Ordinaria perturbazione

Io non so quale sia il meccanismo mentale che ci fa dimenticare così facilmente le cose importanti che leggiamo. In realtà non le dimentichiamo: più sono importanti, più risuonano dentro di noi, più facilmente ce ne riappropriamo in modo così intimo da dimenticarne la fonte. Riflessioni lette altrove vengono assorbite come una spugna e rimpastate col liquido viscoso dei nostri pensieri – un plagio inconscio. O forse non si tratta di plagio, perché così procede il pensiero, composto da tanti anelli, nessuno fabbricato in casa, tutti ibridi, molti di provenienza sconosciuta.

Una sorta di allucinazione in cui voci altrui sorgono dentro di noi e parlano con la nostra voce. Un’esperienza simile alla visione di un film al cinema in uno stato di vigilanza ridotta, quando siamo ovvero mezzi addormentati e le immagini che passano sul grande schermo sembrano prodotte dalla nostra immaginazione. Schermo di proiezione e schermo mentale, stato filmico e stato onirico si sovrappongono e finiscono per confondersi. Un’allucinazione paradossale nel senso che, come precisava il semiologo Christian Metz, lo spettatore “ha allucinato ciò che era veramente di fronte a lui, ciò che nello stesso momento egli percepiva effettivamente: le immagini e i suoni del film”. Paradossale “perché gli manca quel carattere tipico dell’allucinazione vera e propria, di produzione psichica interamente endogena” (Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, 1993, tr. it. Cinema e psicoanalisi, Marsilio 1980, 2002, p. 110).

Questa divagazione (ma Refugia, lo avevo anticipato, è anche questo) riguarda l’articolo inaugurale in cui tessevo l’elogio del libro più influente di Anna Tsing, The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins. Quando lo sfoglio di nuovo, mi sorprendo di trovarci un intero capitolo dedicato alla resurgence. Non resta che armarmi di carta, penna e calamaio.

Qui Tsing è molto più esplicita, o forse così mi appare dopo aver acquisito maggiore familiarità con la sua nozione di refugia. Fedeli all’idea di un ecosistema segnato dalla stabilità, dall’equilibrio o dall’omeostasi, associamo spontaneamente le perturbazioni a danni irreparabili. Eppure, come precisato sulla scia di Seth R. Reice (The Silver Lining. The Benefits of Natural Disasters, Princeton UP 2001), le perturbazioni possono distruggere quanto rinnovare gli ecosistemi e la biodiversità. Che siano moderati come la caduta di un albero o calamitosi come le inondazioni, gli incendi, le eruzioni vulcaniche, i terremoti o gli uragani, i disastri naturali non designano una natura disastrosa. “La perturbazione va sempre situata nel mezzo delle cose: il termine non si riferisce a uno stato iniziale armonioso. Le perturbazioni si succedono. Tutti i paesaggi sono così perturbati; ne consegue che la perturbazione può essere considerata come uno stato ordinario” (p. 242) – e che può persino favorire la vita. È quanto c’insegnano le disturbance ecologies, di cui dovrò tenere conto nell’esplorazione dei refugia che l’arte, questa l’ipotesi, garantisce.

In particolare, secondo Tsing l’Olocene – inteso, ricordiamo, come rinascenza (resurgence) e protezione della vivibilità multispecie – non si contrappone alla proliferazione dell’Antropocene, non offre il modello di una natura vergine, che cresce rigogliosa e indisturbata. Non coincide in alcun modo con quella wilderness su cui non ha smesso di fantasticare tanto pensiero ecologico.

Al contrario, l’Olocene è segnato da un’alternanza tra distruzione e rinascita. L’interazione, anche violenta, dell’essere umano con la natura, lo scambio reciproco tra due entità in cui una ha bisogno dell’altra è una costante. L’essere umano ha sempre modificato il suo habitat, allo stesso modo di alcuni animali come il castoro, che devia i corsi d’acqua e costruisce dighe naturali di legno e fango. Solo che, da un certo punto in poi (quando è aperto al dibattito), l’agire umano non è più in grado di ristabilire le condizioni necessarie a una relazione duratura, minacciando così la vita multispecie.

