Rothko

23/03/2020

L’impressionante retrospettiva di Mark Rothko alla Fondazione Beyeler ci offre una ricca varietà di narrazioni attraverso le intersezioni infinite fra innumerevoli colori abbaglianti e cangianti. I rossi e porpora e viola cardinalizi o imperiali e sportivi. L’arancione acrilico delle tute autostradali o netturbine. Il verde scuro e il blu opaco delle carrozzerie Audi e Opel impolverate. Senapi e zafferani, melanzane e primule. Il mandarino e il ciclamino delle crestine punk. Il cinabro dei vecchi muri, il carminio dei rossetti. Il bianco gualcito delle camicie e federe da buttare in lavatrice. Le diverse nuances della mostarda, della cioccolata, della cacca. I rosa sporchi e i citrini lividi del yogurt alla frutta. Il violetto démodé che “porta male” in teatro. Gli omogeneizzati per bambini, i sughi all’amatriciana, le lozioni anticalvizie, il “french dressing” per le insalate, le cappelle di funghi arrostite, gli unguenti di ittiolo, i sorbetti alla mela verde, i vini novelli e quelli in “barrique”. Una prodigiosa variantistica sui rettangoli. Guardandoli da vicinissimo, la miriade minimale dei pigmenti pulviscolari diminuisce anche al di sotto della percezione ottica l’effetto di luminosità iridescente dei manieristi o dei divisionisti, di Segantini, Pellizza, Boccioni, Balla, Bonnard. Si ritrova la rivelazione dei primi restauri nella volta della Cappella Sistina, quando in cima alle impalcature l’incomparabile Carlo Pietrangeli insegnava a scoprire le invenzioni cangianti di Michelangelo nei manti delle Sibille, già nascosti dallo sporco dei secoli, e comunque non percepibili dal basso. E certamente – da amatori, non da conoscitori – quegli effetti si erano già ammirati in Pontormo. Però fra i batuffoli dei restauratori vaticani si riconosceva la forza originale dello stato nascente pittorico: un equivalente affrescato delle sete “thai” cangianti che si andavano comprando nelle prime spedizioni a Bangkok. Le Sibille e i Profeti con le stesse stoffe di quei bonzi che talvolta si davano fuoco? Rothko, comunque, morto nel 1970, non fece assolutamente in tempo a conoscere i restauri della Sistina. E secondo i suoi amici, quando veniva in Italia andava soprattutto a guardare il Beato Angelico a Firenze e le tombe etrusche a Tarquinia. Ma le “Forme”?… Sarà vero che il Colore (in certi casi) le mette “fra parentesi” come il Disegno? Nel lontano 1978, la gran mostra di Rothko organizzata da Tom Messer al Guggenheim di New York, data la struttura architettonica del monumento, aveva un andazzo da Sacro Monte, con tante icone singole in cellette successive, secondo un’estetica penitenziale e molto camminativa alla Gianni Testori. Ma chi vi passeggiava senza doveri o rimorsi accademici o dell’anima, poteva riscontrare che la documentazione e la filologia concedevano ampi spazi a una fascia di qualità medio-bassa. Quanta roba. Proprio l’opposto della politica culturale alla Fondazione Beyeler: dove nella bella struttura di Renzo Piano una luce magica da totem sacrali esalta in modi soft un Novecento di soli capolavori: solo Ernst e Mirò e Kandinskij supremi, Giacometti ancora di più, e perfino i Picasso degli anni Sessanta, fra gli idoli reverenziali di Matisse e dei Maori, della Melanesia e di Monet, di Baselitz e Kiefer e degli africani più “selvaggi”. In aura totalmente “rarefatta e ovattata”, intensamente reverenda e pia. (Altro che le provocazioni delle installazioni scandalose o impietose. Altro che le trasgressioni degli allestimenti dissacranti con i Gesù e le Madonne e i Maometti e i Buddha e le Anne Frank nella pupù o nella pipì, fra sovvenzioni e interventi e polemiche). Agli inizi – sintetizzando i brancolamenti della vocazione – si riconoscono le figurine “biomorfiche” dei surrealisti in esilio, tipo Matta, durante la guerra. Formine di spermatozoi e spirocheti pallidi e mentali e ossessivi nell’immaginario bohémien prima degli antibiotici. E gli echi; dei grandi vecchi moderni, da Vuillard a Matisse a Masson, nelle solitudini metropolitane del Subway affollato e anonimo poi tema di tanti efficaci atti unici nei teatrini off-off. Quindi appaiono i rettangoli celebri. Sempre sfilacciati e sfrangiati, nell’overlapping dei bordi lattiginosi. Ma agli inizi (nei tardi anni Quaranta), accumulati in varie dimensioni come televisori nelle vetrine a prezzi stracciati che però non esistevano ancora. Saranno forse parafrasi o memorie di pareti di pinacoteche ancora fitte e affollate di quadri rettangolari grandi e piccoli, come a Palazzo Pitti o nelle collezioni di Boston? Tutti appesi molto bassi, però: con l’occhio che guarda allo stesso livello della mano e del pennello dell’artista, nel suo atelier. E con un impulso a saturare emotivamente le pareti anche molto alte: come per sfidare ed esorcizzare gli immensi spazi museali contemporanei, sempre più pubblici e chilometrici. Altro che i piccoli formati dei post-impressionisti e Degas sulle tappezzerie dei tinelli piccolo-borghesi dei piccoli obbligazionisti lettori di Mallarmé. Ma proprio qui scatta la rivolta radicale di Rothko contro la Decorazione e l’ Arredo. In