Oshima Nagisa (Talismano 4)

29/03/2020

«Fare un film è un atto criminale»

Un regista deve essere pronto a oltraggiare e vilipendere, fare carte false e scassinare serrature, violare il comune senso del pudore e commettere apologia di reato. Un regista deve realizzare film dinamitardi. Deve: se rifiuta lo status di mestierante imbonitore decoratore, se rivendica il proprio atto cinematografico come un atto artistico radicale. Altrimenti può fare quello che vuole, è irrilevante: lettera morta, immagine merce, intrattenimento. La legge, faziosa e transitoria, è un limite che l’arte, nella sua assolutezza, non può rispettare.

Già nel Medioevo, François Villon assimilava la posizione del poeta a quella del bandito e non dimentichiamo che per I fiori del male, oggi presenza fissa nelle antologie scolastiche, Charles Baudelaire è stato processato e condannato con una sentenza di oltraggio alla pubblica morale, esattamente 160 anni or sono, quando la poesia veniva ancora presa sul serio.

Mishima Yukio, lo scrittore samurai, ha rinvenuto le origini della letteratura e dell’arte nei «tenebrosi abissi dell’azione illegale». Scrive in un uno dei suoi saggi testamentari, terminato nel 1970, l’anno del suicidio per harakiri: «La legge è essenzialmente una convenzione della società moderna, mentre la natura umana è assai più profonda e più complessa, e supera i limiti dell’attuale legislazione» (Introduzione alla filosofia dell’azione). Roberto Bolaño, in una delle sue ultime interviste, ottobre 2000, afferma: «Si scrive al di fuori della legge. Sempre. Si scrive contro la legge, non dalla parte della legge».

Scrive Oshima Nagisa nel 1974: «Rispetto al lavoro e alle spese necessarie alla realizzazione di un film, quel non sapere mai esattamente se funzionerà dal punto di vista della distribuzione e quale successo otterrà, è nella nostra società capitalistica un atto veramente immorale, criminale. Colui che, ciononostante, si ostina consapevolmente a fare un film, infondendo in esso la sua passione, che altro è se non un criminale?».

Oshima è sempre stato un regista contro. Contro lo stato giapponese e contro la bandiera nazionale di ogni stato che legalizza la guerra e la pena di morte. Contro la censura. Contro il potere di acquisto spirituale del denaro. Contro una visione patriarcale e gerarchica della società. Contro il cinema, inteso come mercato e prodotto di consumo a fini di evasione. Ogni film di Oshima è la messa in opera di un sogno criminale dove, immancabilmente, il cineasta s’immedesima nel protagonista, ladro violentatore assassino che sia.

Eiko Matsuda e Tatsuya Fuji in L’impero dei sensi (1976)

Girato nel 1975, L’impero dei sensi è l’apoteosi criminale di Oshima. Il tuttora vigente articolo 175 del codice penale giapponese vieta l’esibizione cinematografica dei genitali al naturale e punisce i trasgressori con pene pecuniarie e detentive fino a due anni di reclusione. Tripudio pubico che celebra connubio tra cinema d’autore e pornografia, L’impero dei sensi è spudoratamente colpevole di reato, o meglio: lo sarebbe stato se fosse stato un film giapponese, ma non è così: L’impero dei sensi è un film francese. Oshima lo ha realizzato sotto l’egida di una casa di produzione francese, la Argos Film, fregando così la normativa nipponica.

Facciamo un salto nei mesi febbrili che anticiparono il primo ciak.

Il piano è così congegnato: la pellicola arriva da Parigi, si gira a Kyoto e, passando da Tokyo, il girato va in Francia per lo sviluppo e la post-produzione. Ma rimangono giusto un paio di problemi da risolvere: 1) formare la troupe giusta per un progetto così fuorilegge: se qualcuno spiffera, il banco salta; 2) trovare i soldi per iniziare il film in attesa dei fondi francesi.

Ed è qui che entra in gioco un criminale con la c maiuscola, Wakamatsu Koji, gangster e cineasta. Oshima lo incontra in un bar di Shinjuku, il quartiere più caldo di Tokyo: ha bisogno di lui, lo vuole dentro come direttore di produzione, è l’unico che può farcela. Wakamatsu accetta senza farsi pregare, è pane per i suoi denti. Peraltro anche lui ha nel cassetto un trattamento su Abe Sada, l’amante eviratrice. Questa storia di furore uterino l’ha sempre attizzato. I due si stringono la mano con l’intento di fare un film che sconvolga il Giappone.

