La prima lezione online della mia carriera di docente universitaria precaria è stata sulla rappresentazione dei disastri naturali. È stato un caso del destino, avrei comunque parlato di questo tema quel giorno nel mio corso su Arte e Natura. Era il 27 febbraio e le università erano le prime istituzioni italiane ad aver deciso di chiudere. Imbarazzata e sola nella mia stanza, ho registrato un breve video sulla spettacolarizzazione del disastro nel settecento, attraverso una selezione di vedute prodotte dagli artisti stranieri in Italia. Parlavo della serie di dipinti di Pierre-Jacques Volaire che rappresentano l’eruzione del Vesuvio nel 1771 (Art Institute of Chicago). Pittore francese poco conosciuto in patria, Volaire divenne famoso in tutta Europa grazie a queste immagini in cui confrontava la potenza del vulcano con la calma della notte in cui una luna pallida sbucava tra le nuvole. Illuminate dal getto di lava incandescente, le silhouette di un gruppo di gentlemen arrampicati con i loro cani sulle rocce per osservare meglio lo spettacolo descrivono un interesse cinico e vagamente distaccato per l’evento. Queste silhouette sono il doppio di chi avrebbe guardato il dipinto appeso nel salone di casa, e di noi che oggi osserviamo le immagini della pandemia da ben più piccoli salotti.

Il dispositivo di rappresentazione dell’emergenza di oggi rappresenta un inquietante rovesciamento di queste visioni spettacolari pre-moderne e al contempo rivela un’aderenza inaspettata alla nostra visione della normalità. Le immagini che associamo con la pandemia iniziata nel gennaio 2020 sono immagini delle città vuote, senza evento né testimoni. Da Wuhan a Milano, da Parigi a New York, le fotografie delle piazze, strade e parchi progressivamente svuotati dai loro abitanti sono diventate il segno della diffusione globale del virus. Si è cominciato con le foto di una città cinese che fino ad allora conoscevamo pochissimo, una città di undici milioni di abitanti fondata oltre 3500 anni fa lungo il corso dello Yangtze. Da questa città altamente tecnologica e ricchissima, arrivavano soprattutto le immagini del cantiere dell’ospedale costruito in una decina di giorni per accogliere i malati con insufficienze respiratorie: un’enorme area vuota su una penisola paludosa in cui centinaia di gru hanno scavato e appoggiato centinaia di moduli prefabbricati. Nelle foto dell’enorme cantiere visto dall’alto si enfatizzava il dispiegamento delle macchine che lavoravano incessantemente. Più si allontana lo sguardo dalla dimensione umana, ad esempio con le fotografie scattate dai droni, più si dà conto della scala di grandezza della sfida intrapresa per sconfiggere un nemico paradossale, così minuscolo da essere invisibile agli occhi umani e alla macchina fotografica.
La questione centrale è quella della visibilità: le immagini delle città vuote sono strumenti che rivelano a milioni di persone una realtà che non possono vedere con i propri occhi. A differenza dei turisti a Napoli nel settecento, molti di noi non possono essere testimoni diretti dello svuotamento degli spazi urbani. Le immagini che accompagnano articoli e video sulla pandemia sono quindi la sola finestra su quello che sta succedendo e si pongono come documenti della realtà. Girando video dai balconi o facendo circolare immagini degli ospedali, si è cercato di riportare le persone al centro, ma questa narrazione patriottica ha presto rivelato la sua debolezza; le immagini della città vuota sono quelle che resteranno maggiormente associate all’inizio della pandemia. Le piazze centrali di molte città italiane, che di solito debordano di turisti, sono la scena preferita dai giornali. E al contempo, nessuno fotografa le potenziali rovine della normalità – le aule scolastiche vuote, gli uffici, le fabbriche che hanno spento i macchinari.
