Un tratto porpora sulla parete.
Un animale che non sapevamo come chiamare.
Un bisonte o un cavallo, forse.
Correva nel suo tempo, nel suo spazio.
Lo spazio di una parete che era quello di un mondo.
Un tratto sulla parete, in fuga da figure con un arco.
***
Ricominciare dalle rocce, dal loro colore.
Non importa se era un disegno o solo un segno, era qualcosa.
La luce di quei mattini era un fatto indiscutibile.
Qualcosa di passeggero, ma più forte e intenso di tutto il poi delle giornate.
Le cose raccontabili, dicibili, e noi per dirle.
Da qualche parte, in una zona che non si sapeva dire, la luce del mattino era altro. Deglutivamo, la raggiungevamo in quel modo.
Sono stati mesi di scavo, di accampamenti sperduti su montagne vicine.
Volevamo vederci chiaro, capire, trovare dei modi di stare e di toccare.
Il gesto che aveva portato a quel segno sulla roccia.
Speravamo di trovarlo, guardando intensamente, entrando nelle grotte,
muovendoci carponi, guardando in su tutte le mattine, ritrovandoci nella stessa luce.
Come in quel pomeriggio diretti da qualche parte, per poi arrivare altrove.
***
C’era un pozzo che non finiva.
Ci siamo appoggiati al bordo, guardando giù.
Affacciati su quel nero hai detto che riuscivi a vedere qualcosa.
Hai fatto un giro intorno e hai detto che era bella quella luce scura, densa.
La notte era per te un inchiostro che colava sulle cose, sulle pareti.
Sul tuo corpo mentre dormivi.
Dicevi di sentirne anche il peso ed era come un nuotare lento e fluido
che all’alba ti sospingeva su una riva.
Lì aprivi gli occhi e ascoltavi il suo asciugarsi.
Il suo sparire lento, le tracce che lasciava sulla pelle.
Strani alfabeti che avresti voluto studiare.
Gli inediti qui proposti sono tratti da un nuovo corpus di testi in fieri.
Immagine di copertina: Henri Michaux, Sans titre, 1958.