Oshima con Wakamatsu Koji sul set di L’impero dei sensi

Constaterà Wakamatsu: «Non fu facile mettere insieme la troupe. Tra la diceria che Oshima volesse girare un porno e me come direttore di produzione, fuggì parecchia gente». Alla fine raggruppò una quarantina di persone, in gran parte suoi aficionados, pochi professionisti: «una squadra meravigliosa». Quanto ai soldi, andò a cercarli dov’era certo di trovarli: si fece dare due milioni di yen da uno strozzino.

Due parole su questo direttore di produzione sui generis: nume tutelare di tutti i registi criminali, ex membro della yakuza, picchiatore e galeotto, Wakamatsu Koji, ha diretto oltre cento film a base di violenza ed erotismo. Da quel che mi risulta, è l’autore che ha filmato più stupri collettivi. Intervistato nel 2011, nemmeno un hanno prima della sua morte, da Matteo Boscarol con la collaborazione di Marco Dotti e del sottoscritto, Wakamatsu si vantò ridacchiando di essere il regista che ha ammazzato più sbirri sullo schermo, per vendicarsi dei sanguinosi pestaggi che aveva subito in carcere da parte della polizia carceraria.

L’impero dei sensi venne presentato nel 1976 al festival di Cannes ed ebbe un successo tale che, per l’afflusso di pubblico, le 5 proiezioni previste divennero 15. Di ritorno a Tokyo, il regista trovò la polizia ad attenderlo. Il film fu sequestrato dalla dogana e Oshima venne processato per oscenità.

Epilogo di L’impero dei sensi

Non venne però processato come autore del film, di nazionalità francese, bensì come autore della sceneggiatura, che nel frattempo era stata pubblicata in Giappone. L’accusa argomentò che il testo stimolava sessualmente i lettori. Oshima si difese dicendosi in buona fede, visto che nessuno dei suoi collaboratori si era dimostrato eccitato durante la lettura, e porgendo le sue scuse alla polizia, agli accusatori e al giudice per averli fatti arrapare. Il processo fu un calvario che durò due anni, ma alla fine Oshima la spuntò, venne assolto. A Parigi, intanto, per 17 mesi di fila L’impero dei sensi venne proiettato senza tagli. Spiccavano, in mezzo al pubblico pagante, comitive venute apposta dal Giappone, dove ancora oggi il film non può essere mostrato nella sua integralità.

Oshima è stato di parola. Ha mantenuto le sue dichiarazioni di poetica: al momento del dunque, ha agito da autentico criminale. Lui e Wakamatsu potevano ritenersi soddisfatti. Il piano aveva funzionato a meraviglia: capolavoro realizzato, ordine pubblico sconvolto. Chissà chi per primo è crollato al bancone del bar di Shinjuku dove tutto è cominciato, quando Nagisa e Koji si sono ritrovati per brindare al colpaccio.

Dire che un regista è un criminale e che un film è un atto criminale è dire qualcosa di fuorviante, oltre che parziale, se non si precisa la cosa fondamentale: il crimine è il mezzo, non il fine. Un regista è un criminale per forza di cose: lo è dal punto di vista di un sistema che criminalizza la libertà di espressione nelle sue forme più ardite.

L’infrazione del tabù genitale operata dall’Impero dei sensi era sì un’arma simbolica contro un potere che agisce anche attraverso le inibizioni sessuali, ma era soprattutto funzionale alla resa cinematografica di un assoluto passionale.

L’impero dei sensi è per prima cosa, lo dico facendo mie le parole della regista Catherine Breillat: «il più bel film d’amore che esista».

In copertina: Oshima sul set de L’impero dei sensi, con i protagonisti.

Jonny Costantino

è scrittore e cineasta. Libri recenti: "Ultraporno" (2021), "La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni" (2021), "Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista" (2020), "Nella grande sconfitta c’è la grande umanità" (con Michael Fitzgerald, 2020), "Mal di fuoco" (2016). Tra i film realizzati con Fabio Badolato (insieme sono la BaCo Productions): "Sbundo" (2020), "La lucina" (2018), "Il firmamento" (2012), "Beira Mar" (2010), "Le Corbusier in Calabria" (2009), "Jazz Confusion" (2006). Nel 2009 ha fondato le riviste "Rifrazioni. Dal cinema all’oltre" e "Rivista". Attualmente è redattore del "Primo amore" e collabora con "Antinomie". Insegna "Regia: poetiche e pratiche del cinema" presso la Scuola d'Arte Cinematografica Florestano Vancini a Ferrara e vive a Bologna.

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