At home. Sulla cultura visiva dello spazio domestico

24/03/2020

Nei giorni ovattati e sospesi del Coronavirus, il mantra ricorrente è quello di restare a casa. TV, radio, social e web si affannano nel ricordare, ognuno a proprio modo, che è necessario prendere coscienza in maniera definitiva che l’unico orizzonte possibile dove vivere la quotidianità nelle prossime settimane è la nostra casa. Probabilmente mai come in questo periodo della storia recente siamo stati bombardati di immagini di interni domestici, reali o rappresentati: storytelling di vita vissuta, collage anacronistici che mescolano cataloghi di Ikea, dipinti del danese Hammershøi e pittura olandese del Seicento, riferimenti alla letteratura e alla cinematografia nazionale e internazionale, intasano le home dei social network, mentre anche produttori e aziende – celebre l’esempio di Lonely Planet Italia – declinano i propri prodotti in salsa domestica. Si tratta di inviti più o meno subliminali a stare comodamente seduti in poltrona, persi dietro viaggi di fantasia guidati dalla lettura di un romanzo o – e questo è divenuto ormai un vero e proprio tormentone – vere escursioni fuori dalle mura di casa possibili grazie ai dispositivi tecnologici odierni che permettono di spostarci virtualmente nel tempo e nello spazio senza bisogno di muovere un passo dal salotto. Da qui la rincorsa allo streaming selvaggio di musei, teatri e luoghi della cultura vari, nonché delle celebri piattaforme, ormai fonte principale dell’entertainment contemporaneo.

In questo senso, nei giorni passati la mia attenzione è stata attirata dai banner elaborati dal MiBACT per le campagne #iorestoacasa e L’Italia chiamò, caratterizzate dalla schematizzazione di un interno domestico ridotto ai minimi termini, un salotto evocato da una libreria, una poltrona e un televisore, metafora dello spazio casalingo contemporaneo. Una sintesi siffatta dell’universo dell’abitare ha innescato nella mia mente tutta una serie di connessioni visive e culturali che mi hanno riportato à rebour a quella che può essere considerata l’origine moderna della rappresentazione dell’interno domestico in occidente.

Lo schema scelto dalle campagne MiBACT, come detto, punta l’attenzione sulla libreria, la TV (ma intesa come figura dello schermo, declinabile in tutte le varianti attuali più o meno mobili) e la poltrona, quelli che potremo definire “connotatori ambientali” di un interno contemporaneo, vale a dire tre elementi caratterizzanti che, senza ulteriori dettagli, sono capaci di richiamare un intero salotto e in generale in intero ambiente domestico. Sono connotatori ambientali, per esempio, un quadro in cornice, una finestra con tenda, la fantasia di una carta da parati, un lume. In uno spazio vuoto, la sola presenza di questi elementi permette di riconoscerne immediatamente l’ambientazione, poiché sono oggetti che hanno la forza, che potremmo definire “sineddotica”, di identificare un insieme.

In particolare, i grafici del MiBACT hanno – credo inconsapevolmente – rielaborato un topos della cultura visiva popolare dell’interno domestico degli ultimi quarant’anni che vede nella poltrona e, per estensione, nel divano, il simbolo per antonomasia dell’appartamento e dello “stay at home”. Si tratta per lo più di uno “stare a casa in famiglia”, luogo di ritrovo della socialità domestica contemporanea. La famiglia di cui questi divani ci parlano è sia quella tradizionale, composta da genitori, figli e animali, anche quando sgangherata, come ci ricorda la celeberrima couch gag d’apertura dei Simpsons, sia la “famiglia allargata” composta da amici che vivono o passano la maggior parte del proprio tempo assieme, privilegiata dalla sitcom americana, da Seinfeld a Friends, che fa del divano il luogo simbolico perfetto di questo stare assieme (su questo aspetto rimando al recente libro di Luca Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, 2020, nonché, soprattutto, alla bella copertina che rende omaggio a tutti i divani più celebri di questo genere televisivo).

