Marzo 2020, tempo di Pandemia. Sorprendente e inaudita, ci coinvolge tutti e difficilmente si farà dimenticare tanto presto. Non ora che i casi di contagio sono ancora in aumento, non domani, quando ci troveremo a fronteggiare le prevedibili ricadute economiche, politiche, sociali. Eppure, nonostante un’Italia completamente blindata, nonostante un Pianeta che, in ritardo, fra gaffes e incredulità, inizia ad adeguarsi, nonostante i continui allarmi e divieti che vengono comunicati a gran voce e, soprattutto, nonostante i bollettini che elencano il numero crescente di contagi e decessi, ci sono loro. Loro. I superficiali. Gli invincibili. I negazionisti. Quelli che nonostante tutto, se ne fregano. Trasgrediscono. Escono. Si trovano. O almeno ci provano. Ipotizzano. Pontificano. Festeggiano. In una parola, negano.
Tralasciando le più disparate motivazioni di superficie che possono portare a questo genere di comportamento, vorrei andare più a fondo e chiedermi che cosa, di preciso, stanno negando. Il contagio da covid-19 può portare alla malattia. La malattia può portare alla morte. Lo urlano tutti i bollettini. Oh si, i bilanci raccontano di una mortalità soprattutto senile, i soggetti deboli. Fra essi ci sono però anche milioni di giovani: malati oncologici, immunodepressi, persone con patologie autoimmuni. Fra questi c’era, ad esempio, Diego Bianco, soccorritore 118, deceduto a 47 anni per covid-19; Maurizio Pinto, amministrativo di 38 anni; Fabrizio Marchetti, di soli 32 anni, deceduto lo scorso venerdì 13 marzo. Eppure, nonostante tutto, ci sono Loro. Loro che “non si chiudono in casa a 25 anni, neanche se a dirlo è il Governo”; loro che “sono giovani e quindi meno colpiti, possono uscire a divertirsi”; loro che “continuano a fare la loro vita come se nulla fosse”. Queste dichiarazioni venivano rilasciate apertamente nei servizi televisivi, fino a una settimana fa. E adesso?

Da cittadina rispettosa dei decreti e sprovvista di un cane, seguo il flusso di umori e movimenti dai molti canali social a mia disposizione. Quanto osservo mi viene prontamente confermato nel giro di poco: negli ultimi giorni sono stati effettuati dalle forze dell’ordine oltre un milione e mezzo di controlli sui decreti varati per fronteggiare l’attuale emergenza. Ne sono seguite quasi 46mila denunce, in continuo aumento, per aver violato il divieto di spostamento, di cui quasi mille per aver dichiarato il falso. Cosa, a fronte di una tale evidenza, potrebbe portare ad adottare questo genere di comportamento? Personalmente, non credo che si tratti soltanto di quella scanzonata incuranza delle regole di italiana natura: questa motivazione non regge di fronte a una minaccia annunciata e conclamata. Non regge di fronte a milioni di condivisioni nel mondo dei social, quello più direttamente vicino alle giovani generazioni, riguardo a perdite, appelli, testimonianze reali di operatori sanitari. No, deve trattarsi necessariamente d’altro.
Negazione. La parola che continua a essermi sussurrata alle orecchie da settimane, forse da un qualche genio della lucidità cosciente. Negazione della malattia, questa anomalia così poco raccontabile, così poco instagrammabile. Negazione della malattia che può portare alla morte, della morte stessa, che non può toccare me, è sempre altrove. Negazione, in sostanza, di una parte fondamentale della vita, del difetto, della nota stonata, del tempo morto, perso, come quello di questa quarantena obbligata, da cui bisogna trasgredire. Una parte scomoda, che non piace a nessuno, l’ospite sgradito per cui non c’è mai posto. Perché il problema, sempre che esista davvero, sempre che non sia un complotto, è sempre un po’ più in là. Anche nell’appartamento accanto, va comunque bene. Un metro più in là, va comunque bene. Finchè non mi colpisce da vicino, va comunque bene. Mors tua, vita mea. Sempre che sia vero. Non importa che i deboli siano a rischio. Sono le persone meno adatte alla vita, evidentemente. Sono sacrificabili.
