È innegabile che il filosofare acquista un’indesiderata
somiglianza d’espressione e di contenuto con
il modo di operare degli schizofrenici.
Sigmund Freud
Jean Paul… chi era costui?
Intanto all’anagrafe risulta Paul Friedrich Richter (fervido repubblicano, aggiunse Jean togliendo il secondo nome e il cognome in omaggio all’amato Rousseau).

Di umilissime origini e attanagliato dalla fame fino ad età adulta (avrebbe sopperito poi con sempre più insistite libagioni), praticamente autodidatta e per anni maestro elementare in un paesino dell’Alta Baviera, svoltò con un paio di romanzi, Vespero (1795) e L’età della stupidera (1805), che batterono il record di vendite fino ad allora detenuto dai goethiani Dolori del giovane Werther… che altro dire? Amico sincero di Herder e di Hegel che lo laureò honoris causa a Heidelberg, nemico altrettanto sincero dei weimariani (Schiller & c.) come dei berlinesi (Schlegel & c.), capostipite del nichilismo moderno col Discorso del Cristo morto (1797) e teorico sommo dell’umorismo con Avviamento all’estetica (1804).
E Attila Schmelzle, chi fu? Un predicatore di campo (cappelano militare diremmo noi) licenziato perché vilmente fuggito prima della battaglia epperò deciso a scagionarsi chiedendo un colloquio al suo generale. Sto parlando del protagonista di Viaggio a Flätz, operetta composta da Jean Paul in una Bayreuth occupata dalla Grande Armée napoleonica il giorno dopo la battaglia di Jena, 14 ottobre 1806. Per niente scosso dalla disfatta prussiana ma infastidito dagli schiamazzi della soldataglia, il Nostro aveva trovato un’oasi di pace in un Gasthof fuori porta dove l’ostessa lo rifocillava di patate lesse e birra scura.

Don Abbondio teutonico, Attila è un bizzarro codardo in grado di ammantare il suo difetto di coraggiosa lungimiranza al punto da costruire un suo sistema metafisico che nel corso del viaggio si trasforma in paranoia pura, nonostante i santippeschi richiami alla realtà della moglie fedele.
Considerato dall’autore un vertice del comico, il Viaggio ha avuto nel tempo lettori entusiastici, da Tieck a Hebbel, da Kierkegaard ad Arno Schmidt, mentre minor fortuna gli arrise quanto alle traduzioni: un capitoletto in inglese grazie a Thomas Carlyle, e uno in italiano grazie a Cesare Cantù.
Ci provo adesso io, a tradurlo intero, per i tipi di Del Vecchio. Uscirà a maggio, in tempi di coronavirus sperabilmente sconfitto. Per intanto qui sotto la pagina finale. Ogni riferimento a fatti, idee e persone rinvenibile in essa, come anche in questa mia premessa, è ovviamente immaginario.
Dario Borso

Così pervenimmo entrambi innamorati all’hotel; e avrei forse nel bel giorno vissuto ancora l’estate tardiva di una splendida notte fonda, se il diavolo non mi avesse condotto sul nono volume di Lichtenberg, e precisamente alla pagina 206, dove sta scritto questo: «Ma è possibile che in futuro i nostri chimici trovino un modo per dissolvere improvvisamente la nostra atmosfera mediante una specie di fermento. Così il mondo potrebbe soccombere.» Ah, proprio vero! Siccome il globo terrestre sta incapsulato nel più grande globo atmosferico: scopra un furfante chimico su una qualche remota Isola dei Furfanti o nella Nuova Olanda un mezzo di dissolvimento dell’atmosfera, simile più o meno a ciò che una scintilla è per un carro di munizioni: in poche ore il mostruoso sbuffante ciclone mondiale afferra alla gola me e voi a Flätz, e il mio respiro nell’aria asfissiante è spacciato come tutto quanto – La terra è divenuta un gran calvario pieno di forche, dove persino il bestiame è stecchito – Misture di vermi e cimici, aratri di Bradley contro i formicai e polveri topicide e trappole per lupi e casse mutue per i capi morti di bestiame non sono dunque più particolarmente necessari nell’asfissia mondiale, nel flagello mondiale, e il diavolo s’è preso tutto nella bartolomeica notte in cui è stato casualmente scoperto il maledetto «fermento».
Comunque celai a mia moglie ogni pensiero notturno di morte, poiché o avrebbe solo condiviso il mio dolore o addirittura mi avrebbe canzonato allegramente.
Al mattino ognuno partì lieto, eccettuato me; ché pure davanti alla migliore aurora tenevo ancor sempre lievitante in testa il notturno fermento del diavolo e mezzo di dissolvimento del mio globo cerebrale oltreché del terrestre; una dimostrazione che la notte non aveva per nulla fatto esagerare me e la mia paura. Anche il misterioso passeggero dell’andata prese di nuovo posto in carrozza e mi guardò come al solito, senza effetto però; stavolta infatti che avevo in testa sconvolgimenti mondiali, non solo i miei, il passeggero era per me più uno spasso e un’attrazione; come nessuno mentre gli segano un piede avverte il mal di cuore o tra il ronzare dei cannoni si guarda da quello delle vespe, allo stesso modo un passeggero con tutte le diffide che il suo viso un po’ sospetto lancia nel mio futuro prossimo o remoto, poté sembrarmi solo ridicolo in un momento in cui riflettevo che il «fermento» avrebbe potuto durante il mio tragitto da Flätz a casa venire casualmente scoperto e rilasciato da qualche ricercatore e sperimentatore europeo o americano!
Purtroppo rimasi sprofondato in questo Giorno Finale del Fermento con tutti i sensi, senza più per l’intero viaggio di ritorno provare e notare altro che giunsi giusto là, dove al contempo vidi il passeggero aggiunto riandare per la sua strada.
Solo la mia mogliettina guardai costantemente nel tragitto, in parte per vederla ancora tanto a lungo quanto durano vita e occhi, in parte per anche al minimo pericolo da lei corso, fosse poi grosso o addirittura un intero franante Goldau e devastante Giudizio Universale, morire se non per lei almeno presso lei, e così unito a lei abortire una vita tormentata e tormentosa in cui non è stata comunque esaudita la metà dei miei voti al suo riguardo.
Così sarebbe dunque in sé concluso il mio Viaggio – – Solo, mi sta ancora in testa il maledetto fermento. Vivete dunque bene, finché rimangono atmosfere da inspirare.
Il vostro
Attila Schmelzle
Testo tratto da Jean Paul, Viaggio a Flätz, di prossima uscita per Del Vecchio Editore (traduzione di Dario Borso).
In copertina: William Hogarth, The World’s End, 1764