fondo a questo catalogo di Basilea sono riprodotte alcune foto di interni miliardari alla moda (anche dovute al celebre Horst, amico di Luchino Visconti) pubblicate da Vogue quarant’anni fa. Applauditissimi da stilisti e croniste tipo “Fashion, Madam!” (come sorrideva Rudi Crespi), ecco i Rothko del più puro Espressionismo Astratto appesi fra Mondrian e abat-jour e “mobiles” di Calder su consoles rococò di ferro battuto con teste khmer, cavallini Tang, tralci di orchidee costosissime, rottami d’arte di Ferrari da corsa, poltroncine Luigi XVI, Brancusi da comodino. Ed è qui che incombe la tragedia. Rothko apparteneva all’ ultima generazione, non solo americana, artistica e drammatica. Oggi inimmaginabile – dati i prezzi a molti zeri sul mercato della pubblicità e del successo – in qualsiasi conflitto col mondo o problema col self. (Macché più espressionisti astratti suicidi come Arshile Gorky o Rothko stesso, e anche meno “action painters” o scultori di junk come Jackson Pollock o David Smith, caduti automobilistici). Ma potrebbe sembrare un più vasto dramma esistenziale e culturale analogo alle rovine musicali viennesi tra Schönberg e Mahler e Zemlinsky e Webern e Korngold e Berg? Come tanti artisti e scrittori “americani” del primo Novecento, infatti Marcus Rothkowitz nasce in un villaggio russo ebraico nel 1903, e viene portato con la famiglia negli Stati Uniti poco dopo, seguendo le vicissitudini e le trafile di tutti gli immigrati, come anche gli italiani del tempo, chiamati dalle famiglie commercianti e subito messi a bottega e a scuola. Dunque, né guerre mondiali né persecuzioni, né deportazioni né olocausti, né polemiche tardive circa lo sfruttamento commerciale dello “Shoah business”. Ma se ci si suicida in tarda età e al massimo del successo (come Primo Levi) – e non si vive col più solare “complesso di Giove” (come Carlo Levi) – non si tratterà di un triste “complesso” ancestrale, psicoanalitico e biblico? Questa mostra così drammatica lo racconta in termini non-figurativi. Enigmatici, ma neanche tanto. Né facezie, né lamentazioni, né commemorazioni, né speculazioni, né cabaret. Non monumenti, non bestseller, non film o musical di cassetta intellettuale. Macché racconti molto caratteristici con rabbini o violinisti molto tipici nel nostalgico microcosmo dello “shtetl”. Mai il minimo “Auschwitz da reddito”. (Però, si uccise). Forse, dietro quelle splendenti epifanie o icone assolutamente non figurative e perfettamente astratte – così alla moda “in” degli anni Cinquanta, secondo Clement Greenberg e Harold Rosenberg e Meyer Schapiro – viveva e si tormentava un antico mistico, un moralista tradizionale, un pessimista severamente contrario allo sfruttamento artistico e commerciale delle sventure bibliche? Ma per tornare all’ atmosfera spirituale di quell’epoca – guerra di Corea e guerra “fredda”, Eisenhower e Foster Dulles, Piano Marshall per l’ Europa e strategia del “containment” verso l’Urss – si può ricordare che l’Espressionismo Astratto rappresentava allora l’Arte Ufficiale di Rappresentanza nella diplomazia culturale degli Stati Uniti all’estero. E poiché venne ritenuta un po’ troppo depressiva ai fini della politica antisovietica, venne sostituita negli anni Sessanta dalla Pop Art. Inventata dal grande Leo Castelli, ebreo invece elegante e sorridente e ottimista internazionale, e tutta impostata sulle icone della bandiera americana, delle zuppe e bibite tipiche, dei fumetti e della pubblicità da espansione coloniale nei paesi tipo “Yankee Go Home”. Qui la mostra di Rothko si addentra in un racconto più alto e drammatico. Contro ogni decorazione o propaganda o arredo, la sua pittura si fa sempre più sofisticata – archetipica, con colori da “urlo primale”. (Con ulteriori tragedie: molti colori troppo economici si sono presto alterati, come in quei Van Gogh dove tutti i rosa e i beige sono ormai bianchicci). E si palesa la sua tendenza o pulsione a creare con la pittura “spazi” che sono in realtà sacre cappelle. Tra false partenze e strade sbarrate, quante storie drammatiche vengono fuori. Le commissioni per grandiose sale da pranzo, ovviamente insensate. E qui si ricostruiscono i malintesi e i disappunti. Ma insomma, come si fa a commissionare dei murales per colazioni e cene di businessmen o professori a uno spirito così tragicamente depressivo e talmudico? Sembrano casi pazzeschi, oggi. Eppure nel 1958 il famoso architetto Philip Johnson lo incarica di ornare le pareti del costosissimo ristorante Four Seasons nel celeberrimo Seagram Building dell’illustre architetto Mies van der Rohe. E ancora nel 1962 il presidente dell’Università di Harvard gli affida la decorazione murale di un club accademico progettato dall’insigne architetto José Maria Sert. Va a finire malissimo. Le opere intensamente pensate e accuratamente realizzate (enormi) possono indurre a una meditazione sulla morte, a una commemorazione di cari defunti, a un esame di coscienza toccando il legno più vicino, ma non già a ordinare aragoste e prosciutti con birra o whisky, accendendosi poi magari un sigaro. Così Rothko stesso restituisce l’anticipo alla