Se è la televisione il principale mezzo di diffusione di questo immaginario, la vignetta umoristica utilizza ampiamente tali rappresentazioni, come se ne trovano, in particolare, nel più famoso magazine internazionale, «The New Yorker»; e non è un caso questo, visto che è stata proprio la vignetta umoristica uno dei mondi dove tali iconografie domestiche si sono formate quasi due secoli fa.

A ben vedere, infatti, questa visualizzazione della domesticità non è altro che il punto di arrivo di una evoluzione visiva della canonizzazione dell’iconografia dell’intérieur che trova la sua origine moderna nella cultura visiva ottocentesca, in particolare in quella francese, tra la Monarchia di luglio (1830-1848) e il 1900, momento in cui questi scenari entrano con prepotenza nell’immaginario visivo dei pittori – d’avanguardia o meno – e, soprattutto, dei lettori di giornali e riviste satiriche, vero e proprio motore diffusore di immagini della quotidianità casalinga. Del resto, Walter Benjamin ha detto chiaramente che l’intérieur è una delle fondamenta della società ottocentesca e, infatti, uno degli assi portanti di quella monumentale storia culturale dell’Ottocento che avrebbe dovuto essere il Passagen-Werk. Ricorda infatti il filosofo tedesco che: «il XIX secolo è stato, come nessun’altra epoca, morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato lì dentro con tutto quello che gli appartiene, così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori»

La claustrofilia del secolo decimonono

L’identità tra intérieur e regno di Luigi Filippo sottolineata dal filosofo tedesco fa perno sulla presa di posizione sociale da parte della classe rappresentata dal monarca “borghese”: il padrone di casa è d’altronde il sovrano di quel regno che è la sua dimora, estensione in chiave privata del re di Francia. Con l’avvento della Monarchia di luglio il privato cittadino acquisisce finalmente il ruolo da protagonista che tentava di conquistare dal 1789 e il suo «spazio vitale» assume sempre maggiore importanza nella vita di tutti giorni; lontano dal posto di lavoro, nel suo appartamento arredato seguendo le bizzarrie del gusto e orientato verso uno «stile onirico» – montaggio di diversi stili in base alla funzione della stanza – egli si rifugia in quel mondo, dove «raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale» (sempre Benjamin). Nel suo spazio privato il borghese ottocentesco, infatti, custodisce tutta una serie di dispositivi che gli permettono di estendersi nel tempo (oggetti tramandati o acquistati, tracce di un tempo che fu, remoto e recente, soprattutto a partire dal 1839 grazie al dagherrotipo e poi alla fotografia) e nello spazio (il potersi muovere, spaziare, viaggiare, conoscere solo stando seduto sulla propria poltrona, attraverso la letteratura, i libri d’avventura).

L’invito a usare i nostri dispositivi di estensione contemporanei, quali tablet, smartphone o TV, al fianco degli intramontabili libri, nella particolare contingenza che stiamo vivendo, segue – inconsapevolmente, ma inconsciamente introiettato – lo stesso principio esaltato da Benjamin: la casa è il nostro rifugio, il nostro guscio protettivo. Qui abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno per poter “sfondare” le mura e poter evadere, anche se solo metaforicamente, dalla clausura che ci è stata imposta, quantunque per la salvaguardia della nostra salute.

