Che cosa contempliamo quando osserviamo un quadro? Il libro di Giorgio Agamben pubblicato da poco per Einaudi, Studiolo, ha come oggetto una serie di dipinti, analizzati e di volta in volta commentati dall’autore, che in queste pagine tiene felicemente insieme la consueta acribia filologica, la sua devozione al dettaglio, e la particolare forma di ispirazione poetica che gli è propria. Tiziano e Twombly, Van Eyck e Ruggero Savinio, Gauguin e Sonia Alvarez. È senz’altro legittimo, oltre che possibile, leggere questo libro come un confronto filosofico, di altissimo livello, con la pittura, in cui Agamben ci accompagna attraverso una ricca e molto varia galleria, mostrandoci i quadri per lui più importanti, i quadri decisivi. Eppure, a una lettura più attenta, sarebbe più giusto dire che il libro è, in realtà, un confronto dipinto con la filosofia. Entrando nello studiolo di Agamben si rende trasparente non solo che cosa sia, per lui, la pittura, e il ruolo fondamentale che le assegna, ma anche e soprattutto che cosa sia la filosofia e quale sia l’urgenza propria del suo stesso pensiero.
Per intendere in tutta la sua portata il gesto compiuto da Agamben, tentiamo innanzitutto di porre una differenza fondamentale, che è quella tra immagine e pittura, o tra immagine e immagine dipinta. Perché questa differenza? Forse quelle che vediamo dipinte nei quadri non sono immagini? Il regno dell’immagine è infinitamente più ampio del regno della pittura – nessuna epoca storica lo ha capito quanto la nostra, che ha visto un pullulare esorbitante di immagini e, insieme, un singolare deperimento della pittura – per cui si tratta innanzitutto di comprendere la peculiarità dell’immagine dipinta per intendere il suo rapporto con la filosofia.
L’immagine è sempre stata, come noto, uno degli strumenti fondamentali della filosofia, e l’immaginazione, la facoltà di produrre e generare immagini, ha sempre avuto un ruolo di primo piano per tutti i filosofi. Che cosa sarebbe il nostro pensiero senza le immagini che continuamente gli troviamo? Si può pensare una filosofia del tutto priva di immaginazione? Sarebbe come privare il linguaggio delle metafore, della sostanza stessa che gli permette di vivere e di comunicarsi. Aristotele, in un passaggio importante del De anima, ha dichiarato che non si pensa mai senza immagini, e ogni nostra conoscenza arde e si nutre, come da un combustibile, di alcune immagini. L’immaginazione è l’atrio del pensiero, il luogo dove ogni mente trapassa per accedere alla contemplazione. Ogni grande testo di filosofia è, in fondo, un orbis pictus.
In un breve pezzo che concludeva un suo libro molto bello, Profanazioni (Nottetempo 2005) e intitolato I sei minuti più belli della storia del cinema, Agamben raccontava lo spezzone di un film, girato ma non realizzato, di Orson Welles: Don Chisciotte, in un cinema di periferia, pieno di ragazzini chiassosi, improvvisamente si alza e incede con sguardo allucinato verso lo schermo, per strappare e lacerare la tela con le figure proiettate, in rapido movimento, di cowboys sui cavalli. Un gesto simile è stato compiuto dall’autore stesso, in tutta la serie Homo Sacer: una serie di immagini del pensiero e della politica occidentale – la nuda vita, l’homo sacer, lo stato d’eccezione, la liturgia, l’economia trinitaria, il giuramento – venivano ricostruite storicamente nel dettaglio e improvvisamente, alla fine, distrutte, mostrando – esattamente come quelle infilzate da Don Chisciotte sullo schermo del cinema – nient’altro che «il vuoto di cui sono fatte». In questo senso, si potrebbe dire, le immagini sono simili ai concetti, sempre inserite in alcune strategie discorsive, ma in definitiva vuote, e dobbiamo – se ci crediamo, se le amiamo – rassegnarci ad abbandonarle e forse anche a distruggerle.