La prospettiva più raggelante si presenta quando Loro si trovano al governo e ti rendi conto che no, non si tratta di un sogno lucido. Boris Johnson in Inghilterra puntava all’immunità di gregge. Londra ha cercato di lavarsene letteralmente le mani, senza amuchina. Obiettivo del primo ministro inglese: ignorare il problema. Semplicemente, sacrificare le fasce deboli. E’ esattamente in questo modo che è iniziato uno dei più grandi genocidi della storia, circa ottant’anni fa. Prima di arrivare alle questioni razziali, Hitler posò il suo sguardo su deboli, disabili e anziani. Erano sacrificabili. Di più: erano difettosi e andavano eliminati. Fastidiose sbavature nella grande idea di perfezione. Questa volta, fortunatamente, è andata in un altro modo: covid-19 ha un certo talento per annunciarsi in grande stile e l’Europa ha avuto un brutto risveglio dal sonno; ma si sa, e cito una saga cinematografica che trovo particolarmente appropriata: “Siamo creature stupide e incostanti, con la memoria corta e un grandissimo talento per l’autodistruzione”, Hunger Games.
Loro. I giovani. Gli invincibili. Quelli con l’agenda piena, che hanno sempre altro da fare, altre priorità, dal primo ministro al compagno d’aperitivo. Si tratta veramente di una questione generazionale? O piuttosto di una gioventù dell’anima? Carla Bruni, che si esibisce pubblicamente in una simulata crisi respiratoria a scopo canzonatorio, sarebbe felice di dimostrare, in questo contesto, qualche decennio in meno?
Voglio un pensiero superficiale / Che renda la pelle splendida /Senza un finale che faccia male / Coi cuori sporchi / E le mani lavate, cantavano gli Afterhours.
Nel macro o nel micro, non trovo grandi differenze fra questi atteggiamenti. La negazione della malattia è la negazione della nostra stessa umanità. Il rifiuto della debolezza, della ruga, della diagnosi è, ancora, la ricerca di quella stessa perfezione totalitaria nazista. E’ sempre più facile cambiare canale, ignorare la notizia, compatire o deridere il debole, il diverso, il contagiato. E’ tutto un gran nascondere la polvere sotto il tappeto del mondo. E intanto i muri si alzano, le frontiere si chiudono e la divisione fra noi e loro diventa sempre più invalicabile. Per cosa? Per non riconoscere che siamo tutti potenzialmente deboli, fallibili, mortali. Si tratta, alla base, di un problema di consapevolezza personale, in assenza della quale intelligenza e compassione, o almeno lucidità, diventano utopie lontanissime, facendoci dimenticare le nostre caratteristiche più umane. Si tratta, alla base, di analfabetismo emotivo e umano.

Non la politica può aiutarci in questo salto di coscienza. La politica dovrebbe, lucidamente, preservare, organizzare, garantire, sostenere, ma essa è fatta da uomini. E la Barbarie che viene di Isabelle Stengers è già qui. Il ruolo degli educatori è fondamentale; lo sguardo profondo dentro noi stessi è imperativo. E’ necessario ritrovare quell’umanità dimenticata o impararla da zero? Possiamo avere vent’anni o sessanta con ben poca differenza, senza aver compiuto quel cammino. Ora più che mai risuona con urgenza l’appello di Gaston Bachelard: scienziati e politici ascoltino poeti e artisti: essi vedono il mondo possibile. Lo ricordo con le parole di uno scrittore che in questo momento sta lottando per guarire da questo virus, in un ospedale di Oviedo, Luis Sepúlveda: “La lotta contro i nemici dell’umanità si combatte in tutto il mondo, non richiede né eroi né messia, e inizia dalla difesa del più fondamentale dei diritti. Il Diritto alla Vita”.
Le immagini qui riprodotte sono fotografie di malati terminali tratte dal progetto Noch mal leben (Vivere ancora), di Walter Schels e Beate Lakotta.