Ma da dove deriva la passione della cultura visiva dell’Ottocento nei confronti della domesticità? Se – come sempre ci dice Benjamin – il XIX secolo è stato il momento in cui la modernità novecentesca si è presentata “in potenza”, così non è erroneo affermare che il Settecento illuminista – in particolare inglese – ha rappresentato il momento preliminare, propedeutico, a quell’età contemporanea che si sarebbe di lì dispiegata e della quale, oggi che si appresta a concludersi, ancora ne possiamo leggere i retaggi. Ebbene, per tornare al nostro discorso, possiamo dire che è il conversation piece inglese (la scena di conversazione) l’origine di tutto. Si tratta di un tipo di ritratto di gruppo che rappresenta le famiglie della nascente borghesia intenti in attività domestiche quotidiane, colte in attimi di socialità, intorno al tavolo per il tè o per il gioco del wist, seduti su canapè a leggere o ad ascoltare musica suonata al piano o al clavicembalo. Il Settecento, perciò, almeno in un primo momento, ha individuato nell’ambiente domestico – e come tale lo ha rappresentato – il luogo dei riti sociali che si affacciavano nella modernità e per certi versi la fondavano. Nell’Ottocento, invece, l’interno si configura quasi esclusivamente come spazio della vita privata, coniugale e familiare. Il definitivo attestarsi della famiglia nucleare, e dunque dell’appartamento come tipo di abitazione standard, porta a considerare la casa, come ricorda Michele Perrot – forse la massima studiosa dell’importanza della domesticità per la cultura moderna – «dominio privato per eccellenza, concreto fondamento della famiglia e pilastro dell’ordine sociale». In ambito culturale questo si riflette in scene fondate sul ménage coniugale: l’insistenza sulla home, il chez soi, vale a dire della casa propria, per esempio, ricorre in molte pagine della letteratura coeva. A questo si lega anche il fatto che nell’Ottocento la presa di coscienza dell’individualità, avviatasi nel secolo precedente, accentua il suo carattere solipsistico puntando l’attenzione sul privato, cioè su uno spazio sì interno, ma ancora esterno al proprio io: chiudersi nelle proprie stanze significa, allora, chiudersi in sé stessi e costruire un mondo altro. Non è un caso, infatti, che il secolo si apra con un Voyage autour de ma chambre (intorno al 1790) di Xavier de Maistre. Nondimeno, lo spazio privato si configura definitivamente come luogo delle relazioni interpersonali, quasi un’arena, ricavandosi un ruolo centrale nella cultura artistica, visiva e letteraria.

Il Novecento ha fatto di questi aspetti, in particolare dell’idea che l’interiorità individuale e la memoria si riflettano sulle cose di ogni giorno arrivando a modificarle, alcuni dei temi dominanti, anticipati in pittura e letteratura nell’ultimo decennio del XIX secolo da Pierre Bonnard e Francis Jammes, antesignani a modo loro della visione di Marcel Proust, e più tardi di Gaston Bachelard (La Poétique de l’espace, 1957) che vede appunto nell’interno il luogo privilegiato della memoria incarnata negli spazi domestici. Questo concetto di interiorità che rispecchia chi lo abita rilegge il rapporto dell’ambiente con il suo abitante in un’ottica di interdipendenza. Tale complementarietà di contenitore e contenuto, come già detto ben espressa da Benjamin, segue in questi termini un adagio che ha la sua origine nel mondo anglosassone, cioè che l’interiorità dell’abitante si rifletta sugli spazi e sugli oggetti e che dunque abitare non sia altro che lasciare tracce. Le teorie di Benjamin sull’interno trovano, infatti, come noto, il loro archetipo nella letteratura di Edgar Alan Poe, da The Fall of the House of Usher (1839) a The Philosophy of Furniture (1840), che si basano di fatti sul paradigma indiziario.

L’origine di una iconografia della scena domestica

La formazione di una “iconografia” dell’immagine d’interno contemporanea trova uno dei più interessanti terreni di indagine nella grafica negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, in particolare negli albi o negli studi di costume che raccontano la “physiologie” della vita quotidiana della Francia di Luigi Filippo (Les Français peints par eux-mêmes, Le Diable à Paris, La Grande Ville, e le singole monografie “fisiologiche”). Della stessa importanza sono le illustrazioni per i romanzi, in particolare quelli di Balzac, dove spicca Petites misères de la vie conjugale pubblicata nel 1846 con vignette di Bertall (Charles Albert d’Arnoux), e in generale la produzione di illustratori come Paul Gavarni, Honoré Daumier, Grandville. La vita coniugale, con la propria routine, i limiti e le contraddizioni, è stata una delle più indagate in questo senso.