In tal senso, a meravigliare Tsing non sono le foreste incontaminate, ma la capacità delle foreste nei pressi di paesaggi antropogenici di ricrescere dopo essere state distrutte, una “forma di resilienza o di guarigione ecologica”, un auto-reinselvatichimento (auto-rewilding) o, per sciogliere questo brutto composto, la capacità di ritornare a uno stato selvatico. “La rinascenza è una forza vitale propria alla foresta, una capacità di disperdere i suoi semi e di diffondere le sue radici o germogli per rioccupare le aree disboscate. Ghiacciai, vulcani e incendi costituiscono alcune sfide a cui le foreste hanno risposto con la rinascenza”.

Persino davanti alle azioni più devastanti compiute dall’essere umano, la rinascenza ha avuto la meglio; “Per diversi millenni, la deforestazione umana e la rinascenza delle foreste si sono corrisposte l’una all’altra. Oggi il nostro mondo contemporaneo ha imparato a bloccare la rinascenza” (p. 265, traduco dall’edizione francese che ho sottomano). Rischiamo insomma di perdere la capacità di tenere in vita quella pulsazione propria all’Olocene, che fa della distruzione e della rinascenza la sua sistole e diastole.

In chiusura, Tsing annota: “grandi perturbazioni storiche si trasformano in occasioni che si offrono ad ecosistemi relativamente stabili quali le foreste rurali, sempre giovani e sgombre. Che degli episodi di deforestazione siano stati all’origine delle foreste diventate l’immagine stessa della stabilità e della sostenibilità, in gran parte del pensiero giapponese contemporaneo, non è privo d’ironia” (p. 277). Il riferimento va a quei nostalgici che, in Giappone, si sforzano di ristabilire un equilibrio senza perturbazioni, di riportare le lancette indietro al 1955, quando la foresta rurale era ancora florida, se si pensa alla moltiplicazione esponenziale dei pini akamatsu. Solo a quel punto comincia una fase di deterioramento, con la sostituzione del fertilizzante verde (o sovescio) con quello chimico, e della legna da ardere e del carbone con i combustibili fossili.

La foresta rurale è oggi minacciata ovunque dal Codice forestale, dalle leggi di pianificazione del territorio rurale, dalla scomparsa del sistema comunale, dalle limitazioni all’uso del suolo (pascolo, coltivazione e così via), dalla scomparsa dell’agricoltura di sussistenza, dalla specializzazione dei terreni, da una politica agricola per il sostegno alla produzione centralizzata e così via. Una minaccia in corso, non un atto compiuto.

Del resto Anna Tsing fa parte di quegli studiosi secondo i quali non viviamo nell’Antropocene, quanto in una transizione dall’Olocene all’Antropocene. Per orientarci in questa situazione inedita dobbiamo concentrarci su quei paesaggi multispecie che contengono elementi dell’uno quanto dell’altro. Perché nel Piantagionocene – termine che Tsing preferisce a quello di Antropocene –, sopravvivono ancora dei “frammenti di Olocene” (Zachary Caple, allievo di Tsing), ovvero delle sacche o degli appezzamenti (patch) di complessità, dei paesaggi segnati dall’industrializzazione ma non pienamente ascrivibili alla nuova era geologica. Paesaggi così singolari da richiedere l’apporto di una nuova disciplina che Caple denomina “critical landscape ecology”.

Per rivenire alle nostre preoccupazioni sulle arti visive come rifugio, pensare con la rinascenza vuol dire pensare (con) la perturbazione, lasciarla risuonare assieme a due nozioni affini evocate da Tsing quali remediation e resilience. Nella nostra esplorazione ancora teorica dei refugia (necessaria per capire di cosa stiamo parlando), dovremo rivenire presto sulla resilienza, nozione oggi sempre più cruciale; non prima, tuttavia, di aver affrontato un esempio concreto che qui s’impone. Penso a uno dei rifugi più paradossali che si possano immaginare, un topos del paesaggio perturbato che ha a che vedere colla rinascenza e la resilienza: la zona d’esclusione di Chernobyl.

In copertina: una scena dal film Stalker, di Andrej Tarkovsky, 1979

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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