Monumenti americani

La deficienza americana di eredità natali e di vestigia confortanti non ispirò affatto nostalgia, lungo gli anni del Secondo Dopoguerra, ma incitò a produrre monumenti senza storia. Come erigere monumenti senza volgersi al passato, e senza la funzione di un monito, a rimemorare gravemente ciò che un tempo fu presente? Ma là, in America, non c’era nulla da ricordare come vuoto di presenza. L’Europa romana era lontana. C’era da ricordare soltanto che occorre sempre riempire un vuoto. Tuttavia non è per l’horror vacui che il monumento americano riempie un vuoto, infatti lo circonda e lo asseconda. C’è un motivo pratico. Il vuoto serve al saturo. Il monumento americano si erige come monito del saturo.

La tabula rasa è un intervallo indispensabile alla dialettica tra privazione e pienezza: oggetti colorati, spettacoli di vita emulata, scatole fluorescenti che resuscitano subito dopo essere state sepolte nella spazzatura. Occorre un momento vuoto per la restituzione di tutti questi prodotti dalla temperatura estremamente bassa, a un passo dal rifiuto. Occorre un tempo, quel tempo, per riempire e per scacciare ogni traccia di vuoto. E’ un tempo ritmico, paragonabile a quello indispensabile a distinguere due suoni, là dove solo i due suoni confermano la realtà di esistere propriamente.

Questo meccanismo di morte e di resurrezione industriale sta alla base della concezione monumentale americana, dove la morte non fa minimamente paura, perché è una base meccanica di vita. Il monumento americano è il memento vivere, e poco importa se questo monumento non lascia spazio a nessuna fantasia e appare duro e freddissimo.

Non c’è nulla da ricordare, nulla da rispettare come causa originale. Solo da ciò che aveva nelle mani, Warhol riuscì a creare gemme senza rami, miti che rimasero estremamente freddi, perché non dovevano essere creduti, ma seguiti come la risposta coerente al bisogno impetuoso di avere gemme, pur senza disporre di rami.

Simboli del florilegio senza rami e della foresta senza alberi furono i grattacieli di Chicago e di New York. Warhol trasformò il non-poter-disporre di rami in un farne semplicemente a meno, senza alcun bisogno di rifarsi al ‘capriccio’ di Dostoevskij (*) o di atteggiarsi a Zarathustra, persone e personaggi che bellamente ignorava. Per questo la sua arte è e rimane gelida, oligofrenica e capace: soltanto una parte del cervello viene toccata, l’altra rimane immobile. Del resto la sua arte fenomenale è un altro grande colpo della Storia, quando sembra che a caso assegni a uno qualsiasi di noi il compito di iniziatore, senza per questo avere alcuna intelligenza verso qualsiasi iniziazione.

L’arte serigrafica di Andy Warhol è di eccezionale originalità, perché scova l’origine là dove meno ce la si aspetta: nel prodotto seriale intercambiabile. Egli ha superato l’origine prototipica creando nella, con, e per la consumazione. Se l’origine è esente da ogni antecedenza essendo il primo tipo che si manifesta; se l’origine è costretta a subire lo stesso degrado che la farà scadere da novità a vecchiezza, in Warhol il processo è inverso: l’origine è nell’oggetto già tipico, intrinsecamente vecchio, e non nell’idea, già protesa a un nuovo prototipo.

Warhol inverte il processo e dall’oggetto prodotto – a cominciare da un’origine che corre verso la ripetizione e l’usura della sua forma – ricava l’idea primigenia e l’originalità. L’idea non degrada nell’oggetto; l’origine non si sfalda nella crescente e fatale obsolescenza dell’oggetto e, d’altra parte, l’oggetto seriale non risale la china dell’idea pura, come succede alla de-locazione demiurgica e arrogante di Duchamp.

Warhol dimostra che proprio l’oggetto-comparsa è l’origine di un nuovo fondamento; una risoluzione che non si limita all’opera, ma al modo di vivere. Il suo disegno non segue l’idea, ma cavalca una corrente di cui non si sa (ancora) né la provenienza né la direzione. Warhol tiene la barra di fronte a una tempesta che solo in quegli anni si manifesta nella sua formidabile potenza: il tifone della quantità, il ciclone di forme e di oggetti che tende a riempire sistematicamente ogni posto che si svuoti, come fanno l’acqua e il gas.

Già, l’acqua: occorreva rifarsi alla sua magica struttura per comprendere, come fa Warhol, che di fronte a tale dispiegamento infernale, nessuna zattera essenzialista può sopravvivere, e anziché immaginare una tabula rasa minimalista, di efficacia nulla, egli cavalca l’oggetto tipico, invenendo nell’acqua l’habitat dell’originalità fondamentale. Warhol non vuole l’“origine”, perché sa bene che essa è il prototipo dell’entropia delle forme; egli vuole l’originalità, che aggettiva e può rivestire di sé ogni oggetto già nato. Warhol insegue l’originalità là dove si è persa l’aura teologica dell’origine e costringe la storia a fare “marcia indietro”: la sua opera anziché essere un ramo che produce le gemme, è piuttosto un racconto di gemme nonostante i rami. Egli promulga una resurrezione a gettone, e a portata di tutti, del tipo, nel tipo. Egli vede la resurrezione nel morto, e quando si imbatte nella sedia elettrica e nell’incidente stradale, per lui la resurrezione è soltanto nella ripetizione esterna- eterna della morte.

Attua l’esorcismo contro il potere della morte nell’ironia anti-cristiana di ripetere la morte, in modo da sancire la fine liberatoria di tutte le cose. La resurrezione di Lazzaro, essendo la resurrezione del morto, condanna Lazzaro a vivere ancora per subire un’altra morte. Non più: Lazare, veni foras!, grida Warhol, bensì Lazare, ibi mane! Allora la resurrezione nel morto si ha nella sua riproduzione seriale. Si ha nella gemma senza ramo che esplode nella rivoluzionaria concezione di una resurrezione alla portata di tutti, leggera e assolutamente poco impegnativa.

Continua…

(*) Dostoevskij Fëdor, Memorie del Sottosuolo

Leggi la prima parte di questo articolo: Andy Holy War. La creatio ex saturo.

Immagine di copertina: Andy Warhol,  Five Deaths, 1963 © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc./ARS. Licensed by Copyright Agency

Claudia Castellucci

Drammaturga. Ha fondato diverse scuole cicliche di movimento ritmico, le più importanti delle quali sono state Stoa e Mòra. Quest’ultima si è trasformata in una compagnia di danza. Ha fondato con Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi la Societas Raffaello Sanzio, una compagnia di teatro attiva fino al 2006. Si è formata al Liceo Artistico e all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nella sezione di Pittura, e da allora ha continuato a produrre arte. Nel 2014 fonda la Scuola Cònia, un corso estivo di Tecnica della rappresentazione, assieme ad altri docenti. Scrive e pubblica diversi testi di drammaturgia, di teoria della scena e di arte scolastica. Tra questi, "Setta. Scuola di tecnica drammatica" (Quodlibet 2015).

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