«[…] al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia […] e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio». E ancora: «Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà verso il resto della comunità nazionale». Due frammenti che descrivono un contesto d’urgenza provocato da una violenta epidemia che pare minacciare tutti e contro la quale governi e cittadini devono lottare insieme, anche se per bloccarla è necessario l’isolamento al fine di evitare il contagio e la conseguente propagazione.
Uno scenario, quello provocato dall’epidemia del coronavirus, che ha stravolto nelle ultime settimane i ritmi dell’ordinaria vita quotidiana in zone molte diverse tra di loro sparse per il mondo. Il termine epidemia deriva dal greco ἐπί «sopra» e δῆμος «popolo», e in termini medici si riferisce a un morbo che si espande indifferentemente sopra appunto un popolo, attaccando tutti, non importa età, sesso o razza. In termini mitologici lo stesso termine può riferirsi alle feste dedicate ad Apollo in Delfo e Mileto, e a Diana in Argo. Certamente, non si tratta di una festa quella a cui assistiamo, forse, se lo sarà, sarà quella del virus e della sua propagazione in tutti i continenti. Virus che senza pregiudizi e senza badare a ricchi e poveri non dice di no ad un corpo passibile di essere contaminato, sia esso in Africa, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti o in America Latina.
I brani succitati, che paiono descrivere la realtà vissuta in Cina qualche mese fa e, ora, in Italia, non sono un annuncio di Conte, ma appartengono al romanzo Cecità (1995) di José Saramago. Da un giorno all’altro, una città e i suoi abitanti si vedono in preda a un’epidemia di cecità che provoca un collasso e costringe tutti a cambiare i propri modi di vita, le proprie forme di vita. Ambientato in un luogo indefinito, in un tempo indeterminato, con personaggi che non hanno un nome, il romanzo di Saramago mette in atto una potente macchina narrativa per riflettere sui rapporti umani, sul potere, sulla paura ingenerata dall’epidemia, sulla sopraffazione.
Non è ovviamente la prima volta che il tema del contagio viene affrontato in letteratura: da Boccaccio a Manzoni, da Camus a Canetti e a Jack London, esso è un argomento che ha sempre attratto perché, appunto, mette in risalto una serie di implicazioni che riguardano il comportamento umano (basti vedere negli ultimi giorni l’aumento esponenziale di vendita nelle librerie di questo tipo di narrativa). Ma si potrebbe arrivare al Lucrezio del De Rerum Natura o a Tucidide, con la descrizione della peste che colpì Atene nel 430 a.C., il cui resoconto non manca di sottolineare la difficoltà di agire razionalmente. Nel Novecento, come sappiamo, parlare della peste diviene sempre più una forma allegorica, come avviene nel testo di Saramago o in quello di Camus, col suo inconfondibile incipit, «Oggi la mamma è morta».
Libri di epoche e stili molto diversi che si interrogano sul timore che l’uomo ha di «essere toccato dall’ignoto», come afferma Elias Canetti nel suo capolavoro Massa e potere, tradotto da Furio Jesi: «Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dell’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico». Tanto più quando si tratta di un elemento non del tutto conosciuto, che può soffrire delle mutazioni e il cui espandersi lascia dietro di sé una scia di morti. Se bloccare il virus non è ancora possibile, è però possibile seguire i numeri, i dati che vengono comunicati ad ogni istante. Tutto questo grazie a una modernità sempre più connessa con l’aiuto dei mezzi tecnologici: ipercomunicazione e iperinformazione. Però quella che dovrebbe essere un elemento di mediazione e magari di prevenzione, l’accessibilità all’informazione, non ha ancora avuto un ruolo decisivo contro il diffondersi del coronavirus. A questo proposito si fa interessante ricordare le parole di Calvino in una delle sue Lezioni: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza».
L’ipercomunicazione e l’iperinfomazione non hanno dunque finora aiutato nella prevenzione, anzi. Forse tutto appariva così lontano – un focolaio cinese –, il cui sbarco in altre parti sembrava una possibilità molto remota. Senza prevenzione e senza immediatezza di azione, ora, il covid-19 sfida e fa collassare i sistemi sanitari, mette a nudo le debolezze di un’Europa che si dimostra impreparata e di un’Italia che ormai si ferma e chiede ai cittadini di pensare alla comunità e, momentaneamente, di rinunciare alla libertà di andare e venire.