Il concetto di casa e di vita domestica legata al focolare, al coin de feu, in particolare, è e sarebbe stato per tutto l’Ottocento, il simbolo stesso della vita coniugale. Sintesi visiva e parodistica perfetta di questo aspetto è la vignetta di Grandville per il capitolo Le Meilleure forme de gouvernement di Un Autre monde (1844), che illustra la visione matrimoniale di Puff, il protagonista, in risposta alla domanda sul tema di Krackq: «Je songe à couleur mes jours dans mon ménage, devisant au coin de mon feu, oublieux, oublié. Nous mettons en commun ma femme et moi tous les fruits de notre expérience […]. Crois-moi, cher ami, le bonheur est dans le mariage». In questa immagine onirica, dove realtà e fantasia formano un tutt’uno, Grandville compendia il cliché matrimoniale attraverso il montaggio di elementi diversi, ma tutti intrinsecamente appartenenti a quel soggetto. Come nella Venere all’Opera, l’autore gioca con l’aderenza letterale della figura retorica: la metafora del ménage come focolare è resa dall’incontro di quegli oggetti che effettivamente si trovano attorno al caminetto – il mantice, la paletta, le tenaglie – e che diventano gli attori di una canonica serata intorno al fuoco, tra coniugi o con gli amici.

Immagine che contiene libro, testo, fotografia
Descrizione generata automaticamente
J.-J. Grandville, illustrazione per Un autre monde:
transformations, visions, incarnations … et autre choses,
Paris: Fournier 1844

Tuttavia, non è solo la vita coniugale ad attirare l’attenzione dei vignettisti francesi tardoromantici, ma, in generale, anche quegli aspetti che potremmo definire antropologici e sociali. Nel secondo volume de Le Diable à Paris (1845) compare una tavola di Bertall, Coup d’un maison parisienne le 1er Janvier 1845 – già apparsa col titolo Cinq étages du monde parisien ne «L’Illustration» dello stesso anno – che illustra, con uno spaccato sui cinque piani del palazzo, quasi fosse una casa di bambole, la divisione sociale parigina in base al rispettivo alloggio. Ogni piano corrisponde ad un gradino della scala sociale, dai portieri e la cucina al piano terra, agli artisti e operai del sottotetto, passando per il piano nobile con la famiglia alto-borghese (se non perfino aristocratica) e i piani intermedi occupati dalla media e piccola borghesia.

Immagine che contiene fotografia, interni, parete, cucina
Descrizione generata automaticamente
Bertall, Coup d’un maison parisienne le 1er Janvier 1845 in «Le Diable à Paris», II, 1845 (Cinq étages du monde parisien, in «L’Illustration», 11 gennaio 1845)

Si tratta di una classificazione iconica e iconografica degli interni parigini dell’età di Luigi Filippo – e forse questa la perfetta sintesi visiva della rappresentazione domestica di quegli anni – la quale rende testimonianza dell’idea di una tipizzazione che vede nella casa l’espressione precipua del suo abitante, che anticipa (e forse influenza) la visione dello stabile immaginato da Georges Perec in La vie mode d’emploi (1978). Seguendo questa divisione, emerge chiaramente come l’ambiente per eccellenza dell’alta borghesia sia il salone (come lo era nel Settecento), stanza di rappresentanza per antonomasia, caratterizzato dalla presenza centrale del caminetto. Le linee sono quelle rococò stile che di per sé rimanda a una necessità di emulazione di costumi dell’aristocrazia d’ancien regime, che la borghesia si apprestava a sostituire. La dimora medio-borghese ricorda quelle che è possibile osservare nella maggior parte delle opere di Daumier e Gavarni, oltre che nei disegni che contemporaneamente lo stesso Bertall realizzava per Petites misères di Balzac. Nell’immagine è condensata quell’idea di famiglia moderna patriarcale che, sulla scorta della lettura dell’arredamento moderno di Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti, si fonda sul binomio camera da letto-sala da pranzo.