società Seagram, e manda le opere alla Tate Gallery londinese. Mentre a Harvard entrava troppa luce dalle vetrate, bisognava tirare i tendoni, evitare che i mobili di servizio coprissero e le sedie urtassero i dipinti, che furono presto smontati, ormai scoloriti. Sono qui a Basilea, sinistri e lugubri, forse a causa dei materiali cheap rovinati, mortuari come una cappella per militi ignoti. E un umor nero molto patologico scandito da fasce verticali solenni, come spettri di pilastri. Vengono in mente i celebri apparati funebri medicei e asburgici, a San Lorenzo o nella chiesa dei Cappuccini. Ora però da Beyeler sono ricostruiti come “allestimenti” gli accrochages eseguiti da Rothko stesso alla Sidney Janis Gallery di New York e alla Phillips Collection di Washington, negli anni Cinquanta. E si constata finalmente che tutto il suo cammino spirituale tendeva molto religiosamente verso l’ideale della Cappella Assoluta. Non so di quale religione. Ma il senso del Sacro appare assoluto, e profondo. Con luci basse, da lui allora volute, per un senso religioso molto mesto. (E c’è un suo tremendo autoritratto del 1936, già pesantemente iettatorio e macabro). Macché sale da pranzo affrescate, in ville e palazzi rinascimentali o rococò o Art Nouveau o Déco. Qui non verrebbe in mente di chiedere neanche una camomilla. Si entra in punta di piedi, si abbassa la voce, si esercita un raccoglimento raro. Altro che le provocazioni sulle Ultime Cene e i Crocefissi e le Sfilate del Prêt-à-Porter con gli interventi elettorali degli intellettuali impegnati. Qui, le osservazioni si bisbigliano. Altro che tirar fuori gli spray e far graffiti sui muri bianchi, perché come writers recensiti e favoriti siamo una specie protetta. Ma per esempio, nella cappella di Sidney Janis, si può notare che vis-à-vis di un bellissimo “Giallo-Viola su Rosa” già Panza di Biumo (ora a Los Angeles) fa pendant uno stupendo “Doppio Viola-Giallo” proveniente, come altri capolavori, dal Museo d’Arte Contemporanea di Teheran. Cioè dalla ex-collezione dello Scià e di Farah Diba, fino a poco fa reclusa ai visitatori. Allora qui tornano i vecchi ricordi. Quando l’Iran era una potenza cosmopolita, con banche e compagnie aeree in sedi prestigiose in ogni capitale, giravano le storie di questa magnifica collezione persiana di arti contemporanee. A fianco di spettacolari rappresentazioni di Peter Brook e Bob Wilson e tutti. Ma quando i mercanti d’arte di New York, in un’epoca di aste ancora povere, fecero magnificare dai giornali l’acquisto a un prezzo altissimo di “Blue Poles” di Jackson Pollock da parte di un ricco museo australiano, subito lo Scià lo fece richiedere, come primato collezionistico. Mentre quel museo pubblico non lo poteva rivendere. Così gli astuti mercanti americani proposero al Trono del Pavone un altro Pollock, naturalmente più bello e più importante, nonché molto più costoso… Oggi, davanti ai Talebani islamici, semmai ci si potrebbe chiedere: se nel mercato dell’Espressionismo Astratto l’idolo o feticcio non rappresenta una divinità in figura umana ma icone religiose in forma di rettangoli acrilici costosissimi, come la si metterà con l’iconoclastia? Procedendo però negli spazi con aure così intensamente sacrali, in un “environment” di luci e colori così “overlapping” sui bordi cangianti, il nero-su-nero depressivo avanza sui grigi negli anni Sessanta, mentre i nostri Manzoni e Castellani marciavano sul bianco, e Fontana tagliava colori vivaci. Forse un ritorno di pessimismi ebraici atavici, per niente spiritosi e contro ogni tentazione commerciale? Rothko si ammazza, molto drammaticamente, al colmo del successo, nel 1970. E qui, una memoria. Qualche giorno prima, dà un grande party nel suo studio. Ci vado, con Paolo Milano, grande affettuoso amico suo e mio, fra centinaia di festeggianti, decine di Rothko alle pareti, bottiglioni di vino bianco, bicchieri di plastica per terra. E lui, un po’ spettinato e interdetto, fra tanta gente allegra più o meno “imbucata” o “radical”. Con Saul Bellow e con De Kooning, altri amici di Paolo Milano, quando venivano a Roma certo si parlava di più. Ma in quegli anni c’erano parties dagli artisti ogni sera, a Manhattan: si andava e veniva anche dalla Factory di Andy Warhol. (Ricordo anche le barzellette ebree d’allora. Il vecchio polacco nascosto e salvato nel convento di suore va a ringraziare la Superiora. E lei: “Tutto OK, solo che invece di «Mother Superior» mi avete sempre chiamato «Mother Schapiro»”). Poco dopo, Rothko si suicida, con dettagli orrificanti sui giornali. “Un caso da manuale di accanimento omicida sul proprio corpo”. Dal catalogo di Basilea si impara con grande commozione che aveva voluto quel party per “testare” le opinioni sulle sue opere sempre più depressive, fra il grigio e il nero. E noi lo festeggiavamo come al top del successo… Anni e anni dopo, visitando a Houston la sua vera definitiva cappella, commissionata dalla famosa signora Dominique de Menil e religiosamente astratta, e rarefatta, e non-confessionalmente mirabile, troppo tardi si è capito quale grande mistico avevamo sfiorato, fraintendendolo.