Lo statuto delle immagini della pittura è, invece, del tutto diverso. Un indizio sulla loro natura sembra esserci dato nel brano su Van Eyck, Gli zoccoli in Dio, quando Agamben parla della distanza entro cui dimorano gli oggetti dipinti nei quadri: non una distanza fisica, spaziale, ma una distanza in cui contempliamo le cose «sub quadam æternitatis specie», «in qualche modo sotto l’aspetto dell’eternità». Agamben spiega che «in questa forma, la cosa non ci appartiene, non possiamo manipolarla o padroneggiarla a nostro piacimento» (p. 96). Ecco una prima e fondamentale differenza tra l’immagine e la pittura: l’immagine dipinta non può essere padroneggiata, vive, dice Agamben, in una certa distanza. Non si rivolge a nessuno e non possiamo possederla conoscitivamente. È una distanza, per così dire, ontologica: non dista da noi che la guardiamo, dunque – e che, anzi, le siamo vicinissimi – , ma è una distanza in sé, una distanza assoluta, simile a quel «troppo vicino» che Benjamin aveva descritto quando parlava di Notre Dame, in Ombre corte: «la nostalgia beata, che ha già varcato la soglia dell’immagine e del possesso, e conosce solo più la forza del nome, del quale vive, muta, invecchia, ringiovanisce quel che amiamo e che è, senza immagine, il rifugio di tutte le immagini» (Ombre corte, Einaudi 1993, p. 349).
Nella densa introduzione a un breve testo di Roberto Longhi (Proposte per una critica d’arte, Portatori d’acqua 2014), Agamben ricostruiva il paradigma antifilosofico e antimetafisico che ha durevolmente segnato la critica letteraria e la critica d’arte italiana, almeno nell’ultimo secolo, rappresentate dai due massimi critici del secolo scorso: Roberto Longhi e Gianfranco Contini. In questa stessa introduzione è contenuta una delle più felici formulazioni sulla pittura, che riassume perfettamente l’intero pensiero di Agamben sulla filosofia: «La pittura testimonia di un’analoga [a quella della filosofia] scissione dello sguardo: ri-presenta, cioè dà a vedere ciò che si vede, lo rende per la prima volta visibile – visibile, non semplicemente inserito in una rete di segnali visivi» (p. 19). L’oggetto della pittura, il visibile – esattamente come il dicibile,sul cui statuto Agamben ha molto riflettuto in rapporto alla filosofia – non è ciò che è visto, né semplicemente ciò che vediamo, ma testimonia invece della potenza, della possibilità delle cose di essere viste, molto al di là dei nostri intermittenti sguardi. Per questo gli zoccoli di Van Eyck sono in Dio, perché quando accediamo a questa non-conoscenza, pittorica o filosofica, li vediamo improvvisamente, come dice Spinoza (Ethica, Parte V, proposizione XXXII, corollario), non più in quanto presenti attualmente alla nostra immaginazione, ma in quanto eterni. È questa visibilità e dicibilità – questa fugacissima eternità – che viene intercettata dalla pittura e dalla filosofia, e che permette alle cose di restare vive nel mondo al di là dei nostri occhi e delle nostre bocche, al di là del loro costituirsi in immagini e in simulacri, al di là del nostro conoscerle e consumarle. Filosofia e pittura hanno a che fare non solo con immagini, asservite a certi contenuti cognitivi, ma espongono quelle immagini in una speciale zona, che in entrambi casi non può essere mai appropriata da una coscienza: l’eternità.
José Bergamin, un autore molto caro ad Agamben, diceva in un suo aforisma che «La filosofia es un preludio a la fuga del pensamiento». La contemplazione della pittura serve esattamente a ciò: interrompe ogni nostra intenzione cognitiva e conoscitiva, ogni desiderio di sapere e ogni richiesta di significato, per farci sostare un attimo nell’eterno Eden dell’inconoscenza, nella festa del non-sapere che la filosofia platonica ha chiamato semplicemente: le cose stesse.
Giorgio Agamben, Studiolo, Einaudi, 2019, pp. X-126, € 20
Immagini: Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434 (dettagli)
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