L’intérieur degli anni della monarchia di Luigi Filippo, come trasmessa da queste immagini, dunque, si caratterizza morfologicamente spesso per la presenza di un caminetto sormontato da uno specchio e altri oggetti che costituisce metaforicamente l’elemento distintivo dell’ambiente domestico (il focolare per l’appunto). Questo schema per la raffigurazione dell’interno del secondo Ottocento sembra portare avanti da una parte, come visto, la formulazione della rappresentazione domestica settecentesca del conversation piece inglese, dall’altra, quanto istituito da Denis Diderot per il dramma borghese, nel quale il salotto è il fulcro attorno al quale si consumano tutte le vicende familiari. Gli interni di tali scene costituiscono il décor, vale a direla scenografia, davanti al quale si muovono i tipi e sarà variabilmente ripreso come ambientazione soprattutto dai dipinti di genere del Secondo Impero, sino a divenire, a fine secolo, un piatto e stereotipato fondale nelle Intimité di Félix Vallotton (1898).

Prendendo in prestito il concetto di “sopravvivenza” di matrice warburghiana, in definitiva, è possibile osservare come in queste immagini domestiche della modernità ricorrano tali cliché della rappresentazione di interni, dal conversation piece settecentesco al ritratto di gruppo tardo romantico, fino a ricomparire inaspettatamente nel primo Novecento con Henri Matisse. Ancora oggi, come detto, lo schema di base dell’intérieur nella sua essenzialità ha mantenuto le sue caratteristiche di base. Esso riaffiora ancora tra le righe della raffigurazione dell’interno moderno, certo stravolto dall’evoluzione dell’architettura e dei costumi. Al caminetto luogo di raccordo della famiglia nel passato, si sostituisce la TV, alle sedie o alle poltroncine, il divano; ma in sostanza queste immagini trattengono quasi inalterati quelli che ho definito “connotatori ambientali” di base (quadri, tende, carta da parati), tutti oggetti che denotano la costruzione di un interno confortevole, famigliare, consolante e, allo stato attuale, rappresentazione del mondo che da qui alle prossime settimane sarà l’unico in cui poter muoversi, viaggiare, amare, divertirsi, ballare, vivere.

Questo contributo è una rielaborazione sintetica di alcune delle ricerche da me condotte negli ultimi otto anni sulla rappresentazione domestica nella cultura visiva del XIX secolo, oggetto sia della mia tesi di dottorato (Intérieur. Una storia della scena d’interno in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, Sapienza Università di Roma, 2015), sia di alcune pubblicazioni edite (Le stanze di Flaubert. Intérieurs tra scrittura e immagine intorno alla metà dell’Ottocento, 2015; Dall’interno all’esterno. “Intérieur à Arcachon” di Édouard Manet, 2016) o in corso di stampa («Louis Philippe ou l’intérieur». The Emergence of the Modern Interior Scene in the July Monarchy Visual Culture).

In copertina: una scena di Interiors, di Woody Allen (1978)

Matteo Piccioni

(San Benedetto del Tronto, 1982) è storico dell’arte dell’età contemporanea. I suoi ambiti di ricerca si concentrano principalmente sulla cultura artistica e visiva europea del “lungo Ottocento” (1789-1914). Ha scritto sulla storia della rappresentazione domestica, sulla storia della critica d’arte del Novecento, sulla storia dell’illustrazione tra XVIII e XX secolo, sul rapporto tra immagini e letteratura. Dal 2008 al 2014 ha collaborato con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e dal 2016 al 2017 con il Dipartimento di Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani. Ha insegnato Storia dell’arte contemporanea e delle arti industriali alla Sapienza Università da Roma e dal dicembre 2017 è Funzionario storico dell'arte presso la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, dove si occupa di programmi di sostegno, valorizzazione e promozione dell’arte contemporanea italiana.

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