Ed ecco qui come il legame tra politica e medicina, che ovviamente non si limita a questa specifica congiuntura, diviene sempre più evidente nella nostra contemporaneità. Lo stato di emergenza provocato dall’epidemia virale ha di conseguenza attivato uno stato di emergenza politico. La dedizione della politica nei confronti della “cura” dei cittadini e dello stato seguono questa linea della biopolitica. Come dice Roberto Esposito, «tutti i conflitti politici attuali hanno al centro la relazione tra politica e vita biologica», un tratto della deformazione della politica e, al contempo, della sua decomposizione.

Gli stessi che hanno testimoniato da lontano (attraverso i vari schermi) la crisi vissuta in Cina, l’aumento dei contagi, i decessi, la mancanza di mascherine e amuchina, ora la vivono da vicino, anzi, sulla pelle, sia in modo diretto che indiretto. L’espansione a qualsiasi latitudine, in modo così veloce – come se tutti noi fossimo delle possibili prede in una specie di nuovo game mondiale –, mette in evidenza il nostro esiguo equilibrio, quasi sempre nascosto dietro alle immagini e ai numeri di un mercato che pensa più che altro al suo progresso caotico. E ora, anzi, è questo stesso mercato che sembra patire, ancorché ci sia sempre qualcuno che ci guadagna. Ma che cos’è successo in questi mesi? Una parte del mondo si credeva protetta? C’era un’armatura invisibile? Pare che tante tappe, nozioni e percezioni siano state trascurate. Ci si potrebbe chiedere se il pregiudizio verso l’altro, considerato diverso, potrebbe essere una delle risposte al complesso quadro al quale assistiamo oggi. Ma guardare all’esperienza dell’altro forse in questo momento è una via d’uscita.
Le prime parole di Agamben hanno stimolato un effervescente dibattito. La sorveglianza dell’epidemia è legata alla sorveglianza dei singoli. Le azioni d’emergenza, lo stato di eccezione che si vive, da un lato necessario, avranno anch’esse un costo salato. Una specie di colpo di stato messo in scena da un elemento esterno: il virus e la sua paura. Se l’ignoto, potentissimo, è il coronavirus che affligge tutti, ci costringe a stare a casa come se fossimo dei prigionieri, l’ignoto sarà anche ciò che si presenterà dopo questa tempesta virale. Ora siamo preoccupati, come è giusto che sia, con l’epidemia, ma ci sarà anche un post coronavirus. L’ingovernabilità del virus, a cui tutti assistiamo, gli altissimi numeri di decessi e contagiati, come ha sottolineato Žižek, può ravvivare altre epidemie di virus ideologiche che in alcuni erano forse dormienti. Le macerie lasciate non saranno poche, sia a livello economico che esistenziale. In effetti questo vivere su una strana soglia, una specie di campo minato di necessarie costrizioni, risveglia negli stessi corpi delle angosce.
Senz’altro una visione di mondo è implosa, si è frantumata con l’arrivo del coronavirus o era già implosa e ora si presenta in modo così virulento sul corpo dello stato e dei singoli cittadini. L’emergenza di solito richiede l’urgenza; ma noi già viviamo il più delle volte, senza renderci conto, sotto il regime dell’emergenza. Però un’emergenza significa anche imparare sul punto del collasso, rompere con i giochi del possibile davanti a un imprevisto. L’esigenza di una uscita dall’ordinario si impone ora anche sul piano economico e a livello mondiale; e la società patisce con isolamenti e chiusure, mentre il coronavirus mette a rischio l’economia globalizzata. Il coronavirus non attacca solo il corpo dell’uomo, la sua viralità si espande e, pian piano, infetta vari livelli del nostro stare al mondo. «È di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria», si legge in un altro passaggio di Cecità.
La paura dell’altro, da ciò che viene da fuori, se da un lato è una misura protettiva, dall’altro ci toglie dal contatto (e contagio) appunto con l’altro, ci isola in un egoismo sempre più crescente, che ora nelle vesti del discorso virale può catturarci ancor di più; ma essa è soprattutto un’altra metamorfosi della crisi in cui siamo inseriti come umani e come comunità.
Immagini: frames dal film Blindness (2008), diretto da Fernando Meirelles.