L’uso improprio di metafore di guerra in questi giorni fa pensare all’analisi della fotografia di guerra di Susan Sontag, Regarding the pain of others.[1] Anche le immagini della pandemia mostrano fieramente il controllo militare, e in molti casi esagerano il dispiegamento delle forze di polizia nelle piazze deserte. Questa dimostrazione di forza stupisce perché queste presenze solitarie nelle piazze vuote alla fine sono chiamate a controllare i cittadini che dovrebbero proteggere, mentre il ‘nemico comune’ si può ‘sconfiggere’ solo in ospedale o in laboratorio. Le immagini di cui parlo, dunque, finiscono per pungolare il desiderio dei cittadini di ricominciare a uscire, di comprare, di vendere, e non quello di essere più responsabili e consapevoli. Dunque queste foto sono dispositivi puri che mostrano una narrazione univoca: come scriveva Sontag, the problem is not that people remember through photographs, but that they remember only the photographs.[2] Le immagini delle città vuote e pattugliate saranno le sole che resteranno nella memoria collettiva, ma mostrano soltanto alcuni momenti accuratamente messi in scena. E infatti, in modo contrario e provocatorio, alcuni giornali alternano le fotografie delle città deserte con il loro opposto, le fotografie da paparazzi che ‘beccano’ coloro che infrangono le regole. Tra queste immagini, anche quelle della metropolitana di Milano affollata di gente senza mascherina, magari attaccata colpevolmente al corrimano – i cittadini ‘irresponsabili’ che infrangono la legge. Eppure, come viene fatto notare da sindacati e associazioni, le città si nutrono (letteralmente) del lavoro di qualche centinaio di migliaia di persone che devono viaggiare la mattina presto, anche oggi che il numero dei treni e degli autobus è stato ridotto in molti comuni.

L’immaginario globale si rincorre, aggiungendo varianti continue al dispositivo della città vuota. Un esempio: la copertina dell’ultimo numero del New Yorker si intitola Grand Central Terminal e mostra la la figura minuscola di uno spazzino solitario nella hall di una stazione imponente che solitamente trabocca di persone. Qui, finalmente, l’illustratore Eric Drooker scopre la solitudine dei lavoratori veramente ‘necessari’ che rischiano la loro salute e quella dei loro familiari, mentre tutti gli altri sono a casa. Lo spazzino guarda in basso, non può godere della bellezza di questa architettura ideale e metafisica, messa in luce dai raggi di sole che trafiggono i finestroni sbarrati.
Penso agli spazi vuoti delle città ideali del quattrocento che ostentavano la piazza come palco della vita pubblica, organizzata utopicamente secondo linee prospettiche calcolate geometricamente. Ma se la città umanista progettava i luoghi d’incontro, la città dell’epidemia permette solo un veloce attraversamento. Le immagini delle città deserte sembrano stravolgere tutti i precedenti iconografici, dall’idealizzazione delle città rinascimentali allo spettacolo della distruzione e della rovina, per rappresentare il vuoto sociale e culturale presente, esacerbato da leggi che confusamente impongono distanza e controllo sociale. Le immagini sono sublimi in quanto esprimono la bellezza terrificante dell’architettura come una scenografia temporaneamente inutilizzata in un teatro abbandonato; ma si insinua il dubbio che questa sia la stessa immagine del vuoto preconizzata dal regime del controllo CCTV (e infatti molti giornali usano immagini delle webcam). Attraversate ogni tanto da lavoratori solitari o da padroni di cani a passeggio, e pattugliate dalle forze dell’ordine, le città deserte sono sublimi perché davvero vuote, ma anche inquietanti perché usano dispositivi già disponibili. Interrogarsi su questa ambiguità di sguardo – che seleziona e prevede, ma non ‘vede’ nulla – diventa fondamentale per capire come ricostruire gli spazi sociali, senza lasciare che la scenografia della vita comune si svuoti del tutto.
Immagine di copertina: Anonimo, Veduta di città ideale, 1477 circa.
[1] Susan Sontag, Regarding the pain of others, Hamish Hamilton, 2003 (ed. it. Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 2006)
[2] ibidem, p.77 [“il problema non è tanto che le persone ricordino attraverso le fotografie, ma che ricordino solo le fotografie” N.d.R.]