Il 17 aprile 1976 Boris Uspenskij annunciava per lettera al collega Jurij Lotman di aver inaspettatamente ricevuto al suo indirizzo moscovita il volume da loro scritto a quattro mani, Semiotica e cultura, appena uscito da Ricciardi a cura di Donatella Ferrari Bravo. Osservando che il suo contenuto coincideva in parte con l’edizione Bompiani apparsa sempre nel 1975, lo studioso si concedeva qualche notazione ironica sui meccanismi a suo dire irrazionali dell’editoria italiana: «Inizio a pensare che la Grande Enciclopedia Sovietica avesse torto nel giudicare gli italiani una nazione borghese. In loro vi è qualcosa di utopico. Si figuri: nella stessa città (Milano), nello stesso anno escono due raccolte degli stessi autori, in cui per altro una metà del contenuto è identico! Niente di strano che lì da loro il governo dia le dimissioni».
Nel carteggio tra i due massimi esponenti della scuola semiotica di Tartu-Mosca (pubblicato nel 2018 da Sellerio a cura di Giovanna Zaganelli) non v’è traccia invece della reazione di Lotman di fronte all’edizione italiana della sua Semiotica del cinema che la romana Officina edizioni avrebbe dato alle stampe tre anni più tardi; in compenso, in una missiva precedente datata 27 gennaio 1972 l’autore ammetteva una certa impotenza critica di fronte a Blow Up, visionato semiclandestinamente una sola volta. E, dal momento che l’esperienza pregressa gli aveva insegnato come lui e Uspenskij tendessero a vedere sullo schermo «cose diametralmente opposte», chiedeva a quest’ultimo di rileggere il capitolo del suo «opuscolo di Tallinn» dedicato per l’appunto al film di Antonioni, e di confermargli come in quella pellicola «io non abbia scorto una violenza lì dove lei intravvede un weekend in famiglia».
Ripubblicato da Mimesis a cura di Luciano Ponzio, quel libretto originariamente uscito nella capitale estone che Lotman sembrava liquidare con una certa condiscendenza («di taglio popolare», così lo definiva), permette a distanza di tempo di apprezzare i suoi sforzi nel mettere a fuoco le caratteristiche di un determinato linguaggio – quello cinematografico – che nella sua intrinseca eterogeneità sfidava le griglie interpretative messe a punto fin lì dalla semiotica. Definendo il dettato della settima arte come fondamentalmente narrativo, il capofila della scuola di Tartu non poteva fare a meno di constatarne la contraddizione inerente, vale a dire la capacità di combinare segni convenzionali (verbali) adatti alla creazione di un racconto e segni iconici limitati alla funzione denotativa, e quindi alla produzione di un’illusione di realtà. Un’opposizione dialettica che permette a Lotman di definire il cinema come la sintesi di due tendenze narrative che, apparentemente, tenderebbero a escludersi: quella verbale e quella figurativa («pittura in movimento»). A sua volta, l’interazione tra questi due livelli si realizza in un «periodico oscillare tra costruzione e fotografia della vita reale», ossia, in termini strutturali, tra la preferenza accordata dai registi al montaggio o al piano sequenza. E si capisce bene come Lotman si concentri anzitutto sulla prima alternativa, affascinato com’è dalla «logica propulsiva» del montaggio, già paragonato da Sergej Ejzenstejn a un motore a scoppio ove le singole inquadrature (le unità discrete dello spazio-tempo filmico, liberamente combinabili) producono «scintille» che si moltiplicano nell’accostamento reciproco sullo schermo.
Al contempo – e qui il semiologo sviluppa le intuizioni del regista della Corazzata Potemkin – il montaggio è quel procedimento che permette di separare il segno cinematografico dal suo significato immediatamente referenziale, tramutandolo in un segno dal contenuto più generale, vale a dire di trasformare le immagini degli oggetti in un linguaggio di concetti astratti. «Scontati» a tale proposito i riferimenti a Ottobre e alla trasposizione visiva di giochi di parole in cui Ejzenstejn amava tanto cimentarsi, a riprova – secondo Lotman – di come per il cinema la creazione di segni astratti sia «fonte inesauribile di tensione artistica». Anche per l’invenzione dei fratelli Lumière valgono infatti le stesse dinamiche individuate nelle altre arti e cioè l’eliminazione dell’automatismo e il superamento di ciò che è «rozzamente naturale» – e cioè nel caso del cinema l’effetto illusorio di realtà creato dai fotogrammi in movimento. Per Lotman infatti la fotografia è un mezzo meramente documentario, passibile di «congelare l’opera d’arte, sottoponendo ampi settori del testo all’automatismo delle leggi della riproduzione tecnica». Una visione alquanto mortificante che però spinge lo studioso ad avventurarsi in una lettura particolarmente circostanziata di quella pellicola che aveva affrontato di petto (ma anche con elusiva genialità) il rapporto contrastato tra cinema e fotografia: Blow Up. Malgrado le sue reazioni scandalizzate di cittadino sovietico di fronte allo sfondo della Swinging London, tra «sigarette drogate», «pederasti che portano a spasso il barboncino» e «ragazze che si comprano il diritto di lavorare come modelle al prezzo di un amore a tre» (!), Lotman scorge nel film né più né meno che un esempio di «analisi semiotica del mondo» e quindi un «ritorno alla tradizione ejzenstejniana di un cinema di idee». Chissà se Antonioni sarebbe stato d’accordo con lui.
Jurij M. Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica, a cura di Luciano Ponzio, Mimesis, 2020, pp. 192, € 18,00