Leggi La Cultura, la Morte di Andrea Cortellessa, che presenta questo scritto di Arbasino.

In copertina: Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini
© mondadori portfolio/marisa rastellini

Alberto Arbasino

(Voghera, 22 gennaio 1930-Voghera, 22 marzo 2020) è stato fra i maggiori scrittori italiani di secondo Novecento. Dopo studi di Medicina e una laurea in Giurisprudenza (alla Statale di Milano nel 1955), preludio a mai percorse carriere accademiche e diplomatiche, esordisce coi racconti delle Piccole vacanze, nel 1957 da Einaudi, con l’editing di Italo Calvino; ha preso poi parte al Gruppo 63. Prolificissimo giornalista culturale – prima sulle colonne del «Giorno», poi del «Corriere della Sera» e, sin dalla sua fondazione, della «Repubblica» –, ha pubblicato testi teatrali, poetici, soprattutto saggistici (da ultimo raccolti, presso Adelphi suo editore dal ’93, in volumi come “Marescialle e libertini”, “L’ingegnere in blu”, “Ritratti italiani” e “Ritratti e immagini”) e di reportage (da “Parigi o cara” ad “America amore”); ma anche i romanzi “L’Anonimo lombardo” (1959), “Fratelli d’Italia” (1963), “Super-Eliogabalo” (1969), “La bella di Lodi” (1972) e “Specchio delle mie brame” (1974), che resta il suo ultimo: diversi dei quali riscrivendoli e ampliandoli a più riprese (di “Fratelli d’Italia” ha pubblicato quattro diverse versioni). La sua opera narrativa è raccolta in due volumi dei «Meridiani» Mondadori, curati da Raffaele Manica nel 2009-2010. Dall’83 all’87 è stato deputato del Partito Repubblicano Italiano.

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