconoscente con Bianca e Brunello – un sorriso fra concubini.
(Dichiarate o nascoste, in questo testo molte sono le parole rubate a Caproni, Montale, Sereni. Il Discorso di accettazione del Nobel di Brodskij è tradotto da Gilberto Forti; le sue poesie Baltico del Nord e Sono nato e cresciuto… da Giovanni Buttafava; i brani da La Finlandia e sulla via Bol’šaja Morskaja di Mandel’štam da Giuliana Raspi, la poesia Ultimo brindisi di Anna Achmatova da Michele Colucci; la poesia di Mandel’štam al ritorno dall’Armenia da Serena Vitale).
Testo pubblicato in Studi per Biancamaria Frabotta, a cura di Beatrice Alfonzetti e Carmelo Princiotta, Roma, Bulzoni, 2018.
In copertina: Dmitri Kessel, Hermitage Book, 1967